La città di Dio

Indice

Le due genealogie e le due città da Set e Caino al diluvio

9 - Gigantismo e longevità

Perciò nessun critico avveduto dei fatti può dubitare che fu possibile a Caino fondare non una qualsiasi ma una grande città, giacché la vita degli individui si prolungava assai nel tempo.

Un pagano potrebbe sollevare qualche difficoltà sul notevole numero di anni vissuti dagli uomini di allora, come è riferito dalla testimonianza dei nostri libri e negarne la credibilità.

Così non credono che anche le dimensioni del corpo erano di mole molto maggiore allora che oggi.

In proposito il più illustre dei loro poeti, Virgilio, racconta di una pietra enorme che, infissa sulla linea di confine dei campi, un eroe di quei tempi, mentre combatteva, svelse, corse sollevandola, la bilanciò e la scagliò; e commenta: Dodici atleti della più grande corporatura che oggi la natura produce avrebbero stentato a sollevarla sulla testa.4

Voleva dire che allora la natura produceva stature più grandi.

A più forte ragione in tempi più recenti prima del celebre famoso diluvio.

Ma le tombe scoperte a causa dell'antichità o dallo straripamento dei fiumi o per altre evenienze convincono gli increduli della grande mole dei corpi perché in esse si resero visibili o da esse caddero ossa di cadaveri d'incredibile grandezza.

Ho visto di persona, e non ero solo perché c'erano altri con me, sulla spiaggia di Utica un dente molare di un uomo così grosso che se fosse stato sminuzzato nei limiti dei nostri denti, ci sembrò che se ne potessero tirar fuori un centinaio.

Io penso che fosse di un gigante.

Infatti, sebbene allora i corpi di tutti fossero di statura molto più grande dei nostri, i giganti superavano di gran lunga tutti.

Come in altri tempi e poi nei nostri sono fenomeni rari, ma non mancarono in alcun tempo stature che di molto superavano la misura delle altre.

Plinio il Vecchio, uomo di grande cultura, afferma che la natura produce corpi di mole minore man mano che trascorre la vicenda dei tempi5 e ricorda che anche Omero più volte si rammaricò nei poemi di questo declino.6

Non voleva deridere queste affermazioni come finzioni poetiche ma come scrittore le inseriva nella verità storica di meraviglie della natura.

Ma le ossa, come ho detto, che frequentemente si rinvengono, poiché appartengono a periodi di lunga durata, rinviano le grandi stature degli antichi a secoli molto lontani gli uni dagli altri. ( Gen 6,4 )

La longevità individuale poi, propria di quel periodo, non può divenire oggetto di diretta conoscenza mediante rispettive documentazioni.

Ma non per questo si può sottrarre credibilità a questa storia sacra perché con molta sfrontatezza non si accetterebbero i fatti narrati dal momento che possiamo costatare con assoluta certezza che le predizioni si sono avverate.

Dice tuttavia Plinio che v'è oggi ancora un popolo nel quale si vive duecento anni.7

Se dunque si ritiene come certo che un prolungamento della vita umana, di cui noi non abbiamo avuto diretta conoscenza, riguarda territori a noi sconosciuti, non v'è motivo di non credere che abbia riguardato anche i tempi.

E non è ragionevole ritenere che in un qualche luogo vi sia ciò che in questo non c'è e non ritenere che in un qualche tempo ci sia stato ciò che in questo non c'è.

10 - Calcoli d'età nella genealogia dei patriarchi

Pertanto v'è, come sembra, un certo disaccordo fra il testo ebraico e il nostro sul numero degli anni.

Non so com'è avvenuto. Tuttavia non è così notevole da indurre a non ammettere che quegli uomini furono assai longevi.

Difatti nel nostro testo si legge che il primo uomo Adamo, prima di generare il figlio, chiamato Set, era vissuto duecentotrenta anni, invece nel testo ebraico centotrenta; ma per gli anni dopo la nascita si legge settecento nel nostro testo e ottocento nell'altro; così nell'uno e nell'altro la somma dell'intero concorda.

Di seguito per le generazioni successive si riscontra nel testo ebraico che il padre, prima della nascita del figlio ivi menzionato, aveva cento anni di meno che nel nostro testo, ma dopo la nascita del medesimo figlio nel nostro si hanno cento anni in meno che nell'ebraico; così nell'uno e nell'altro il totale corrisponde.

Nella sesta generazione, i due testi non dissentono.

Nella settima generazione, in cui il figlio nato è Enoch che, stando alla Scrittura, non morì ma fu assunto perché piacque a Dio, v'è, come nelle prime cinque generazioni, il disaccordo di cento anni prima di generare il figlio, ivi menzionato, e l'accordo nel totale.

Enoch infatti, secondo ambedue i testi, prima di essere trasferito, visse trecentosessantacinque anni.

L'ottava generazione ha una certa discordanza ma di minore entità e diversa dalle altre.

Matusalem infatti, nato da Enoch, prima di generare colui che segue nella discendenza, secondo il testo ebraico, non aveva cento anni di meno ma venti di più, i quali nel nostro testo sono stati aggiunti dopo la nascita del figlio e nell'uno e nell'altro è identica la somma dell'intero.

