Summa Teologica - II-II |
1 - La prima disgrazia di questo trattato è stata quella di essere caduto nelle mani dei giuristi, ai quali non vengono riconosciute particolari attitudini alla sintesi e all'approfondimento filosofico.
Gli stessi grandi commentatori di S. Tommaso hanno subito l'influsso della loro mentalità casuistica, più preoccupata di risolvere le beghe e i cavilli dei litigiosi contemporanei, che di approfondire la dottrina teologica.
S. Tommaso invece anche in questo trattato non smentisce il suo compito di teologo cristiano, senza nulla trascurare del patrimonio culturale ereditato dagli antichi filosofi e dagli antichi giuristi.
Siamo nella morale particolare; ma non va dimenticato che questa dipende dalla morale generale, trattata ampiamente nella Prima Secundae.
In essa S. Tommaso non aveva parlato solo degli atti umani e degli abiti operativi ( virtù e vizi ), ma anche dei loro principi, cioè della legge e della grazia.
Se si volesse ordinare la morale speciale, cioè l'analisi delle varie virtù teologali e cardinali, in riferimento a questi due principi, si dovrebbe dire che le virtù teologali si ricollegano direttamente alla grazia, perché ordinate in maniera immediata all'unione con Dio, mentre le virtù cardinali, e soprattutto la giustizia, sono connesse intimamente con la legge.
Quest'ultima infatti ha un compito prevalentemente negativo: tende cioè a rimuovere gli ostacoli, ossia l'attaccamento disordinato dell'anima alle cose create.
In questa prospettiva appare evidente che, se non ci fosse la rivelazione divina, e quindi l'ordine teologale della grazia, la giustizia sarebbe - dopo la prudenza - la virtù principale dell'uomo.
Essa infatti è il fine cui sono subordinate le altre virtù cardinali ( cfr. II-II, q. 123, a. 12, ad 3 ).
Inoltre la giustizia attua le norme fondamentali della vita umana, cioè le leggi naturali espresse nel decalogo.
Ciò è tanto vero che S. Tommaso identifica i precetti della giustizia con quelli del decalogo ( cfr. II-II, q. 122, a. 1 ).
A differenza poi della prudenza, della fortezza e della temperanza, la giustizia ha una complessa articolazione di parti specifiche, dato che la vita umana è essenzialmente vita associata e quindi di relazione.
Si deve finalmente notare che la giustizia abbraccia tra le sue parti potenziali la massima virtù naturale, cioè la religione.
Per ragioni sistematiche questa è inclusa tra le parti "imperfette" della giustizia, ma sul piano morale « est potissima pars iustitiae » ( II-II, q. 122, a. 1 ), superiore alla stessa giustizia cardinale e legale.
2 - Noi, per motivi editoriali, siamo costretti a stampare in un volume a parte il trattato sulla religione ( qq. 80-100 ) e in un terzo volume presenteremo le questioni successive, cioè dalla q. 101 alla q. 122.
Però basta scorrere l'indice di questo primo moncone del trattato, per rendersi conto della gravità dei problemi presi in esame.
Importantissima la questione iniziale ( q. 57 ) sulla nozione di diritto oggettivo, su cui si fonda tutta l'originalità della concezione tomistica, specialmente di fronte al soggettivismo giuridico del pensiero moderno.
Il diritto alla vita e all'integrità personale ( qq. 64-65 ), il diritto di proprietà ( q. 66 ), il diritto all'onorabilità personale, sia in sede giuridica che in sede estragiudiziale ( qq. 67-76 ).
Qualcuno forse troverà difficile riscontrare nei titoli degli articoli e delle questioni tali diritti: S. Tommaso infatti ne parla in maniera indiretta, trattando cioè degli atti contrari alla giustizia commutativa: omicidio, mutilazione, furto, rapina, ingiustizie in foro giudiziario e offese contro la fama, l'amicizia e l'onore.
Questo procedimento è conforme al criterio generale, dettato dalla formulazione ordinaria della legge che è piuttosto negativa.
Poiché mentre le leggi positive non obbligano pro semper, quelle negative obbligano semper et pro semper ( q. 79, a. 3, ad 3 ); cosicché l'infrazione delle prime provoca l'omissione, mentre quella delle seconde provoca la trasgressione, che riveste ( a parità di condizioni ) maggiore gravita ( q. 79, a. 4, ad 2 ).
3 - Non si richiede nessuno sforzo per indicare la divisione generale del trattato.
L'Autore in questo ha risparmiato la fatica a tutti i suoi commentatori, dando esemplarmente lo schema all'inizio della q. 57.
La tabella che presentiamo a pag. 26 è desunta dal testo, è facile notare la sproporzione apparente tra le quattro parti fondamentali della divisione.
La seconda abbraccia quasi per intero il trattato, mentre la terza e la quarta si riducono a due questioni.
É evidente che codesta sproporzione è intenzionale; poiché il dono e i precetti da un punto di vista formale hanno funzioni ben distinte, anche se il teologo non trova molte cose da elaborare e discutere in proposito.
S. Tommaso in tutte le virtù, non escluse le cardinali, trova sempre il dono corrispondente; che forse non persuade i teologi moderni, ma che per lui ha la funzione di porre in evidenza l'aspetto passivo o mistico nell'esercizio della virtù.
E d'altra parte con tale schema ci offre la chiara prospettiva della virtù soprannaturale, infusa, che non si esaurisce nell'ordine della moralità naturale.
4 - Vedremo in seguito perché l'Autore inizia il trattato dal diritto anziché dalla giustizia; fermiamoci intanto a esaminare la divisione.
Per tutte e quattro le virtù cardinali egli ricorre ai tre tipi di parti di cui abbiamo già parlato nel De Prudentia ( q. 48 ); ma in nessun trattato le parti soggettive, cioè le specie, e le parti potenziali hanno uno sviluppo così imponente.
Per fermarci alle parti soggettive, che costituiscono il presente volume, è doveroso ricordare la principale fonte filosofica del De Iustitia nel 5 Libro dell' Etica Nicomachea.
Aristotele non sviluppa i vari tipi di giustizia, come fa S. Tommaso, però ne offre la tripartizione fondamentale.
Anzitutto distingue la giustizia in legale e particolare ( cfr. Comment. D. Th. in 5 Ethic., lectt. 1-3 ); suddivide quindi quest'ultima in distributiva e commutativa.
