Daniele |
Nella Bibbia ebraica, il libro di Daniele non è collocato tra i Profeti, ma tra gli Altri Scritti ( Ketubìm ).
Il testo è redatto ora in ebraico ( 1,1-2,4a; 8,1-12,13 ), ora in aramaico ( 2,4b-7,28 ); non si è ancora trovata una spiegazione pienamente convincente per questa presenza delle due lingue.
Nella prima parte del libro ( cc. 1-6 ), si narrano le vicende di un gruppo di giovani ebrei, tra cui spicca Daniele, presso la corte babilonese e persiana.
Nella seconda parte ( cc. 7-12 ) si hanno delle visioni piene di simboli, che appartengono al genere "apocalittico".
Nelle antiche versioni greche dei LXX si trova infine anche una terza parte, composta da racconti diversi ( cc. 13-14 ).
Questa terza parte, che manca nel testo ebraico usato in sinagoga, appartiene agli scritti deuterocanonici; così anche la preghiera di Azaria e il cantico dei tre giovani nella fornace ( 3,24-90 ).
Daniele e i giovani ebrei alla corte del re ( 1,1-6,29 )
Visioni di Daniele ( 7,1-12,13 )
Susanna, Bel e il drago ( 13,1-14,42 ).
Benché si presenti come scritto in Babilonia, all'epoca babilonese-persiana ( VI-V sec. a.C. ), in realtà il libro di Daniele è stato composto al tempo della persecuzione di Antioco IV Epìfane, rispecchia il clima di quell'epoca e ne testimonia la fede.
Sia con i racconti, sia con le visioni, il libro di Daniele proclama il dominio assoluto di Dio nelle vicende storiche del mondo e la sua sollecitudine per coloro che credono in lui.
Deve essere smascherato l'orgoglio del potere umano, che pretende di porsi come punto di riferimento assoluto; con questa pretesa, l'autorità politica diventa una potenza di male, si oppone alla realizzazione dei disegni divini e, in tal modo, provoca la propria rovina.
Nel libro vengono esaltate le virtù del credente:
Daniele è modello di fede, di preghiera, di giustizia, di sapienza;
egli riconosce le proprie doti come doni di Dio.
Vi si nota anche una certa ironia nei confronti dei culti idolatrici.
Il nome "Daniele" richiama quello di un personaggio leggendario, esempio proverbiale di giustizia e di sapienza, ricordato sia nella Bibbia ( Ez 14,14.20; Ez 28,3 ) sia nei testi di Ugarit, risalenti al II millennio a.C.
Tra le due figure vi è però solo un'identità di nome ( con una leggera variante nella loro grafia nel testo ebraico ).
Il libro di Daniele, infatti, nella sua redazione finale risale al II sec. a.C., al periodo delle persecuzioni compiute dal re di Siria Antioco IV e delle lotte maccabaiche.
Ne sono destinatari Ebrei di quell'epoca, sottoposti a persecuzione e, a volte, costretti sotto minaccia di morte a rinnegare la propria fede.
A costoro vengono presentati racconti esemplari e visioni profetiche, nelle quali la storia passata è riproposta in chiave simbolica, per aprire l'animo alla speranza.
Sono così invitati a rimanere saldi nella fede, anche di fronte alle minacce di morte, perché Dio non abbandona i giusti che confidano in lui.
Il nome ebraico Daniele appare nell'onomastica del tempo di David ( 1 Cr 3,1 ) e dopo l'esilio ( Esd 8,2, Ne 10,7 ) e significa giudice è Dio o, secondo i documenti cuneiformi della terza dinastia d'Ur, potente è il mio Dio.
Il nome del profeta è ricordato solo da 1 Mac 1,60 e da Mt 24,15.
Per il Daniele di Ez 14,14-20; Ez 28,3 cfr. note.
Il libro consta di dodici cc. in lingua semitica, nel terzo dei quali sono inserite due preghiere in lingua greca, e di due cc. in greco.
Nei primi sei cc. ( 1-6 ) e nei due in greco l'A. narra in terza persona alcuni episodi della vita di Daniele e la narrazione è anonima.
Nei cc. 7-12 è messa in risalto la qualità di veggente di Daniele, il quale espone quattro visioni in prima persona.