Soltanto nella nona generazione, cioè negli anni di Lamech, figlio di Matusalem e padre di Noè, il totale si differenzia ma non molto.

Si ha nel testo ebraico che è vissuto ventiquattro anni di più che nel nostro.

Prima di generare il figlio, chiamato Noè, ha nel testo ebraico sei anni di meno che nel nostro ma, dopo averlo generato, nell'ebraico trenta anni di più che nel nostro.

Detratti i sei, rimangono ventiquattro anni, come è stato detto.

11 - Matusalem non ha visto il diluvio

Da questo disaccordo del testo ebraico col nostro sorge una celeberrima discussione giacché si calcola che Matusalem sia sopravvissuto quattordici anni al diluvio.

Invece la sacra Scrittura ricorda che fra tutti coloro che allora vivevano soltanto otto individui sfuggirono con l'arca allo sterminio del diluvio e fra di essi non c'era Matusalem. ( Gen 7,7; 1 Pt 3,20 )

Stando al nostro testo Matusalem, prima di mettere al mondo il figlio chiamato Lamech, era vissuto centosessantasette anni e Lamech, prima che da lui nascesse Noè, era vissuto centottantotto anni. ( Gen 5,25.28 )

Addizionati sono trecentocinquantacinque anni.

Ad essi si aggiungono i seicento anni di Noè, cioè quelli che aveva nell'anno in cui avvenne il diluvio.

Sono novecentocinquantacinque anni dalla nascita di Matusalem fino all'anno del diluvio.

Ora tutti gli anni della vita di Matusalem sono calcolati a novecentosessantanove anni.

Aveva infatti centosessantasette anni quando mise al mondo il figlio chiamato Lamech e dopo la sua nascita visse altri ottocentodue anni che addizionati, come ho detto, diventano novecentosessantanove.

Quindi sottratti i novecentocinquantacinque anni dalla nascita di Matusalem al diluvio, ne rimangono quattordici con i quali sopravvisse al diluvio.

Quindi alcuni suppongono che non rimase sulla terra perché è evidente che ogni specie, a cui la natura non consente di vivere nell'acqua, fu distrutta, ma che sia vissuto per qualche tempo col padre che era stato assunto e che lì visse fino alla fine del diluvio.

Costoro non vogliono sottrarre la credibilità al testo cui la Chiesa ha assicurato l'autorità di maggior credito e ritengono che il testo degli Ebrei anziché il nostro non garantisce la veridicità.

Non ammettono che piuttosto nel nostro testo vi sia potuto essere l'errore dei traduttori, anziché nella lingua da cui, attraverso il greco, la Scrittura è stata tradotta nella nostra lingua.

Non è credibile, dicono, che i settanta traduttori, i quali simultaneamente e sulla base di un identico criterio hanno effettuato le versione, abbiano potuto errare o voluto mentire in un caso che non coinvolgeva i loro interessi.

Aggiungono che i Giudei, gelosi che la Legge e i Profeti mediante la versione siano stati trasmessi a noi, hanno contraffatto alcune notizie nel loro testo affinché diminuisse la veridicità del nostro.

Si accolga come si crede questa opinione o sospetto.

È certo però che Matusalem non sopravvisse al diluvio e morì nello stesso anno se è vero ciò che si legge nel testo sul numero degli anni.

La mia opinione sui settanta traduttori sarà con maggior senso critico inserita nel giusto contesto, quando con l'aiuto del Signore giungerò a parlare della loro epoca nei limiti richiesti da questa opera.8

È sufficiente per il problema in atto che secondo l'uno e l'altro testo gli uomini di quel tempo furono così longevi che, durante l'esistenza di quel solo individuo primogenito della sola coppia esistente sul pianeta, il genere umano poté crescere al punto da costituire una città.

12.1 - Anni di trentasei giorni

Non si deve assolutamente dar retta a certuni i quali ritengono che in quel tempo gli anni si computavano diversamente, erano cioè di tanta brevità da corrispondere un anno nostro a dieci dei loro.

Quindi, dicono, se si sente dire o si legge che un tale è vissuto novecento anni, si deve intendere novanta poiché dieci di quegli anni è uno dei nostri e dieci dei nostri cento di quelli.

E per questo, pensano, Adamo aveva ventitré anni quando mise al mondo Set e Set aveva venti anni e sei mesi quando da lui nacque Enos.

La Scrittura li considera duecentocinque anni perché, come suppongono costoro di cui esponiamo l'opinione, gli antichi frazionavano in dieci parti un solo anno dei nostri e consideravano anni quelle parti.

Una di queste parti è sei al quadrato perché in sei giorni Dio ha portato a compimento le sue opere per riposarsi al settimo.

Ho discusso, come m'è stato possibile, l'argomento nel libro undicesimo.9

Ora sei moltiplicato per sei, cioè il quadrato di sei, sono trentasei giorni che moltiplicati per dieci sono trecentosessanta, cioè dodici mesi lunari.

Rimanevano cinque giorni per completare l'anno solare e un quarto di giorno con cui, moltiplicato per quattro, si aggiunge un giorno all'anno chiamato bisestile.