Non solo, ma pur non sviluppando i vari tipi di commutazione, offre il criterio per distinguerli mediante la volontarietà: commutazioni volontarie e involontarie ( cfr. 5 Ethic., c. 5, B 1131 a ).
Dopo questa divisione, che l'Aquinate utilizza nella prima parte del suo trattato, il Filosofo prende in esame il giusto mezzo della giustizia commutativa, e distributiva, per poi insistere lungamente sul contrappasso.
S. Tommaso parlerà di questi ultimi elementi aristotelici alla q. 61, aa. 2, 4.
Aristotele conclude il suo trattato sulla giustizia parlando dell'epicheia e della giustizia metaforica ( verso se stessi ).
Anche in questo ( a prescindere dalla giustizia metaforica ) l'Aquinate approssimativamente segue l'ordine aristotelico, in quanto pone l'epicheia - che è la parte soggettiva principale - dopo tutte le parti potenziali.
C'è però in questa dislocazione tomistica anche un motivo teologico.
Essendo l'epicheia la parte più nobile della giustizia legale, prepara il passaggio al dono soprannaturale e infuso, che perfeziona la virtù.
É superfluo dire che Aristotele non parla nè del dono, nè dei precetti.
Ma egli non parla neppure delle parti potenziali, se si eccettua la liberalità ( cfr. 4 Ethic. cc. 1-3, B 1119 b-1122 a ).
5 - S. Tommaso, pur seguendo nello sviluppo del trattato quest'ordine aristotelico, ne introduce un secondo basato sull'importanza dell'oggetto e quindi sulla gravità dei peccati corrispondenti.
Ma, data la complessità dell'agire umano, nella q. 73, a. 3, confrontando la gravità della maldicenza con quella di altri peccati contro il prossimo, fa notare che di suo la lesione della fama è un peccato più grave di quelli che si commettono contro il patrimonio: "tuttavia la gravità del peccato dipende accidentalmente anche dal soggetto; il quale pecca più gravemente se compie l'atto con premeditazione, che se lo compie per fragilità e per sbadataggine.
E sotto quest'aspetto i peccati di lingua hanno maggiori attenuanti: poiché provengono facilmente da un' intemperanza di linguaggio, senza grande premeditazione".
Ciò basta a spiegarci perché S. Tommaso esamina i peccati di lingua dopo il furto e la rapina, sebbene la reputazione sia superiore agli averi; e insieme ci fa comprendere fino a che punto egli si adegua alla realtà anche nell'orditura dei trattati.
Per coloro che hanno meno dimestichezza col pensiero dell'Aquinate, e forse solo per questo hanno l'abitudine di giudicarlo in maniera poco benevola, facciamo notare anche la sua maniera di utilizzare i testi aristotelici.
Indubbiamente egli se ne serve indicandone la fonte col massimo rispetto; ma servirsene non significa per lui subirli, accettandoli come criterio ultimo e definitivo.
Egli è preoccupato di adeguarsi alla realtà, come abbiamo visto, e non a un modello letterario o scientifico; e poiché questa è più complessa di quanto risulti dai testi aristotelici - sia per le dimensioni teologiche ignorate dal paganesimo, sia per l'intrico delle risonanze psicologiche non sempre attualmente considerate nell'Etica Nicomachea - non sono pochi nè secondari i punti di divergenza.
Risulta così che la giustizia è concepita da Aristotele come una virtù univoca al pari della fortezza e della temperanza.
Invece per S. Tommaso si tratta di un concetto analogico; cosicché più che parlare di giustizia al singolare, bisognerebbe parlare di giustizie al plurale.
La giustizia verso Dio, per es., cioè la virtù di religione, non può definirsi esattamente come la giustizia commutativa o quella distributiva, in cui si riscontra con esattezza il giusto mezzo reale che soddisfa pienamente il « debito » verso una data persona.
6 - Del resto anche l'analisi materiale del trattato tomistico basta a farci comprendere, o per lo meno a farci sospettare, questa maggiore vastità di prospettive nei confronti di Aristotele.
Anche numericamente le citazioni della sacra Scrittura sono nel testo molto più numerose di quelle aristoteliche.
E accanto alla Scrittura gli esegeti più autorevoli: i SS. Padri.
In quest'ultima categoria i nomi che ricorrono con maggiore frequenza sono quelli di S. Agostino, S. Ambrogio, S. Gregorio Magno, S. Giovanni Crisostomo e S. Isidoro.
A coloro che son pronti a stracciarsi le vesti nel constatare che il Dottore Angelico in tutti i casi innegabilmente dipende almeno in parte da un filosofo pagano nell'elaborazione di un trattato teologico com'è quello della giustizia, ricorderemo con franchezza, sia pure col timore di scandalizzarli più che mai, che da codeste medesime fonti, dipendono anche i SS. Padri.
Anzi ne dipende persino la sacra Scrittura; perché l'elenco delle quattro virtù cardinali che riscontriamo in Sapienza 8,7 - dipende certamente dalla cultura ellenistica.
Per non scandalizzarsi basterà non confondere l'ispirazione con la rivelazione, e in tutti i casi tener presente quella massima dell'Ambrosiaste, così cara a S. Tommaso: « Veritas a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est ».
Per completare l'elenco delle fonti dobbiamo ricordare che di Aristotele viene utilizzata, oltre all'Etica, anche la Politica.
Non ultima per importanza, in un trattato come quello della giustizia, è la legislazione romana nella sua espressione definitiva del Corpus Juris Civilis.
Per quanto non sia un giurista, il Dottore Angelico mostra una vera padronanza del Codice giustinianeo.
La legislazione ecclesiastica fa sentire anch'essa il suo influsso, con il famoso Decreto di Graziano composto intorno al 1140.
7 - A confronto con i trattati moderni sulla giustizia, per quanto ampio esso sia, quello di S. Tommaso appare del tutto incompleto.
É vero infatti che i manualisti moderni, per la loro mentalità giuridica, trascurano molti problemi svolti da lui accuratamente ( p. es., i peccati di lingua extragiudiziali ), però sono accuratissimi nell'esaminare i vari tipi di contratti.