Nato nella tribù di Giuda ( 1,6 ) da famiglia nobile o, forse, anche reale, Daniele è deportato a Babilonia nel terzo anno del re Joakim ( 1,1 ) e con altri Ebrei coetanei è ammesso tra i paggi di corte o, meglio, tra i saggi di Nabucodonosor sotto il nome di Baltassar, dopo un triennio di istruzione babilonese.
Si può supporre che Daniele, in questo tempo, avesse una età fra i 14-17 anni.
A corte Daniele si distingue perché indovina e interpreta il sogno di Nabucodonosor ( c. 2 ), interpreta il sogno dell'albero abbattuto e lo applica alla vita di Nabucodonosor ( c.4 ), decifra e spiega la grafia apparsa sulla parete durante il banchetto del rè Baldassare ( c. 5 ).
È creato capo del corpo dei saggi ( 2,48 ), uno dei tre ministri o sovrintendenti dell'amministrazione persiana ( 6,2 ), è tenuto in grande onore da Ciro ( 6,28 ) di cui è il confidente ( 14,1 ) e durante il terzo anno del quale ancora vive ( 10,1 ).
La sua posizione preminente gli crea invidie e incidenti e lo costringe a passare una notte nella fossa dei leoni ( c. 6 e analoga tradizione, sebbene con varianti, nel c. 14 ).
Il c. 3 è l'unico nel quale non appaia la figura di Daniele, ma si parli solo dei tre compagni.
Daniele, nel primo anno di Baldassare, ha la visione del regno del « figlio dell'uomo » ( c. 7 ), nel terzo anno dello stesso re contempla la lotta delle bestie e quella del corno contro il popolo dei santi ( c. 8 ), nel primo anno di Darlo il Medo sente la profezia delle 70 settimane ( c. 9 ), nel terzo anno di Ciro ha l'ultima visione che riguarda la persecuzione contro gli Ebrei e la loro salvezza ( cc. 10-12 ).
Infine sotto Ciro distrugge il tempio di Bei e i suoi sacerdoti e, dopo aver ucciso il serpente, finisce nella fossa dei leoni ( c. 14; c. 6 ).
La tradizione, forse ispirata dalla visione sull'Ulai del c. 8, ha fissato la tomba di Daniele a Susa, sebbene il testo parli di un trasporto spirituale in quella città, non di una vita materiale e reale.
La serie narrativa del libro ha un c. e pochi vv. in ebraico ( 1-2,4 ) e cinque in aramaico ( 2,4-6,29 ) mentre la serie delle visioni ha un c. in aramaico e cinque in ebraico.
La parte non semitica ha due preghiere ( 3,24-90 ) e tre episodi ( cc. 13-14 ) in un greco che, secondo l'opinione più comune, è la traduzione da un testo semitico.
Gli studiosi non concordano nello stabilire quale sia la lingua originale della parte protocanonica.
Tre sono le ipotesi fondamentali:
1) l'intero libro fu scritto originariamente in ebraico poiché questa lingua è la classica per i libri della Sacra Scrittura;
2) il libro è originariamente scritto parte in ebraico e parte in aramaico.
La prima raccolta sarebbe in aramaico ( cc. 2-6 ) e sarebbe completata nella medesima lingua ( c. 7 ).
Per unire Daniele alla legge ( c. 1 ) e per il nuovo tipo di letteratura ( cc. 8-12 ) si sarebbe usato l'ebraico;
3) l'intero libro è scritto originariamente in aramaico, perché l'ebraico presenta frasi e oscurità che sembrano far supporre un testo originale aramaico.
È troppo presto per decidere e scegliere tra le ultime due.
Il libro è posto tra gli « Scritti » o « Agiografi » dalle Bibbie ebraiche, da un trattato talmudico del II/III sec. d. C. e dal prologo galeato di Girolamo.
Ma, più anticamente, occupava un posto tra i profeti, come si può dedurre dal catalogo di Giuseppe Flavio, da Mt 24,15 e dai codici più antichi, quali l'Alessandrino, e dai cataloghi dei padri come Melitene di Sardi, Origene, Atanasio ed Epifanie.
La ragione dello spostamento non dipende dal dubbio sulla origine del libro o sulla sua ispirazione, ma dal genere letterario per cui i compositori del Talmud preferirono chiamare Daniele veggente anziché profeta.