Dagli antichi in seguito questi giorni furono addizionati all'anno lunare affinché corrispondesse la durata degli anni.

I Romani chiamarono intercalari questi giorni.

Quindi, soggiungono, anche Enos, figlio di Set, aveva diciannove anni quando da lui nacque il figlio Cainan, mentre la Scrittura dice che erano centonovanta anni. ( Gen 5, 9 )

E di seguito attraverso tutte le generazioni, nelle indicazioni degli anni degli individui prima del diluvio, non si trova nel nostro testo un patriarca che abbia avuto un figlio all'età di cento anni o sotto o anche di centoventi anni o non molto di più, ma si dà notizia che coloro i quali ebbero figli nell'età più giovane avevano per lo meno centosessanta anni e di più.

Non può avere figli, aggiungono, un uomo di dieci anni che dagli antichi erano considerati cento.

A sedici anni invece la pubertà matura è idonea a generare prole, ma i tempi antichi li consideravano centosessanta.

E affinché non sia incredibile che allora l'anno fu computato diversamente aggiungono l'informazione, reperibile in molti storiografi, che gli Egiziani avevano l'anno di quattro mesi, gli Acarnani di sei mesi, i Lavini di tredici mesi.

Plinio il Vecchio, dopo aver citato le dichiarazioni di opere di letteratura che un tale era vissuto centocinquantadue anni, un altro dieci di più, che certuni furono in vita per duecento anni, altri per trecento, che altri erano arrivati a cinquecento, altri a seicento, alcuni perfino a ottocento, ha avanzato l'ipotesi che tali notizie siano state diffuse a causa dell'ignoranza dei tempi.

Alcuni, dice, delimitavano un anno con l'estate e un altro con l'inverno, altri, come gli Arcadi, lo dividevano in quattro tempi, sicché gli anni erano di tre mesi.

Ha aggiunto che in un certo tempo anche gli Egiziani, di cui poco fa abbiamo ricordato gli anni brevi di quattro mesi, delimitavano gli anni col terminare della luna.

Quindi, afferma, da loro si tramanda che vivevano un migliaio di anni.10

12.2 - Incongruenze della ipotesi

Con queste dimostrazioni ritenute convincenti quei tali non intendono screditare l'attendibilità della Storia sacra, anzi si sforzano di assicurare che non sia incredibile la narrazione secondo la quale gli antichi sono vissuti per tanti anni.

Si sono quindi convinti, e non pensano di esserlo senza fondamento, che un così piccolo spazio di tempo fu allora considerato un anno al punto che dieci di quelli sono un anno per noi e dieci dei nostri cento di quelli.

Con un argomento assai evidente si può dimostrare che tale interpretazione è del tutto falsa.

Prima di farlo però ritengo di non dover tralasciare un'ipotesi che potrebbe essere molto attendibile.

Potevo ribattere irrefutabilmente la tesi mediante il testo ebraico, in cui si legge che Adamo non aveva duecentotrenta anni ma centotrenta quando mise al mondo il terzo figlio. ( Gen 5,3 )

Se corrispondono a tredici dei nostri anni, certamente, quando mise al mondo il primo, aveva undici anni o non molto di più.

A questa età per una comune e a noi assai nota legge di natura non si può diventare padri.

Ma lasciamo da parte costui che forse lo poté anche appena creato.

Non si deve ritenere infatti che, quando venne al mondo, fosse piccino come i nostri bimbi.

Il figlio Set, quando mise al mondo Enos, non aveva duecentocinque anni, come si legge nel nostro testo, ma centocinque, ( Gen 5,6 ) quindi secondo costoro non aveva ancora undici anni.

Non parlo del figlio Cainan che, quando mise al mondo Maleleel, ( Gen 5,12 ) nel nostro testo aveva centosettanta anni, ma settanta in quello ebraico.

Non si è padri a sette anni se erano sette gli anni che in quei tempi erano considerati settanta.

13.1 - Confronto fra il testo ebraico e i Settanta

Ma se darò simile spiegazione, mi si replicherà che è una impostura del testo dei Giudei, della quale si è parlato abbastanza in precedenza, poiché i Settanta, uomini di meritata notorietà, non hanno potuto compiere alterazioni.

In proposito chiedo quale spiegazione sia più attendibile fra le due.

O il popolo dei Giudei sparso dappertutto ha potuto con decisione unanime trovarsi d'accordo nel consegnare allo scritto questa falsificazione e così nell'invidiare la reputazione degli altri ha rinunziato alla verità; oppure i Settanta, anch'essi Giudei, adunati in uno stesso ambiente, perché ve li aveva convocati allo scopo Tolomeo, re d'Egitto, hanno invidiato la verità in parola ai popoli di altra razza e hanno agito in questo modo con decisione concordata.

Ognuno capisce quale delle due spiegazioni si accetta con maggiore attendibilità e decisione.

Ma un uomo avveduto non può supporre che i Giudei, sia pure di tanta perversità e malvagità, siano stati capaci di tanto in numerosi testi diffusi un po' dovunque o che i Settanta, uomini degni di onore, abbiano preso in comune accordo la decisione di non far conoscere la verità ai pagani.