E così si fermano a distinguerne e ad analizzarne le varie specie: contratti gratuiti e onerosi; distinguendo i primi in unilaterali ( promessa, donazione tra vivi, donazione testamentaria ) e bilaterali ( prestito, deposito, delega, ecc. ) ; i secondi in commutatori ( compravendita, locazione, contratto di lavoro, ecc. ) e aleatori ( assicurazioni, scommesse, giuochi, lotterie, Speculazioni di borsa, ecc. ).
A parte il fatto che l'Aquinate non poteva prevedere tutta la complessità delle strutture economiche moderne, di proposito egli ha voluto limitare per quanto possibile l'analisi di questi contratti; perché, pur essendo essi giuridicamente distinti, non hanno una vera distinzione nel campo morale.
Nella q. 61, a. 3 egli elenca, tra le commutazioni volontarie, la compravendita, l'usufrutto, il prestito, la locazione e la conduzione, il deposito, il pegno, la garanzia; ma tra i vizi correlativi egli si limita a esaminare la frode che guasta la compravendita, e l'usura che è l'abuso del prestito: « Per le altre permute volontarie, infatti, non si riscontrano altre specie di peccati distinte dalla rapina e dal furto » ( q. 77, prol. ).
Anche per quanto riguarda le parti potenziali egli non prenderà in esame tutte quelle elencate alla q. 80.
Infatti il prologo della q. 81, dopo aver indicato il ridotto programma di lavoro, dice espressamente: « Delle altre virtù ricordate nella questione precedente abbiamo già parlato, in parte nel trattato sulla carità, e cioè della concordia e virtù affini; e in parte in questo sulla giustizia, p. es., della buona commutazione e dell'innocenza.
Dell'attività che prepara le leggi invece abbiamo parlato nel trattato sulla prudenza ».
Un altro punto poco sviluppato nel trattato tomistico è quello della giustizia distributiva, di cui si parla solo nella breve questione 63.
Il motivo di questa laconicità è sempre il medesimo: nei vari tipi di distribuzione, che i giuristi dal loro punto di vista hanno motivo di analizzare separatamente, il teologo vede un'unica formalità di ordine morale.
8 - E più complesso il problema dell'incompletezza di S. Tommaso rispetto allo schema della morale aristotelica, che egli stesso presenta nel prologo del suo commento all' Etica Nicomachea: « La filosofia morale si divide in tre parti.
La prima considera le azioni umane individuali ordinate al fine: ed è l'etica monastica.
La seconda considera l'agire della società domestica: ed è l'etica economica.
La terza poi considera gli atti della società civile: ed è l'etica politica » ( 1 Ethic., lect. 1, n. 6 ).
Nella sintesi della morale tomistica diventa un problema scoprire le tracce delle due ultime parti.
La morale familiare infatti è accennata nei suoi tre rapporti di marito-moglie, padre-figlio, padrone-servo, nell' articolo 4 della q. 57.
Quella politica invece ha interessato le q. 47, aa. 10-12 e q. 50, aa. 1-2.
Non è a dire che S. Tommaso ignorasse l'importanza della morale politica, avendo egli intrapreso persino l'esposizione ( rimasta incompiuta ) della Politica aristotelica.
Gli attuali teologi che insistono nel presentare la morale divisa in individuale, familiare e sociale, in sostanza sono - forse a loro dispetto - più aristotelici dello stesso S. Tommaso.
Questi probabilmente non ha voluto qui confondere il metodo espositivo analitico della filosofia con quello sintetico della teologia.
Quest'ultima tende a unificare in un unico oggetto formale - Deus sub ratione deitatis - tutto ciò che si trova distribuito in sede filosofica sotto oggetti formali diversi.
Perciò anche l'etica, che da un punto di vista puramente razionale presenta le tre formalità suddette, e quindi si suddivide in tre scienze distinte aventi « solum unitatem ordinis » ( 1 Ethic., lect. 1, n. 5 ), dal punto di vista soprannaturale e teologico viene a perdere questa tripartizione a vantaggio di un'unità superiore.
Nè si deve dimenticare che le virtù cristiane per S. Tommaso sono in fase di sviluppo e tendono ad attuare la somiglianza più perfetta dell'uomo con Dio.
E in questo loro tendere verso Dio partono dal mondo umano ( virtù politiche ); si sviluppano nella purificazione dall'attaccamento ai beni terreni e nel progressivo avvicinamento a Dio ( virtù purificanti ); e giungono nei santi e nei beati alla perfetta imitazione dell'unità di Dio ( cfr. I-II, q. 61, a. 5 ).
Il problema rimane aperto, perché queste ragioni non escludono la possibilità di trattare sotto l'aspetto teologico - cioè sotto un unico oggetto formale che è Dio - anche la morale familiare, sociale, del lavoro, ecc.
9 - Da buon metafisico S. Tommaso comincia il suo trattato sulla giustizia con una lunga questione sul diritto, cioè sull'oggetto.
Oltre alla ragione teoretica che impone la priorità dell'oggetto nella specificazione degli atti e delle virtù, in questo caso la preminenza dell'oggetto è giustificata anche da motivi sostanzialmente pratici.
Se infatti non facciamo dipendere la giustizia dalla realtà oggettiva, si cade inevitabilmente sotto l'arbitrio della legge positiva, che viene ad essere la fonte primigenia del diritto.
Di questo richiamo all'oggettività della giustizia ha bisogno in modo particolarissimo il mondo contemporaneo, in cui i vari stati si sono arrogati il potere di creare e delimitare i diritti delle persone fisiche e morali.
Tutti sanno fin dove si sono spinti gli assolutismi di stato dal secolo XVI fino alle tremende esperienze del nazismo e del comunismo in pieno secolo XX.
Il concetto può sembrare molto elementare, ma non si arriverà mai a comprenderne tutta l'importanza: Ioseph Pieper ha scritto: « Debbo confessare che mi è occorsa tutta una serie di anni per intendere ciò e arrivarne a capo.
E solo allora che ho capito perché nella Summa Theologica il trattato sulla giustizia sia preceduto da una quaestio, "intorno al diritto" … » ( Sulla Giustizia, Brescia, 1956, p. 12 ).
C'è poi un'altra ragione teoretica nel caso specifico della giustizia che impone un maggior risalto al dato oggettivo.
Mentre le altre virtù morali sono perfezioni del soggetto nelle sue disposizioni interiori, e quindi il loro giusto mezzo è di ordine soggettivo ( medium rationis ), la giustizia importa essenzialmente relazione sociale, e quindi il suo giusto mezzo è anche di ordine oggettivo ( medium rei ).