Si ammette che il libro presenta il suo messaggio ricorrendo a due generi letterari: la haggada o considerazioni morali, dogmatiche, edificanti, storiche e folcloristiche, e l'apocalisse.
Le due forme sono fuse dall'A. sotto l'impulso della ispirazione e del genio.
Ma gli elementi apocalittici sembrano avere una luce maggiore e dare al libro il carattere di una rivelazione misteriosa, sulla fine dei tempi, sulla venuta del regno messianico.
Infatti il libro abbraccia visioni che devono essere spiegate da un angelo; descrive in particolare avvenimenti contemporanei come se appartenessero al futuro, come la lotta tra i Seleucidi e i Lagidi e la persecuzione di Antioco Epifane del c. 11; utilizza strane immagini che hanno un significato solo in virtù del simbolo espresso.
Mancano nel libro le forme, solite nei profeti, di minaccia, promessa, esortazione, ammaestramento e si susseguono invece lunghe e complesse rivelazioni, con forme libere nelle quali non è sempre chiara la distinzione tra la poesia e la prosa.
Anche il modo della rivelazione è diverso: Daniele conosce le cose soprannaturali o future impiegando anche i suoi sensi, vedendo e sentendo.
Egli non attinge dal suo spirito in diretto contatto con Dio come nei profeti, ma attraverso il ministero di angeli che riferiscono e spiegano visioni simboliche.
E i simboli sono presi dal mondo reale e spesso sono presentati con termini d'approssimazione che lasciano intravvedere forme diverse, inesprimibili o la presenza di veli misteriosi.
I concetti relativi al tempo non sono espressi con frasi tradizionali, ma con modi di dire che hanno un aspetto volutamente enigmatico.
L'elocuzione talvolta riesce imprecisa perché deve rendere concetti per i quali non esistono termini propri.
Tuttavia il libro si inserisce nella, linea dei grandi profeti e gli Alessandrini non si sono ingannati mettendolo nel catalogo profetico.
Come i grandi profeti, Daniele interviene in un momento drammatico della storia del popolo eletto.
Non pronuncia apostrofi veementi contro le colpe del popolo, ma le evoca ( prima parte del c. 9 ) con la confessione dei peccati e non tace il grande numero di apostasie ( 11,32 ).
Soprattutto agli Ebrei, affranti dalla sventura, mostra, sulle orme dei grandi profeti, la speranza messianica, sollievo del popolo e unica attesa, sotto una luce nuova e più precisa.
È indiscusso che l'A. non ha voluto compilare un trattato di storia o di cronologia e che i suoi contatti con il campo che riguarda la storia vanno considerati alla luce del genere letterario, con il quale ha elaborato la sua materia, e dello scopo che anima il libro.
Perciò nomi, date e altri particolari servono allo scrittore per inquadrare il personaggio, per dargli un ambiente nel quale vivere.
Le allusioni alla storia sono frequenti e sono generalmente e sostanzialmente fedeli, tanto più se si tratta di particolari che non sono molto distanti dal tempo dello scrittore.
Il libro attinge con sicurezza allo sfondo storico dei tempi non ignorando tradizioni, istituzioni, l'organizzazione economica e amministrativa e senza contraddire ne i testi biblici ne i documenti profani.
Se alcuni particolari non trovano una chiara spiegazione o un facile controllo con la storia profana, non offrono tuttavia la possibilità di gridare con leggerezza all'errore o all'inesattezza perché la conoscenza di questo o quel particolare è troppo incerta o discussa per poter accusare di superficialità o di negligenza l'A.
Il libro abbraccia uno sfondo storico vastissimo che si aggancia al risorgere della grandezza babilonese e al tempo di Antioco Epifane, e polarizza il suo protagonista nell'ambiente di Babilonia.
La scelta dell'ambiente babilonese non è senza ragioni: esiste una analogia tra la situazione degli Ebrei esuli a Babilonia e quella degli Ebrei della Palestina nel II sec.
Nabucodonosor non risulta come accanito persecutore della religione ebraica, ma ha bruciato il tempio di Gerusalemme e l'incendio sembra prefigurare il saccheggio di Antioco.
Le cerimonie liturgiche sono state interrotte, le condizioni di vita dell'esilio hanno reso difficile l'osservanza delle abitudini ebraiche e hanno spinto gli esuli ad apostatare.
Inoltre Babilonia ha lasciato nella memoria degli Ebrei un ricordo incancellabile.