È più attendibile dire che, quando si cominciò a trasmettere copie di quelle parti della Bibbia dalla biblioteca di Tolomeo, in un solo testo si è potuto verificare un errore, cioè nel primo copiato, dal quale si è esteso agli altri.

È possibile forse anche un errore dello scrivano.

Non è arbitrario supporlo nel caso della vita di Matusalem e nell'altro in cui la somma non concorda per l'eccedenza di ventiquattro anni.

Negli altri casi invece si ha di seguito la medesima inesattezza così che prima della nascita del figlio, inserito nella genealogia, in un testo si hanno cento anni in più e nell'altro cento in meno e dopo la nascita cento in più dove mancavano e cento in meno dove eccedevano in modo tale che la somma concordasse e questo avviene nella prima, seconda, terza, quarta, quinta e settima generazione.

In essi l'errore sembra avere una certa regolarità e non sa di emergenza ma di deliberazione.

13.2 - Possibili spiegazioni delle divergenze

Dunque la diversità di numeri differenti nel testo greco e latino e rispettivamente in quello ebraico, nei casi in cui si ha per alcune generazioni la parificazione con cento anni prima addizionati e poi sottratti, non si deve attribuire né alla malignità dei Giudei né alla diligenza o prudenza dei Settanta, ma a uno sbaglio dello scrivano che per primo prese a copiare il testo dalla biblioteca di re Tolomeo.

Anche oggi, se i numeri non fanno riferimento a qualche nozione che si comprende perché facile nella teoria o si apprende per la utilità pratica, sono messi in carta con disattenzione e con maggior disattenzione sono corretti.

Nessuno si pone il problema di dover apprendere quante migliaia di persone avevano singolarmente le varie tribù d'Israele, ( Nm 1-4 ) perché questa conoscenza non serve a nulla.

E sono pochi gli uomini ai quali ne sia manifesta l'importanza pratica.

Nel caso nostro, attraverso il succedersi di alcune generazioni si hanno in una cento anni in più, nell'altra cento anni in meno, e dopo la nascita del figlio menzionato nella genealogia cento anni in meno dove erano in più e cento anni in più dove erano in meno, in modo che la somma corrisponda.

Certamente chi ha fatto questo computo voleva far osservare che gli antichi vivevano molti anni perché li consideravano molto brevi e propose di mostrarlo in relazione al pieno sviluppo del sesso, cioè all'età idonea a generare figli.

Perciò volle far capire ai diffidenti che a quei cento anni corrispondevano dieci dei nostri, affinché non credessero che gli uomini erano tanto longevi e aggiunse cento anni a quelle generazioni in cui non rinvenne l'età idonea a generare figli e affinché il totale corrispondesse li detrasse dopo la nascita dei figli.

In tal modo quel tale ha voluto tutelare l'attendibilità di età idonea ad avere figli senza frodare nel numero l'intero dell'età dei singoli individui.

L'eccezione che ha introdotto per la sesta generazione, proprio essa ci avverte che egli ha fatto quel calcolo quando l'evenienza di cui parliamo lo esigeva perché non l'ha fatto quando non lo esigeva.

Si è accorto infatti che nel testo ebraico per la medesima generazione Iared, prima di mettere al mondo Enoch, aveva centosessantadue anni, ( Gen 5,18 ) che, secondo il calcolo degli anni brevi, sono sedici anni e un po' meno di due mesi.

È questa un'età adatta a generare, quindi non era necessario aggiungere cento anni brevi per toccare i nostri ventisei, né detrarli dopo la nascita di Enoch perché non li aveva aggiunti prima della nascita.

È avvenuto così che non si abbia divergenza fra i due testi.

Ma ci turba ancora il motivo per cui nell'ottava generazione, nel testo ebraico, prima che da Matusalem nascesse Lamech, sono riportati centottantadue anni e venti di meno nel nostro testo, in cui ordinariamente se ne hanno cento di più e dopo la nascita di Lamech si restituiscono a completare il totale che nei due testi non differisce.

Se infatti voleva che i centosettanta anni fossero considerati diciassette in riferimento alla piena pubertà, non doveva né addizionare né sottrarre perché aveva riscontrato un'età idonea alla procreazione dei figli in quanto, proprio per essa, nelle altre generazioni ne aggiungeva cento se non la riscontrava.

Per i venti anni invece crederemmo giustamente che sia avvenuto per un caso di inesattezza se, dopo averli detratti, non si fosse preoccupato di restituirli affinché l'intero concordasse.

Ma forse c'è da ritenere che il testo sia stato manipolato con grande furbizia per nascondere l'intruglio con cui prima si aggiungono e poi si detraggono i cento anni perché anche in quel caso, in cui non era necessario, si avesse il computo non di cento anni ma di un numero qualsiasi, anche piccolo, prima detratto e poi aggiunto.

Ma il fatto si può interpretare in vario modo, tanto se si ritiene o no che è avvenuto così o alla fin fine che sia o non sia così.