La legge quindi non crea il diritto, come son portati a pensare molti giuristi moderni; ma costituisce la norma secondo la quale l'uomo giusto agisce nel rispetto dell'altrui diritto.
L'opera giusta è dunque oggetto della giustizia e della legge.
E poiché la legge può essere naturale, prima ancora che positiva, è chiaro che ogni diritto positivo deve presupporre e rispettare il diritto naturale ( cfr. Quodl. 2, a. 8 ).
Questa oggettività del diritto toglie il pericolo di cadere nell'arbitrio legalizzato.
La legge stessa infatti che non vi si uniforma non merita altro nome che quello di iniquità.
Perciò quando si afferma che l'opus iustum è determinato secondo la legge ( cfr. I-II, q. 95, a. 4 ), si deve intendere di una legge non lasciata alla libera determinazione del legislatore umano, ma di una legge che risale all'istitutore stesso della natura: o si tratta del diritto naturale primario, o del diritto delle genti ( diritto naturale derivato ).
10 - Ma per definire con esattezza il concetto di diritto, non basta risalire semplicemente all'istitutore del creato: bisogna anche determinarlo in rapporto alla natura specifica dell'uomo.
Perché all'infuori della natura razionale non esiste una condizione di diritto.
Gli esseri corporei, animali compresi, hanno le loro proprietà e le loro tendenze, ma non hanno vero diritto a soddisfare le loro tendenze, o al rispetto delle loro proprietà.
Per essere soggetti di diritto è necessario il dominio su una determinata cosa.
Ma il dominio presuppone la libertà, cioè il dominio sui propri atti, mediante l'intelletto e la volontà ( cfr. I-II, q. 1, aa. 1, 2 ).
« Chi non ha il dominio sui propri atti è più agito che agente; cosicché l'atto che egli compie non è in suo potere, ma piuttosto in potere di colui che lo muove all'azione » ( 2 Phisic., lect. 10, n. 4 ), scrive S. Tommaso.
Stando così le cose si comprende l'assurdità di tutte quelle ideologie che rivendicano vivacemente i più svariati diritti, pur negando l'esistenza della libertà.
Se l'uomo non ha un dominio radicale sui propri atti, non si riesce proprio a capire come possa avere il dominio sulle sue facoltà o sui propri beni.
Ma la giustizia, come abbiamo detto, più che al diritto nel suo aspetto soggettivo, si riferisce al diritto oggettivo, perché l'opera giusta da compiere è a vantaggio di un'altra persona.
Fino a che uno rivendica il proprio diritto non compie un vero atto di giustizia, se non nella misura in cui questo suo operare serve ad attribuire quanto si deve ad altre persone.
Perciò è l'esigenza dell'altro verso qualcosa che egli può rivendicare come suo a causare in me un dovere.
Se tale dovere non venisse soddisfatto, resterebbe una disuguaglianza nei nostri rapporti.
Ecco perché tra gli elementi costitutivi della giustizia troviamo e l'alterità e l'uguaglianza.
Per commisurarsi con gli altri il soggetto deve necessariamente passare in seconda linea, e quindi il diritto oggettivo è quello posto qui in evidenza.
Quest'ultimo viene a identificarsi con l'opus iustum; e quindi il giusto mezzo della virtù in questo caso non ha un riferimento immediato al soggetto razionale da cui l'atto promana.
Si parla perciò di medium rei più che di medium rationis.
Ciò non toglie che nell'azione giusta debba essere raggiunto anche quest'ultimo; altrimenti noi avremmo un atto che materialmente soltanto rispetta il diritto altrui, senza il sincero consenso della volontà.
Il rispetto di un diritto in tal caso non coinciderebbe con un atto di virtù.
11 - L'assestamento laborioso della società in seguito alle rivoluzioni economiche e politiche degli ultimi due secoli ha divulgato in tutto il mondo l'espressione giustizia sociale.
In questi ultimi decenni essa viene sbandierata dagli agitatori politici più della stessa libertà.
Stando così le cose, si comprende come i tomisti abbiano cercato di scoprire un termine equivalente nel dizionario del loro maestro.
Ma con quali risultati?
Si sa che il Dottore Angelico ha distinto questa virtù in due grandi sezioni: giustizia generale, o legale, e giustizia particolare.
La prima ordina le parti al tutto, cioè ordina i singoli membri della società al bene comune; la seconda ordina al bene delle singole persone ( cfr. q. 58, a. 7 ).
La giustizia particolare però deve essere esercitata e dai privati nei loro rapporti reciproci, e dalla società verso i sudditi, con l'equa distribuzione degli oneri e degli onori.
Perciò la giustizia particolare si suddivide in commutativa e distributiva ( q. 61, a. 1 ).
I manuali si sono affrettati così a distinguere tre tipi di giustizia: legale, commutativa e distributiva.
E per mettersi sommariamente al passo con i tempi, molti han creduto di far coincidere la giustizia sociale con la giustizia legale o generale.
Una tale identificazione non persuade; perché nel concetto moderno di giustizia sociale non entra soltanto lo sforzo del singolo a subordinarsi al bene della collettività, ma anche, e forse di più, la buona disposizione della società a salvaguardare il diritto dei singoli.
Anzi il buon ordine della società che è nella prospettiva della giustizia sociale, nella sua accezione più ampia, include persino il pieno rispetto dei diritti e dei doveri reciproci tra i privati cittadini.
Perciò non si può identificare codesta giustizia né con quella legale, né con quella distributiva, né tanto meno con quella commutativa.
E allora dobbiamo concludere che nello schema tomistico non trova posto la giustizia sociale?
Ci sembra che logicamente la conclusione debba essere un'altra: la giustizia sociale nella sua accezione più ampia s'identifica principalmente con la giustizia legale, abbracciando addirittura anche l'epicheia ( II-II, q. 120, a. 2, ad 1 ); poiché la giustizia è per se stessa una virtù sociale.
Se poi si restringe codesto termine, come avviene in certi casi, ai soli rapporti economici tra gruppi e categorie di cittadini, allora non si esce dalla giustizia commutativa di cui parla S. Tommaso.
E se finalmente è lo Stato che fa da padrone universale, tale giustizia si riduce alla giustizia distributiva: posto che si possa parlare di giustizia là dove si manomettono, almeno parzialmente, i diritti naturali dei singoli cittadini.