L'A. di Dan. che tende a ridurre tutta la storia all'unità, cerca un momento nel passato nel quale un trono unico domina il mondo.
Questo trono, anteriore ad Alessandro e ad Antioco, non può essere che a Babilonia, capitale famosa per la gloria passata, per le vicissitudini politiche, per il prestigio delle immense ricchezze, per la fama di scienza dei sacerdoti e dei maghi, per la vittoria su Gerusalemme, e l'unica adatta a servire da teatro al sorgere di misteri e di rivelazioni che dovevano dar forza al popolo ebraico in un'ora così difficile.
In questo ambiente babilonese spicca la figura di Nabucodonor II ( 605-562 ), figlio di Nabopolassar ( 625-605 ) che sembra rappresentare anche i successori Amel-Marduch, l'Evil-Merodach di Re e Ger. ( 562-60 ), Neriglissar ( 560-56 ), Labash-Marduch ( 556 ) e Nabonide ( 556-39 ).
Nello sfondo babilonese, nel susseguirsi degli eventi politici e militari, è presentata anche la potenza dei Medi e dei Persiani con la evoluzione che questo impero ha prodotto sul mondo orientale con la sua mentalità, la letteratura e l'amministrazione.
Astiage è conosciuto come predecessore di Ciro ( c. 14 ), ma è su Ciro ( 559-529 ) che è riflessa la luce maggiore perché Ciro ha conquistato Babilonia ( 538 ) e ha emanato un decreto per la restaurazione del giudaismo.
Dei successori è difficile l'identificazione nel libro, sebbene si parli di Serse I ( 485-465 ).
Cambise, il conquistatore dell'Egitto ( 526 ), e Smerdi non sono nominati direttamente.
Di Dario I d'Istaspe ( 522-485 ) si accenna alla divisione dell'impero in satrapie, sebbene la sua identificazione con Dario il Medo rimanga sempre problematica.
Sull'albero dell'antico impero appare trasfusa anche la linfa del mondo greco.
Di Alessandro e dei successori non si fanno i nomi, tuttavia alcune brevi linee permettono di scorgere la figura del fondatore dell'impero ellenistico e la divisione compiuta dai Diadochi.
Più dettagliato è lo sguardo ai Seleucidi e ai Lagidi e alle loro lotte per il dominio della Palestina, delineate con una ricchezza tale di particolari da rendere facile l'identificazione dei vari re.
È il periodo che maggiormente interessa l'A. Dei Seleucidi e dei Tolomei non tutti i sovrani sono elencati e non tutte le gesta sono registrate, ma solo quelle che hanno un contatto diretto con la Palestina, eterno campo di battaglia degli eserciti orientali.
Con la battaglia di Paneion ( 198 ) i Seleucidi si assicurano il dominio della Palestina e possono vantarsi di dominare un impero pari a quello degli antichi Assiri, con una popolazione di milioni di uomini diversi per razza, religione e lingua sui quali l'unica possibilità di fusione o coesione è rappresentata dall'ellenismo.
Nelle città da essi fondate i Seleucidi immettono e favoriscono colonie greche, diffondono la lingua, la cultura, le arti di una Grecia parzialmente degenerata, ma sufficientemente viva per trasmettere il messaggio della sua civiltà.
I nuovi poeti Callimaco e Teocrito non sono certamente all'altezza di Pindaro o di Omero, ma fanno ugualmente presa; gli storici Polibio e Beroso senza offuscare Erodoto e Tucidide assolvono i loro compiti; la nuova architettura, lontana dalle glorie del Partenone, è ellenistica; i teatri costruiti, senza suscitare nomi come quelli di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, formano nell'Oriente una mentalità greca, aiutati dalle scuole filosofiche dello stoicismo e dell'epicureismo.
Sotto la spinta di questa cultura le aristocrazie locali si preoccupano di assimilare le nuove dottrine e l'Oriente assume una fisionomia occidentale: le vecchie civiltà sdrucciolano, le antiche religioni si fondono con i miti del paganesimo greco nella celebrazione dei culti misteriosofici.
Nel fermento di questo mondo orientale la comunità giudaica della Palestina avverte il pericolo dell'invasione e della assimilazione dell'ellenismo e reagisce con forza al tentativo di Antioco IV Epifane anche perché perdere la propria caratteristica culturale significa rinunciare alla propria indipendenza politica e confondersi nell'immenso mare dell'impero siro.