Tuttavia, quando si riscontra discordanza nei due testi, se le due versioni non sono compossibili in ordine alla credibilità dei fatti storici, io non dubiterei affatto che sia legittimo criterio accettare preferibilmente quella dalla quale è stata realizzata la traduzione mediante gli interpreti.

Difatti in tre codici greci, in uno latino e anche in uno siriaco che concordano si è riscontrato che Matusalem è morto sei anni prima del diluvio.

14.1 - Insignificanza dell'anno breve

Ora possiamo esaminare in qual senso si può dimostrare con evidenza che gli anni non erano tanto brevi da corrispondere dieci di quelli a uno dei nostri, ma erano di durate pari a quella che abbiamo oggi, come, cioè, li determina il corso del sole, e che venivano computati nella vita assai longeva dei Patriarchi.

Si ha nella Scrittura che il diluvio avvenne quando Noè aveva seicento anni.

È assurdo che vi si legga: Venne l'acqua del diluvio sopra la terra nell'anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il ventisette del mese ( Gen 7,11 ) se l'anno, tanto breve che dieci corrispondevano a uno dei nostri, aveva trentasei giorni.

Un anno così piccino, seppure aveva questa denominazione nella vecchia terminologia, o non ha mesi o, per averne dodici, un suo mese è di tre giorni.

Perciò in quel passo è stato detto: Nell'anno seicentesimo, nel secondo mese, il ventisette del mese, perché i mesi erano come ora.

Così non si poteva dire che il diluvio era cominciato il ventisette del secondo mese.

Di seguito alla fine del diluvio si legge: L'arca si adagiò nel settimo mese il ventisette del mese sui monti Ararat.

L'acqua diminuì fino all'undecimo mese; nel mese undecimo, il primo del mese, apparvero le vette dei monti. ( Gen 8,5 )

Se dunque i mesi corrispondevano a quelli di oggi, certamente anche gli anni corrispondevano.

I mesi di tre giorni non potevano giungere al ventisette.

O se allora la trentesima parte di tre giorni era considerata un giorno in modo da diminuire tutti i computi di tempo in proporzione, neanche quattro giorni dei nostri durò quell'immane diluvio che, come è tramandato, durò quaranta giorni e quaranta notti.

Non si può sostenere simile assurdità e stravaganza.

Si respinga quindi questo errore che con una falsa ipotesi vuole costruire la credibilità della nostra Scrittura per demolirla in un altro settore.

Certamente il giorno in quel tempo era lungo come in questo in cui lo delimitano ventiquattro ore nel ciclo diurno e notturno, il mese lungo come in questo tempo in cui lo circoscrive la luna nella fase crescente e calante, l'anno lungo come in questo tempo in cui lo completano dodici mesi lunari con l'aggiunta di cinque giorni e un quarto di giorno a causa del ciclo solare.

Così era il secondo mese del seicentesimo anno di Noè e il giorno ventisette di quel mese quando cominciò il diluvio.

Durante esso per quaranta giorni caddero ininterrottamente piogge impetuose ( Gen 7,12 ) e i giorni non avevano due ore e poco più ma ventiquattro ore che si succedevano giorno e notte.

Perciò i Patriarchi vissero, sia pure oltre i novecento, anni lunghi come i centosettanta che aveva Abramo ( Gen 25,7 ) e dopo di lui come i centottanta che aveva il figlio Isacco, ( Gen 35,28 ) i centocinquanta che ebbe il figlio di lui Giacobbe ( Gen 47,28 ) e come i centoventi che, dopo un po' di tempo, visse Mosè ( Dt 34,7 ) e lunghi come i settanta o ottanta o non molto di più che oggi vivono gli uomini.

Di essi è stato detto: Se in più, vi sono per essi fatica e dolore. ( Sal 90,10 )

14.2 - L'autorità dei Settanta

Quindi la differenza di cifre che si riscontra fra il testo ebraico e il nostro non è in contrasto per quanto riguarda la longevità dei Patriarchi e se v'è in qualche passo un disaccordo tale che non può esser vera l'una e l'altra versione, la verità dei fatti si deve ricercare dalla lingua da cui è stato tradotto il testo che abbiamo noi.

Questa possibilità è alla portata di chi ne ha voglia in ogni parte del mondo, tuttavia non va omesso che nessuno ha avuto il coraggio di rettificare mediante il testo ebraico i Settanta nei molti punti in cui sembra che ne dissentano.

Questa differenza infatti non è stata considerata una inesattezza né io penso che debba esser considerata tale.

Si deve ammettere però che, dove non v'è una svista dello scrivano, essi, mossi dallo Spirito divino, non nell'incarico di traduttori ma nella libertà di uomini ispirati, abbiano voluto indicare un altro significato nei passi in cui si conciliava con la verità e l'annunciava.

Quindi si riscontra a ragione che l'autorità degli Apostoli, quando riporta i brani della Scrittura, usa non solo il testo ebraico ma anche il loro.

Ma ho promesso, con l'aiuto di Dio, di parlare a fondo sul problema in circostanza più conveniente,11 ora sbrigherò l'argomento attinente.

Non si deve mettere in dubbio che sia stato possibile all'uomo, che era primogenito del primo uomo, quando erano tanto longevi, edificare una città certamente terrena, non quella che è detta città di Dio.