12 - Ma i problemi sociali moderni non sono semplicemente di carattere filologico o lessicale, bensì d'ordine pratico.
La loro impostazione teorica però ha un' importanza decisiva per una soluzione soddisfacente.
Pur essendo vissuto in un'epoca tanto diversa dalla nostra, l'Aquinate ha affrontato i problemi ad una profondità che ben difficilmente si riscontra nei moderni.
Ecco perché egli ha sempre molto da dire alla stessa nostra generazione e a quelle future anche nella soluzione di problemi appena abbozzati nella società medioevale.
Per questo non meraviglia che le encicliche papali sulla questione sociale di questi ultimi cento anni siano ricorse alle sue dottrine, e persino alle sue parole.
Egli non procede per induzione, come fanno gli studiosi moderni, che cercano di scoprire negli uomini primitivi le prime manifestazioni dei fenomeni sociali, a cominciare, p. es.,. dal primo affermarsi del diritto di proprietà.
S. Tommaso parte invece dall'analisi della realtà nei suoi elementi primigeni.
Per lui il diritto di proprietà scaturisce dalla natura stessa dell'uomo.
Che poi tale diritto sia esercitato dal singolo in perfetta autonomia, o condizionato alle complesse interdipendenze di una civiltà superiore, è questione secondaria.
Anzi è da considerarsi in qualche modo secondario persino che tale diritto sia esercitato in comune o dal singolo.
Le indagini positive più serie sono là a confermare il suo punto di vista: mostrando nei primitivi un esercizio prevalentemente collettivo del diritto di proprietà, che però non esclude la proprietà privata.
13 - Ma per situare esattamente il pensiero dell'Aquinate a proposito del diritto di proprietà bisogna esaminare tale diritto a tre livelli ben distinti tra loro:
a) al livello della natura umana come tale troviamo il diritto al possesso su tutte le creature inferiori - diritto naturale primario;
b) al livello delle leggi naturali secondarie troviamo il diritto di proprietà privata - Jus qentium;
c) al livello della legge positiva abbiamo gli accorgimenti giuridici per guidare l'esercizio di questi diritti al bene comune.
Nel primo articolo della questione 66 S. Tommaso mette bene in evidenza che qualsiasi uomo, proprio in forza della sua natura specifica, ha il diritto personale di utilizzare ai suoi propri fini tutti gli esseri di natura inferiore.
Quest'affermazione non va considerata come una vuota dichiarazione di principio; ma deve orientare nell'esercizio effettivo dei diritti personali dei singoli cittadini.
L'esercizio infatti del diritto di possesso dovrà necessariamente essere condizionato dall'ordinamento giuridico della società; ma l'organizzazione sociale sarà giudicata giusta o ingiusta in base al rispetto di tale primordiale diritto.
Quando l'organizzazione è tale da escludere per sistema un certo numero di persone dalla libera utilizzazione di beni indispensabili alla vita umana, si deve pensare che la società è ingiusta, e bisognosa di una riforma - radicale.
Nell'articolo successivo della medesima questione l'Autore si domanda « se sia lecita la proprietà privata » che altrove attribuisce espressamente al diritto delle genti ( q. 67, a. 3 ), cioè al diritto naturale secondario, o derivato.
La sua giustificazione ha bisogno di essere ripensata e appronfondita dopo le discussioni degli ultimi secoli.
Alcuni infatti credono di dimostrare come naturale l'indivisione dei beni, documentando il fatto che nelle società primitive predomina nettamente il godimento in comune di quasi tutti i beni.
Ma qui si tratta di vedere se il possesso indiviso sia quello più ragionevole per una società complessa e progredita; in altri termini, si tratta di vedere se il diritto naturale di ciascun uomo al possesso dei beni indispensabili al proprio sostentamento e all'espansione della propria personalità sia in tal modo meglio salvaguardato.
14 - É chiaro che ci sono beni che per la loro abbondanza non saranno mai divisi: p. es., l'aria che si respira, la luce e il calore del sole.
Ma ce ne sono altri che per la loro utilizzazione hanno bisogno di essere divisi.
E col moltiplicarsi dei concorrenti, nonché col raffinarsi delle tecniche di sfruttamento, che trovano sempre nuove risorse, le cose si complicano necessariamente, a prescindere dalla malvagità di chicchessia.
« Arguire dall'indivisione primitiva », scrive P. M. Labourdette, O. P. « o dalla minor divisione che caratterizza le civiltà inevolute per dedurne il carattere naturale del possesso comune e indiviso, significa confondere l'indifferenziazione originale che precede la posizione di un problema, con la soluzione nettamente differenziata e precisa che esso reclama una volta posto » ( La Justice, pro ms., Toulouse 1960-61, p. 164 ).
L'esigenza naturale che porta all'appropriazione, non è soltanto dell'uomo, ma si riscontra persino in certi animali, che sono guidati dall'istinto a immagazzinare il necessario non solo per la giornata, ma per l'intera annata: è classico l'esempio delle api e delle formiche.
Il possesso di qualche cosa oltre che di se stessi è una necessità per qualsiasi creatura; perché Dio soltanto costituisce per se stesso la propria perfezione.
La creatura, limitata nel suo essere, è costretta a trovare fuori di sè ciò che la completa.
Certamente anche Dio possiede, ma non perché ha una qualche indigenza: « Egli distribuisce l'esistenza alle altre cose non per necessità di natura, ma secondo l'arbitrio del suo volere …
Ed egli ha un dominio perfetto sulle cose da lui prodotte, in quanto nel produrle non ha bisogno di elementi esterni, e neppure è costretto a servirsi della materia; essendo egli la causa universale di tutto l'essere » ( 1 Cont. Gent., c. 1 ).
La condizione della creatura invece è ben diversa.
Abbiamo già visto sopra che soltanto gli esseri dotati d'intelligenza e di libertà esercitano un vero dominio.
Ma gli esseri umani non possono limitarsi a possedere i propri atti e le proprie facoltà, essendo impegnati a vivere in un mondo materiale che ne condiziona l'esistenza.
E nel provvedere a se stesso e a coloro di cui porta la responsabilità, l'uomo singolo non può rinunziare alla propria intelligenza che lo porta a conoscere i cicli delle stagioni e il ritmo dell'esistenza.
Di qui l'inclinazione naturale a provvedersi di beni materiali con una certa sufficienza, molto prima dell'atto finale del loro consumo.