La resistenza prende il nome dalla rivolta dei Maccabei e provoca la presa di posizione di Antioco: l'A. prende di mira questo scorcio della storia ellenistica e si accanisce nello stigmatizzare Antioco e i suoi sostenitori in campo ebraico, e nell'esaltare la fedeltà alle tradizioni e alla legge ebraiche.
Non bisogna tuttavia pensare che Antioco sia mosso da un odio razziale o religioso e da fanatismo: egli agisce per ragioni di stato e perseguita il giudaismo solo per motivi politici.
Considera il rifiuto di adorazione degli dèi ellenistici come una ribellione al potere dei Greci, come mancanza di civismo sopratutto quando constata che molti Ebrei, eruditi, colti, politicanti, viaggiatori, delusi dalla incapacità delle tradizioni del proprio popolo ad adattarsi ai tempi nuovi, non restano insensibili al trionfo intellettuale dell'ellenismo.
Tuttavia la pressione di Antioco non ha successo perché in tutte le classi della società ebraica rimangono i fedeli alle proprie tradizioni nazionali.
La persecuzione, anziché fiaccarli, galvanizza questi conservatori e fa loro ritrovare l'atmosfera eroica che respirano le più grandi pagine della storia ebraica.
Il contenuto dottrinale del libro è all'altezza della situazione e risponde alle esigenze del momento con due direttrici ben marcate.
Durante quella lotta nella quale gli Ebrei sono premuti dal tallone dell'impero seleucida una sola è la certezza che può infondere il coraggio e la capacità di resistere e consiste nella convinzione che i regni pagani sorgono, crescono e crollano inesorabilmente, e che un solo regno domina imperturbabile ed è il regno di Dio, il compimento dell'attesa continua del popolo ebraico.
Inoltre, poiché la persecuzione incalza e compie numerose vittime, l'A. deve far balenare che questo regno non arriverà quando tutte le forze saranno stremate, ma in un tempo nel quale la venuta non sarà troppo tardi: insiste sulla prossimità del regno messianico da quanto risulta dalle varie cifre relative al tempo della fine della persecuzione.
Anzi, poiché la lotta di Antioco è presentata al culmine dei regni pagani al quale segue l'intervento divino, l'A. non manca di sottolineare che il benessere e la prosperità sono appena al di là di questa prova che è già arrivata nella fase finale.
La seconda linea direttrice della dottrina del libro si incunea nel mondo culturale.
L'ellenismo predomina e dilaga incontrastato in Oriente.
Chiudere gli occhi a questa cultura e soprattutto alla saggezza che ne consegue potrebbe significare oscurantismo ostinato.
L'A. perciò deve dimostrare agli Ebrei che la vera saggezza parte da Dio e che si può acquistare senza allontanarsi dalle istituzioni e tradizioni ebraiche, anzi che la fedeltà alla legge è un requisito essenziale per potersi mettere in contatto con Dio e ottenere la saggezza.
Non solo. La saggezza di origine divina è infinitamente superiore a quella pagana e non ha nulla a temere dal confronto con quella delle scuole dei maghi e dei caldei.
Si spiegano allora gli insuccessi dei maghi pagani nei primi sei cc. e le vittorie di Daniele, la cui sapienza è di origine e di ispirazione divina ed è ottenuta attraverso l'osservanza delle regole della legge, unica ascesi e preparazione e scuola per divenire saggi.
Il fatto che i primi sei cc. redatti in terza persona riguardino la vita di Daniele e gli ultimi sei, redatti in prima persona, appaiano scritti da Daniele stesso, ha spinto la tradizione a vedere in Daniele, personaggio del tempo dell'esilio a Babilonia, l'A. del libro.
Così Mt 24,15 attribuisce a Daniele l'abominio della desolazione ( 9,7 ): tuttavia la citazione non sembra possa essere conclusiva per dimostrare l'autenticità dell'intero libro come non altrettanto conclusivo sembra il ricordo di Daniele e compagni di 1 Mac 2,59s perché potrebbe essere solo l'attestazione dell'esistenza di una tradizione intorno al ciclo di Daniele al tempo dei Maccabei, esistenza che d'altronde nessuno vuoi negare, non di un libro completo.