Per parlarne abbiamo messo mano al lavoro di un'opera così importante.

15.1 - Primogeniti genealogie e le due città

Qualcuno potrebbe obiettare: si deve credere allora che un individuo, il quale poteva aver figli e non aveva il proponimento della castità, ha potuto astenersi dal giacere con donne per cento anni e più o, secondo il testo ebraico, per non molto meno, cioè ottanta, settanta, sessanta anni, e se non si è astenuto, che gli è stato possibile non aver figli?

La domanda ha due risposte possibili.

O la pubertà era in proporzione tanto posposta quanto maggiore era il numero degli anni della intera vita, ovvero, ipotesi che ritengo più attendibile, nel testo non sono menzionati i primogeniti ma quei figli che esigeva la genealogia per giungere a Noè.

E vediamo che da lui si giunge ancora fino ad Abramo e poi fino a un determinato periodo di tempo in cui si richiede indicare, anche attraverso l'elenco delle genealogie, lo svolgersi della gloriosissima città in esilio in questo mondo e in viaggio verso la patria del cielo.

Non si può negare tuttavia che Caino è il primo uomo nato dall'accoppiamento del maschio e della femmina.

Altrimenti Adamo alla sua nascita non avrebbe detto ciò che si legge: Ho ricevuto un uomo da Dio, ( Gen 4,1 ) se egli nascendo non si fosse per primo aggiunto ai due genitori.

Abele, che lo seguì e fu ucciso dal fratello maggiore, per primo presentò una predizione allegorica della città di Dio in esilio che avrebbe sopportato ingiuste persecuzioni dagli uomini empi e in certo senso nati dalla terra, che amano, cioè l'origine terrena e godono della terrena felicità della città terrena.

Ma non è detto quanti anni aveva Adamo quando lo mise al mondo.

Di seguito vengono registrate alcune generazioni da Caino e altre da colui che Adamo ebbe in sostituzione del figlio ucciso dal fratello.

Gli diede il nome di Set e disse, come si ha nella Scrittura: Dio mi ha dato un altro figlio in luogo di Abele che Caino ha ucciso. ( Gen 4,25 )

Dunque queste due genealogie, una da Set, l'altra da Caino, indicano nelle rispettive serie le due città, di cui stiamo parlando, una celeste in esilio sulla terra, l'altra terrena che brama e si attacca agli ideali terreni come se fossero gli unici.

Però nessuno della discendenza di Caino, sebbene essa sia stata iniziata da Adamo, inserito nella lista fino all'ottava generazione, è stato presentato col numero degli anni quando ha messo al mondo colui che è elencato dopo di lui.

Lo Spirito di Dio non ha voluto indicare nelle generazioni della città terrena i periodi di tempo prima del diluvio, ha preferito farlo per quelle della città celeste, come se fossero più degne di passare alla storia.

Quando nacque Set non sono stati passati sotto silenzio gli anni del padre ( Gen 5,3 ) ma aveva già altri figli e non si può affermare che avesse avuto soltanto Caino e Abele.

Non si deve ritenere come logica conseguenza che furono gli unici generati da Adamo perché sono i soli nominati nelle genealogie che era opportuno menzionare.

Poiché, pur passato sotto silenzio il nome di tutti gli altri figli, si dice che ha generato figli e figlie, chiunque voglia evitare la taccia di avventato non può pretendere di indicare quale fu il numero dei figli.

È possibile che, dopo la nascita di Set, Adamo ispirato da Dio abbia detto: Dio mi ha dato un altro figlio in luogo di Abele perché sarebbe stato tale da continuare la devozione del fratello e non perché egli fu il primo in ordine di tempo a nascere dopo di lui.

È scritto poi: Set visse duecentocinque anni, nel testo ebraico centocinque, e diede alla luce Enos. ( Gen 5,6 )

Soltanto uno incapace di riflessione può dire che fu il primogenito.

A buon diritto dovremmo chiederci meravigliati come ha fatto per tanti anni senza il voto di castità ad astenersi dall'accoppiamento ovvero perché, malgrado l'accoppiamento, non ha avuto figli.

Al contrario anche di lui si legge: E diede alla luce figli e figlie e quando morì la sua età era di novecentododici anni. ( Gen 5,7 )

E così di seguito dei Patriarchi, di cui sono indicati gli anni, non si tace che hanno avuto figli e figlie.

Quindi non appare affatto che il figlio menzionato fosse il primogenito.

Anzi giacché non è credibile che quei Patriarchi per tanto tempo abbiano osservato il voto di castità o non abbiano avuto mogli e figli, non è credibile anche che quei figli fossero i primogeniti.

Ma poiché l'agiografo intendeva giungere, attraverso il succedersi delle generazioni nei vari periodi, alla nascita e alla vita di Noè, non ricordò quelle che erano le prime per i genitori ma quelle che s'inserivano nell'ordine genealogico.

15.2 - Confronto con la genealogia di Matteo

Affinché l'assunto sia più chiaro voglio inserire, a titolo di esempio, una considerazione per cui non si controverta la possibilità di ciò che sto dicendo.