Nasce così per un'esigenza naturale il patrimonio, la proprietà privata; poiché nella sua previdenza l'uomo non si limiterà ai beni di consumo, ma cercherà il possesso dei beni di produzione: campi, boschi, miniere, ecc.
15 - Nessuno nega che l'indivisione dei beni rappresenti un ideale per un'umanità del tutto liberata dalle angustie dell'egoismo, nella quale ciascuno fosse preoccupato del bene altrui non meno che del bene proprio; ma chi non vede questo ideale come irrealizzabile nella massa umana di cui abbiamo l'esperienza, mostra di vivere nel mondo delle ideologie, e di aver perso ogni contatto con la realtà.
S. Tommaso personal mente aveva abbracciato la povertà volontaria, e quindi viveva in una comunità religiosa, in cui vigeva il sistema dell'indivisione dei beni.
Egli ben sapeva di aver accettato così l'ideale evangelico.
Ma con ciò, da quell'uomo savio che era, cosciente di tutti gli aspetti della realtà, non aveva mai preteso d'imporre codesto sistema a tutta la società, come già ai suoi tempi sognavano gli spiritualisti francescani che dovevano sfociare nel movimento dei Fraticelli.
Nel respingere la tentazione ingenua e pericolosa del collettivismo, S. Tommaso si è limitato a prospettare gli inconvenienti già contrapposti da Aristotele all'ideologia platonica; ma dopo le tristi esperienze del nostro secolo egli potrebbe allungare la lista in maniera impressionante.
16 - A rendere i teorici odierni del collettivismo così irriducibili avversari del diritto di proprietà, non è solo la speranza di esercitare in tal modo un potere illimitato attraverso gli organi del collettivismo, ma anche l'idea falsa che tale diritto promani dalla società: come se la società potesse conferire e ritirare a piacimento i diritti fondamentali dell'uomo.
Il pensiero cristiano è perciò unanime nel respingere questa impostazione del problema, rivendicando il diritto di proprietà privata come un'esigenza della persona umana.
Nell'articolo 2 della q. 66 che abbiamo preso in esame l'Autore non si limita a giustificare il diritto di proprietà, che egli definisce « potestas procurandi et dispensandi » ma afferma con non minore energia l'obbligo di non restringere l'uso delle ricchezze possedute alle proprie esigenze personali: « quantum ad usum non debet homo habere res exteriores ut proprias, sed ut communes: ut scilicet de facili aliciuis ea communicet in necessitate aliorum ».
Sarebbe un tradimento per la dottrina dell'Aquinate e per la stessa dottrina cristiana, scindere le due conclusioni.
Ormai infatti si tratta di dottrina accettata dalle encicliche sociali.
La Rerum Novarum cita alla lettera questo articolo della Somma, e la Quadraqesimo Anno, non fa che ribadire la validità di questa distinzione tra diritto di proprietà e uso di codesto medesimo diritto, riferendo un altro testo del Santo Dottore: « Quomodo autem usus rerum Propriarum possit fieri communis hoc vertinet ad providentiam boni legislatoris » ( 2 PoliI., lect. 4 ).
Con tali premesse non è difficile scorgere il tipo di società che si prospetta secondo il pensiero di S. Tommaso.
Escludendo da un lato il collettivismo social-comunista, che mira a distruggere o a menomare gravemente il diritto di proprietà, e dall'altro il liberalismo economico, che abbandona il più debole alla mercè del più forte, il tomismo indica il giusto mezzo della giustizia in un sistema di economia controllata, in cui la difesa del diritto di proprietà non va disgiunta dalla continua precauzione di provvedere efficacemente alla sicurezza sociale di tutti i cittadini.
Tra i principi più accanitamente difesi dal marxismo c'è quello che considera la religione come una sovrastruttura del sistema capitalistico, destinata fatalmente a subirne le sorti.
In base a codesto principio la storia dovrebbe presentarci una religione cristiana occidentale - si sa che l'occidente è il padre del capitalismo moderno - perfettamente conformista verso la prassi e la teoria che ha favorito lo sviluppo del capitale.
Invece la storia autentica, non quella costruita sui postulati teorici, ma sui fatti documentati, ci presenta un fenomeno sconcertante: la Chiesa Cattolica con quasi tutti i suoi teologi si è schierata contro gli economisti, per impedire in tutti i modi il prestito a interesse, nonché i contratti di ogni genere che ad esso si riducono, provocando così intralci continui allo sviluppo dell'economia capitalista.
Il sistema però si è sviluppato a dispetto di tutte le condanne; e finalmente la Chiesa ha dovuto ammettere che un moderato tasso d'interesse nei contratti di mutuo trova sempre, o quasi sempre, una qualche ragionevole giustificazione.
Ma per arrivare a questa specie di accomodamento sono occorsi parecchi secoli: è stato necessario attendere il 1745, e cioè l'enciclica Vix pervenit, del papa Benedetto XIV.
E bisogna aspettare il Codice di Diritto Canonico ( 1917 ) per vedere formulato il principio: « In praestatione rei fungibilis non est per se illicitum de lucro legali pacisci, nisi constet ipsum esse immoderatum » ( can. 143 ).
Onestamente dobbiamo confessare che la difesa più intransigente contro ogni specie d'usura si ebbe da parte dei teologi domenicani, o comunque tomisti.
Fu per una malintesa fedeltà al pensiero del maestro che essi, fatte poche eccezioni ( tra le felici eccezioni ci piace ricordare fra Girolamo Savonarola ), si batterono accanitamente contro gli stessi monti di pietà, sorti nel periodo del rinascimento a sollievo dei bisognosi.
Esaminando con attenzione i documenti del magistero ecclesiastico in proposito, sembra che si debba escludere un valore dogmatico alle stesse formule più drastiche contro ogni forma d'usura.
Si tratta di canoni e di richiami disciplinari, sufficientemente giustificati dalle condizioni dell'epoca in cui furono emanati.
All'origine però di questa presa di posizione negativa verso il prestito a interesse ci sono stati gravi equivoci, che è ormai doveroso riconoscere senza sottintesi.
Il primo equivoco riguarda un testo evangelico comunemente sfruttato come contrario a ogni prestito del genere, Lc 6,35: « prestate senza sperarne nulla ».