Più esplicita è l'attribuzione della tradizione giudaica ( Giuseppe Flavio, Ant. Giud., XI, 8,4 s.; X,10,4 ) che non ha mai dubitato della autenticità.
Origene, Ippolito, Crisostomo, Teodoreto, Tertulliano e Girolamo si schierano decisamente per l'attribuzione a Daniele del libro.
Il primo dubbio nasce nel neoplatonico Porfirio, le cui difficoltà in proposito sono conservate da Girolamo: il libro sarebbe l'opera di un autore del tempo dei Maccabei.
Solo nel sec. XVIII e XIX si riprende e sviluppa il primo dubbio: la critica porta numerosi argomenti per attribuire la composizione del libro a un autore del tempo dei Maccabei.
Gli argomenti riguardano la lingua considerata sia nella struttura logica sia negli imprestiti greci e persiani, toccano l'atteggiamento di Sir 48,22-49,12 che tace il nome di Daniele quando tesse l'elogio dei profeti, sottolineano la diversità della dottrina sulla risurrezione e sulla retribuzione tra Dn 12,1-3, Eccle. ed Eccli., mettono in rilievo la mancanza di Daniele nel canone ebraico dei profeti e le inesattezze storiche sul tempo dell'esilio e la accuratezza dei particolari sugli avvenimenti del il sec. soprattutto su Antioco Epifane.
È innegabile che la questione sulla composizione di Daniele è tra le più complicate e difficili dell'A. T.
Anche nel campo cattolico, sebbene non manchino i tenaci assertori della opinione tradizionale e studiosi i quali pensano all'inizio dell'epoca greca ( c. 300 a. C. ) come data di edizione del libro nel quale si sarebbero introdotti ritocchi e glosse di epoca maccabaica, oggi da molti si ammette che l'insieme degli episodi suppone stabilita la potenza greca e la divisione dell'impero tra Lagidi e Seleucidi e si pone come data della raccolta primitiva il in sec. a. C., data che sarebbe confermata anche dal criterio linguistico secondo il quale l'aramaico sarebbe a mezza strada tra l'aramaico dei papiri di Elefantina ( sec. V ) e quello dei sec. I/II a. C.
La stesura definitiva del libro sarebbe avvenuta nel II sec. a. C.
L'A., fedele e zelante conservatore delle tradizioni giudaiche, avrebbe preso un materiale più antico sul ciclo di Daniele, già fissato e scritto, l'avrebbe elaborato utilizzando gli elementi che potevano prestarsi ad applicazioni ai tempi della persecuzione e organizzandoli in uno schema unitario.
L'A. non potrebbe essere il giudeo Daniele sebbene molti studiosi, anche non cattolici, ammettano l'esistenza di un giudeo chiamato Daniele, vissuto ai tempi dell'esilio.
Recentemente si è voluto leggere il nome di un Daniele in una iscrizione trovata a Ur.
Il libro non è nuovo quanto allo sfondo e all'esilio in Mesopotamia e presenta affinità con il ciclo di Akhikar e con la storia di Tobia.
Il primo, rifuso ed edito in aramaico da un Giudeo sulla base di un'opera popolare assira, contiene proverbi e massime, conosciuti a Babilonia da Democrito e tradotti in greco, e passa nella vita leggendaria di Esopo e nelle favole di Fedro e di La Pontaine.
Akhikar appartiene alla classe degli scribi e dei ministri di corte al tempo di Sennacherib.
Come Daniele, cade in disgrazia in seguito a una calunnia e rientra nei favori del sovrano.
Come Daniele, Akhikar risolve gli enigmi e, quando il Faraone lancia una sfida a Sennacherib, come la regina di Saba a Salomone, è incaricato dal re di rispondere.
Anche la storia di Tobia offre contatti con la tradizione di Daniele.
Come Daniele, Tobia è un esule, a Ninive anziché a Babilonia, e continua l'osservanza della legge; come Daniele, Tobia è funzionario alla corte di Salmanassar, Sennacherib e Assarhaddon.
Akhikar e Tobia riprendono il tema del prologo e dell'epilogo di Giobbe: un giusto è provato ma, grazie a Dio, trionfa della prova e si ritrova più felice di prima.
I racconti della prima parte di Daniele sviluppano la medesima etica tradizionale.