L'evangelista Matteo, volendo affidare alla storia la genealogia della stirpe del Signore nella successione dei Patriarchi, cominciando dal patriarca Abramo e intendendo giungere nella prima serie fino a Davide, dice: Abramo generò Isacco.

Perché non ha detto Ismaele che Abramo mise al mondo per primo?

Isacco, prosegue, generò Giacobbe.

Perché non ha detto Esaù che fu il primogenito?

Perché evidentemente con essi non poteva giungere fino a Davide.

Prosegue: Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli.

Neanche Giuda fu il primogenito.

Giuda, soggiunge, generò Fares e Zarat. ( Mt 1,2-3 )

Nessuno di questi due fu il primogenito di Giuda che prima di loro ne aveva avuti tre.

Inserì dunque nella genealogia coloro attraverso i quali poteva giungere fino a Davide e da lui fino a chi intendeva.

Se ne può dedurre che anche degli antichi prima del diluvio non furono menzionati i primogeniti ma coloro attraverso i quali il succedersi delle generazioni fosse tratto fino al patriarca Noè.

Non ci affanni dunque il problema astruso e inutile della loro tardiva decisione ad accoppiarsi.

16.1 - L'ampliarsi delle parentele

Poiché il genere umano, dopo l'accoppiamento dell'uomo prodotto dal suolo e della donna prodotta dal fianco di lui, era condizionato, per aumentare di numero con le nascite, al congiungimento di maschi e femmine e gli individui umani erano soltanto i nati da loro due, gli uomini presero per mogli le proprie sorelle.

Il fatto quanto è più antico perché inevitabile, tanto in seguito fu riprovevole perché lo proibiva il sentimento religioso.

Si tenne presente infatti il nobile criterio dell'affetto per cui gli uomini, ai quali è moralmente vantaggioso il comunicare con gli altri, fossero uniti dai vincoli di varie relazioni di parentela.

Perciò un solo individuo non doveva avere una moltitudine di rapporti soltanto con un altro, ma ogni relazione doveva ripartirsi in più individui e così più relazioni avrebbero impegnato più individui ad articolare con maggiore attenzione la vita comunitaria.

Il padre e il suocero sono appellativi di due relazioni.

Quindi l'affetto si allarga nel numero se si ha il padre diverso dal suocero.

Adamo invece era costretto ad essere l'uno e l'altro per figli e figlie quando fratelli e sorelle si unirono in matrimonio.

Anche Eva, la moglie, fu suocera e madre per l'uno e l'altro sesso della figliolanza.

Se fossero state due donne, l'una madre, l'altra suocera, l'affetto per gli altri avrebbe avvinto un numero maggiore.

Inoltre la sorella, che diventava anche moglie pur essendo una, aveva due vincoli che se fossero stati differenziati in modo che sorella e moglie fossero due persone, la parentela sarebbe accresciuta di numero.

Ma non era possibile che in quel tempo ciò avvenisse perché dai due progenitori non erano nati individui umani che non fossero fratelli e sorelle.

Doveva in seguito avvenire, quando fu possibile, che aumentando il numero si avessero per mogli donne che non erano sorelle e che non solo non v'era necessità di contrarre quel matrimonio, ma era empietà il contrarlo.

Infatti anche se i nipoti dei progenitori, che potevano prendere per mogli le cugine, si fossero uniti in matrimonio con le sorelle, si sarebbero avuti in un solo uomo non più due ma tre rapporti, sebbene per diffondere l'affetto mediante una parentela sempre più larga dovrebbero essere distribuite una per ogni individuo.

Diversamente un solo individuo sarebbe per i propri figli, cioè fratelli e sorelle sposati, padre suocero e zio materno e la moglie per i medesimi figli in comune madre zia paterna e suocera.

Allo stesso modo i loro figli sarebbero reciprocamente non solo fratelli e sposi ma anche cugini, cioè figli di fratelli.

Ora tutti questi rapporti di parentela, che legavano tre persone a una, se fossero distribuiti uno per ciascuno, ne unirebbero nove in modo che un solo individuo avrebbe diversi la sorella, la moglie, la cugina, il padre, lo zio, il suocero, la madre, la zia, la suocera.

Il vincolo sociale non sarebbe ristretto a pochi ma sarebbe allargato a un numero sempre più ampio con le molte parentele.

16.2 - Incompatibilità di matrimonio e parentela

Osserviamo che, essendo cresciuta e aumentata di numero la specie umana, questa regola è osservata anche fra gli adoratori di molti falsi dèi.

Difatti sebbene matrimoni tra fratelli e sorelle siano permessi da leggi ingiuste, un più onesto comportamento preferisce aborrire questa aberrazione e sebbene nei primordi dell'umanità fosse lecito prendere come mogli le sorelle, ora esso disdegna il fatto come se mai fosse stato lecito.

Il costume infatti influisce molto nel blandire o disgustare l'umana sensibilità e poiché in questo settore reprime la sfrenatezza della sensualità, giustamente si considera disonestà se essa non riconosce il limite e si corrompe.