Ormai è pacifico tra i teologi e gli esegeti che codeste parole non hanno valore di precetto, ma di consiglio ( cfr. LAGRANGE J. M., Evangile selon S. Lite, Paris, 1921, pp. 19 Ss.; BERNARD A., «Usure» in D.T.C., XV, col. 2323 ).
Ma nei tempi andati la cosa non era così evidente.
C'è poi un secondo equivoco, questa volta non da parte dei teologi, ma dei filosofi, cui essi chiesero in prestito i principi teorici per un giudizio tecnico sul denaro imprestato.
Platone e Aristotele si erano dichiarati nettamente contrari alla liceità dell'interesse; e la loro critica spietata non influì soltanto sul medioevo, ma anche sui Padri più antichi sia in oriente che in occidente.
A noi interessa più da vicino l'influsso di Aristotele, che fu predominante nella formazione del pensiero tomistico.
Considerando il fenomeno dell'arricchimento, Aristotele distingue tra quello naturale, dovuto al lavoro e al commercio, da quello procurato col prestito; e giustifica in pieno l'esecrazione popolare contro quest'ultimo, in quanto l'interesse percepito in tal modo snatura l'essenza del denaro, nato fatto per lo scambio e non per produrre altro denaro ( cfr. 1 Polit., c. 10 ).
Di qui l'adagio medioevale: «Nummus non parit nummum ».
É inutile dire che esso è agli antipodi dell'adagio così caro agli economisti moderni: « Il danaro produce danaro ».
Aristotele m questo caso almeno si è lasciato giuocare dal suo fissismo, considerando il danaro soltanto nella sua entità fisica e nella sua prima funzione « etimologica » di scambio.
Inoltre egli ebbe il torto di considerare la moneta come bene fungibile, alla pari delle derrate alimentari per il cui acquisto esso correva allora ordinariamente nelle mani dei poveri.
Pretendere di arricchire col danaro prestato in questa elementare forma di scambio risulta una crudeltà evidente.
Ma da un teorico come Aristotele ci saremmo aspettati una distinzione che superasse il fatto contingente.
Di suo infatti il danaro può sostituirsi a qualsiasi bene, e quindi anche a quei beni locabili da cui è lecito attendere un profitto.
Può anche darsi che la nostra sia una pretesa eccessiva, se pensiamo che anche oggi molti teologi si ostinano a non riconoscere la legge fondamentale dell'economia moderna, che ripone nel movimento della moneta circolante uno dei coefficienti ( "naturali" ) della ricchezza: « Se la stessa quantità di moneta gira dieci volte in un anno, è come se fosse stata emessa una quantità di monete dieci volte maggiore » ( D. TRAMONTANA, Elementi di Economia politica, Milano, 1934, p. 237 ).
Perciò chi presta il proprio danaro, invece di custodirlo gelosamente nella cassaforte, compie di suo un'opera di utilità pubblica, oltre che un servizio a favore di qualche privato.
Quindi ha diritto a percepire un utile proporzionato alle circostanze.
Nelle permute il danaro svolge una funzione fiduciaria, oltre quella di scambio.
L'operaio offre i suoi servizi e il commerciante la sua merce, perché trovano nel danaro la sicurezza di una contropartita vantaggiosa.
Perciò chi presta merita un guadagno, almeno quanto un mediatore che offre la propria garanzia.
É vero infatti che lo scambio potrebbe avvenire anche come baratto naturale tra cosa e cosa, o tra merce e lavoro; ma se negli scambi interviene il danaro, questo necessariamente aumenta di valore nella misura in cui si moltiplicano i suoi interventi: come le fortune di un mediatore crescono con l'aumento degli affari cui presta la sua opera.
Ecco perché la ricchezza reale di una nazione non è costituita tanto dalle riserve auree, quanto dalla massa di affari che in capo all'anno in essa si concludono.
Ed ecco perché enti pubblici e privati possono affrontare imprese grandiose di utilità comune, ricorrendo ai prestiti, cioè sfruttando il « credito » di quei capitali che il piccolo risparmiatore accantona nelle banche, senza correre praticamente nessun rischio.
I teologi, dicevamo, insistendo sulla pista tracciata da Aristotele, non sono riusciti quasi mai a superare la loro istintiva diffidenza verso il mondo degli affari.
I tentativi di una revisione totale di quest'atteggiamento sono stati guardati anch'essi con diffidenza.
Uno dei più riusciti per serietà d'impostazione e d'argomenti è da considerarsi, in Italia almeno, quello dell'abate Marco Mastrofini ( 1763-1845 ); tuttavia la sua opera fondamentale Le usure, libri tre, Roma, 1831, sebbene ricevesse l'imprimatur del Maestro del S. Palazzo, e l'approvazione d'insigni teologi, rimase lettera morta.
Penso però che la colpa dell'ingiusto accantonamento non debba essere attribuita tanto all'ostilità dei colleghi teologi, quanto allo stile piuttosto macchinoso dell'autore.
A parte lo stile, il Mastrofini ha ragioni da vendere contro i Perciò la definizione moderna del danaro dev'essere concepita in questi termini « La moneta è un capitale che serve all'organizzazione dell'economia, in quanto fa da intermediario negli scambi e allaccia il presente al futuro economico; facilitando il risparmio e garantendone l'utilizzazione a breve e a lunga scadenza ».
Aristotele, per dimostrare che l'uso del danaro è distinto dal danaro medesimo; e che quindi codesto uso esige di essere pagato come quello di qualsiasi altro bene locabile ( op. cit. pp. 164-171 ).
E non risparmia l'ironia contro lo stesso S. Tommaso là dove il Santo ( q. 78, a. 1, ad 6 ) concede che si possa percepire un compenso prestando preziosi e monete pregiate al solo scopo di farne mostra od ostensione, mentre non concede che si possa percepire per l'uso di codesto danaro.
Sarebbe questo il solo caso in cui la esistenza sia meno della possibilità, contro i reclami di tutta la metafisica » ( op. cit. p. 167 )
Questo però non ci autorizza a condannare la dottrina della Chiesa, che si è preoccupata sempre di difendere la gratuità del mutuo a favore dei poveri.
In tal senso infatti che vanno interpretate le drastiche condanne dei SS. Padri e i richiami disciplinari dei primi secoli.
Tuttavia non manca qualche testo dal quale si rileva un atteggiamento di comprensione per il prestito commerciale tra persone facoltose.