La fedeltà a Dio appare tuttavia ricompensata più immediatamente che nell'epilogo di Giobbe, in Akhikar e in Tobia.
Nella parte apocalittica di Dan. la ricompensa per le prove presenti è rinviata alla venuta del regno divino.
Le fonti essenziali del libro sono da ricercare nella legge, nei profeti e nei sapienziali.
L'intero libro di Enoch non può avere esercitato una influenza su Daniele: sarebbe più vero il contrario.
Le parti anteriori o contemporanee alla rivolta maccabaica come l'Apocalisse delle settimane ( Enoch 93,1-10; 91,12-17 ), la Caduta degli Angeli e l'Assunzione di Enoch ( 6-36 ) illuminano i pensieri, le preoccupazioni e i gusti dell'ambiente nel quale Dan. è stato pubblicato.
Esistono alcuni elementi secondari che alcuni autori vogliono attribuire a una influenza non biblica, come le quattro ère del mondo rappresentate dai etalli nelle tradizioni indoeuropee ( c. 2 ), l'albero cosmico ( c. 4 ), il fiume di fuoco ( 7,10 ), l'uomo primordiale ( 7,13 ), i simboli astrali, la speranza nella risurrezione ( 12,2 ), l'immortalità ( 12,3 ), lo sviluppo della dottrina degli angeli la cui origine sarebbe da cercarsi nelle sette entità dello zoroastrismo.
I contatti si possono difficilmente negare.
Tuttavia questi elementi, se sono stati presi in prestito da un mondo non biblico, sono rifusi sotto la pressione della tradizione biblica.
I quattro metalli non sono più legati alle ere del mondo ma a quattro imperi storici che si sono incrociati con il destino del popolo ebraico.
L'albero non è più cosmico, ma un grande regno secondo la terminologia di Ez.
Gli angeli sono inviati da Dio secondo la tradizione dei Semiti occidentali già attestata nei documenti di Ras Shamra.
Inoltre dietro quasi tutti gli elementi elencati si può trovare un testo profetico che li ispira.
Per es. Ger 25,11; Ger 29,10 servono di tema al c. 9.
Il libro di Isaia sembra specialmente alla base degli sviluppi del libro di Daniele; si vede in Is 13,17 l'origine di Dario il Medo; Is 43,2 evoca il c. 3; Is 21,5 il c. 5; i cc. Is 10; Is 14; Is 47 contro l'orgoglio delle nazioni pagane e gli idoli il c. 6; Is 10,28,34 e 2 Re 19,7 le campagne del c. 11; Is 53,12ss la visione escatologica del c. 12 che sarebbe la prima esegesi del servitore sofferente, secondo uno studio molto recente.
Il testo ebraico-aramaico si trova nel Testo Masoretico che in molti particolari è inferiore a quello delle versioni.
I manoscritti scoperti a Khirbet Qumran nel deserto di Giuda presso il Mare Morto hanno fornito tre frammenti del testo semitico del libro su due diversi rotoli.
I due primi frammenti, paleograficamente vicini al rotolo di Isaia, sono scritti su una stessa colonna e contengono brani di Dn 3,23-30 in aramaico; il terzo contiene su brani di due colonne Dn 1,10-16 e Dn 2,2-6 includendo il passaggio dall'ebraico all'aramaico.
Il testo dei frammenti, che possono risalire a un'epoca che va dal I sec. a. C. al I sec. d. C., è sostanzialmente uguale a quello masoretico e registra solo differenze ortografiche.
Le parti deuterocanoniche del libro sono la preghiera di Azaria e il cantico dei tre fanciulli nella fornace ( 3,24-100 ), i racconti di Susanna ( 13 ) e di Bei e il drago ( 14 ), tutte in lingua greca.
L'appartenenza originaria al testo protocanonico è probabile per il c. 3 perché l'inserzione è a proposito; infatti esiste il testo aramaico di Dn 3,24-100 che è difeso da un autore come autentico, mentre quasi tutti gli autori negano con ragioni poco convincenti; è possibile per il c. 14 in quanto nella seconda parte ha affinità col c. 6; è piuttosto da escludersi per il c. 13 in quanto non ha rapporti col libro protocanonico.
Tutte queste parti, però, sono sempre state ritenute ispirate nella Chiesa.
Don Federico Tartaglia
Card. Gianfranco Ravasi
Don Claudio Doglio
Don Alessio Fifi
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