E se dopo il mille questa comprensione venne praticamente a sparire, si deve certo più alla necessità di reprimere gli abusi davvero intollerabili degli usurai, che al proposito di definire una dottrina.
S. Tommaso si trovò a rielaborare il pensiero cristiano in un periodo di repressioni vivaci contro l'usura.
Lo stesso pensiero filosofico aristotelico, che stava allora conquistando l'occidente, pareva prestare all'impresa un appoggio decisivo.
Sarebbe stato troppo esigere in queste condizioni un giudizio così equanime e distaccato, da non sentire il contraccolpo delle circostanze.
Egli fatalmente era portato a considerare provvidenziali i testi aristotelici della Politica e dell' Etica a sostegno della disciplina ecclesiastica, minacciata dall' insorgere del mercantilismo del secolo XIII.
Egli vide però con chiarezza la necessità di evitare i danni dei prestatari di denaro ( q. 78, a. 2, ad 1 ), e la liceità delle società commerciali, con l'incontro proficuo tra capitale e lavoro ( ibid., ad 5 ).
E su tali posizioni rimasero attestati per secoli con irremovibile tenacia i suoi discepoli, nella convinzione di difendere con la dottrina del maestro quella della santa madre Chiesa.
Risaputo che all'epoca della ricordata enciclica di Benedetto XIV sull'usura, Vix pervenit, il teologo più contrario alle nuove correnti era il domenicano P. Daniele Concina, che il papa chiamò a far parte della congregazione di cardinali, prelati e teologi incaricati di studiare a fondo il problema.
Dopo la pubblicazione dell'enciclica i tomisti si mostrarono più comprensivi verso i titoli estrinseci del prestito che non fossero riducibili al damnum emergens, già ammesso da S. Tommaso.
Così si arrivò a giustificare, praticamente in tutti i casi, il tasso d'interesse moderato e legalizzato.
Oggi si riconosce comunemente che in una società industrializzata il prestito del danaro offre realmente la possibilità di un guadagno; e quindi viene legittimato così il titolo del creditore all'interesse.
Del resto già l'Aquinate ammetteva la liceità dell'interesse nel caso di compartecipazione a società artigianali o commerciali ( cfr. q. 78, a. 2, ad 5 ).
E la società moderna con la sua complessa organizzazione economica si presenta di fatto come un immenso sodalizio di questo genere in cui i coefficienti della produzione s' incontrano automaticamente con rischi e vantaggi reciproci a tutti i livelli.
Ma qualcuno prospetta l'idea che anche in questo caso ci sia un'ingiustizia latente nel sistema, astrazione fatta dalla malizia del mutuante.
In tale sistema si produrrebbe fatalmente una svalorizzazione della moneta, cui è giusto riparare con la riscossione dell'interesse.
Ma a chi tocca pagare le spese reali di codesto fenomeno?
Accettando la tesi che il danaro, ossia il capitale, non può essere di per sè produttivo, la vittima va cercata al polo opposto, nel lavoratore.
E quindi sarebbe proprio vero e che il capitalismo è una macchina per fare dei ricchi con la spogliazione dei lavoratori, e per arricchire sempre di più coloro che sono già ricchi.
Pur ammettendo le reali ingiustizie che si riscontrano indubbiamente nella società capitalista, e che noi siamo ben lontani dal voler negare o difendere, ci sembra che quest'atto di accusa generico sia radicalmente falso, e ideologicamente pericoloso.
Il pericolo sta nel fatto che in tal modo la critica al sistema è troppo affine a quella del marxismo, che sfrutta certe consonanze in maniera diabolica, per procurare all'umanità disordini e sofferenze ben più gravi di quelle qui lamentate.
Una società libera, che nel suo decentramento costituzionale di poteri ammette anche una certa autonomia del potere economico, è sempre da preferirsi a una società centralizzata, in cui il potere politico pretende di regolare in un atteggiamento di sufficienza inumana i diritti e i doveri di tutti i cittadini.
Il singolo cittadino infatti ha sempre la possibilità di difendersi in una società pluralista, destreggiandosi tra le competenze contrastanti.
Invece il singolo soccombe inesorabilmente sotto il peso di un potere universale.
Ma, a parte il pericolo, la critica suddetta va respinta soprattutto perché errata.
Il danaro infatti non vale per quello che è, ma per i servizi che rende.
Ora, non è ragionevole considerare valutabili economicamente i servizi che può rendere una macchina, e non apprezzabile in moneta il danaro che mi viene prestato per noleggiarla.
In altri termini: non si spiega perché debba esser lecito percepire un compenso per l'uso di un campo, di una casa, o di una macchina; e disonesto il guadagno di chi presta il danaro occorrente per prendere in affitto o noleggiare una casa, un campo, o una macchina.
E neppure può essere imputata al fenomeno del prestito la svalorizzazione progressiva della moneta che si riscontra in quasi tutti gli stati moderni.
Del resto, se è vero che questo malanno colpisce le classi a reddito fisso, va ricordato che esso colpisce anche più duramente i risparmiatori.
Per lo più la svalorizzazione è invece dovuta all'iniziativa dello Stato, che si vede costretto ad aumentare il circolante per far fronte alle spese pubbliche, le quali normalmente crescono per l'aumento dei salari.
Un freno a quest'inflazione progressiva potrebbe essere precisamente il prestito …
Siamo tutti d'accordo nel deprecare questo fenomeno degenerativo dell'economia che è I'inflazione monetaria; ma non è giusto addossare la responsabilità del fenomeno al solo giuoco del capitale.
Anche la demagogia ha in esso il suo peso determinante.
E quando nella società si determina un complesso circolo vizioso di proporzioni così vaste, è fatale che gl'individui più dotati d'intelligenza e più esperti negli affari volgano le vele nella direzione più adatta per condurre in porto la nave dell'interesse personale a dispetto di tutte le correnti.
E la manovra sarà tanto più spregiudicata, quanto meno è radicata nell'anima la virtù della giustizia.
Perciò a conti fatti non sarà mai il sistema come tale a procurare il reale benessere di tutti i cittadini, ma la virtù delle singole persone.
E di essa soprattutto che ci parla S. Tommaso in questo come negli altri trattati della Seconda Parte.
Perciò quanto egli dice contro l'usura, pur non essendo ormai improponibile in tutto il suo rigore, conserva un valore orientativo per il cristiano preoccupato del progresso spirituale più che di quello economico.
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