Se è disonestà violare, per l'avidità di possedere, il confine dei campi, è molto più disonesto rovesciare il confine della moralità per il piacere del sesso.

Sappiamo per esperienza che anche ai nostri tempi, stando alle usanze, raramente si compie il matrimonio con le cugine per il grado di parentela molto vicino a quello dei fratelli, sebbene fosse consentito dalle leggi, poiché non l'ha proibito la legge divina e ancora non l'aveva proibito quella umana.

Un rapporto per sé legittimo si detestava a causa della somiglianza con l'illegittimo perché sembrava che il legame che si contraeva con la cugina fosse contratto con una sorella.

Anche i cugini a causa della stretta parentela sono chiamati fratelli e quasi dello stesso padre. ( Gen 13,8; Gen 14,14.16; 1 Cr 23,21-22 )

Per i Patriarchi, affinché la parentela, la quale si frazionava un po' alla volta nella serie delle discendenze, non divenisse alla lontana e non cessasse di esser parentela, fu connaturato a un impegno religioso avvincerla con un nuovo vincolo di matrimonio e per così dire rincorrerla mentre fuggiva.

Perciò quando la terra era già popolata, gli uomini preferivano sposare non già sorelle di padre o di madre o nate dall'uno e dall'altro dei propri genitori, ma comunque donne della propria tribù.

Tuttavia è innegabile che oggi con maggior senso morale sono stati proibiti i matrimoni anche fra cugini.

E questo non solo per i motivi che ho esposto, cioè per aumentare il numero dei congiunti affinché una sola persona non abbia due vincoli con un'altra, se possono averli in due e così accrescere il parentado.

C'è anche, non saprei in quale misura, che è inerente al pudore umano, qualcosa di moralmente congenito per cui l'uomo trattiene dalla donna alla quale deve, a causa della parentela, un deferente rispetto, la sessualità anche se destinata a generare.

Vediamo che ne arrossisce perfino la verecondia coniugale.

16.3 - Generazione e rigenerazione

L'unione di maschio e femmina, per quanto attiene al genere umano, è il vivaio della città, ma la città terrena ha bisogno soltanto della generazione, quella celeste anche della rigenerazione per sfuggire alla condanna della generazione.

La Storia sacra tace se prima del diluvio vi sia stata, e se v'è stata, quale fu la figura simbolica concreta e visibile della rigenerazione, come la circoncisione imposta in seguito ad Abramo. ( Gen 17,10-11 )

Non tace però che anche gli uomini primitivi hanno offerto sacrifici a Dio, come fu manifesto nei due fratelli ( Gen 4,3-4 ) e si legge che dopo il diluvio anche Noè, uscito dall'arca, immolò vittime a Dio. ( Gen 8,20 )

Sull'argomento nei libri precedenti ho detto che i demoni, i quali si arrogano la natura divina e bramano di esser creduti dèi, esigono il sacrificio e godono di tali onori soltanto perché sanno che il sacrificio vero è dovuto al Dio vero.12

17 - Simbolismo delle due discendenze

Adamo era padre dell'una e dell'altra discendenza, cioè di quella la cui genealogia appartiene alla città terrena e dell'altra la cui genealogia appartiene alla città celeste.

Ucciso Abele, alla cui morte è affidato un mirabile mistero, divennero rispettivamente padri delle due città Caino e Set perché nei loro figli, che era opportuno nominare, cominciarono a manifestarsi con maggiore evidenza i caratteri delle due città nell'umana discendenza.

Caino generò Enoch e nel suo nome fondò una città, certamente terrena, non esule viandante in questo mondo ma in riposo nella pace e prosperità temporali.

Caino significa possesso, perciò quando nacque tanto il padre che la madre dissero: Ho acquistato un uomo dal Signore.13

Enoch invece significa "inaugurazione",14 in quanto la città terrena s'inaugura in questo mondo dove è fondata, perché in questo mondo ha il fine che si propone e persegue.

Inoltre Set significa "risurrezione"15 e il figlio Enos "uomo"16 ma non come Adamo.

Anche questo nome significa uomo ma ci viene fatto sapere che in quella lingua, cioè l'ebraico, è comune al maschio e alla femmina.

Si ha nella Scrittura: Li creò maschio e femmina, li benedisse e li denominò Adamo.17

Quindi non c'è dubbio che la donna con un proprio nome fu chiamata Eva in modo che Adamo, che significa uomo, fosse il nome di tutti e due.

Enos significa uomo in un senso che, per quanto affermano gli intenditori di quella lingua, non si può applicare alla donna, e cioè come figlio della risurrezione dove non sposeranno e non saranno sposati. ( Lc 20,35 )

Non ci sarà generazione in quello stato a cui ci avrà condotto la rigenerazione.

Perciò ritengo che non sia inutile rilevare che nelle generazioni provenienti dal patriarca chiamato Set, sebbene si dica che ha generato figli e figlie, non v'è rammentata esplicitamente alcuna donna.

In quelle di Caino al contrario, giunte alla fine, per ultima vi sarà ricordata una donna.

Ecco il passo: Matusael generò Lamech che prese due mogli, una chiamata Ada, l'altra Sella.

Ada partorì Iobel, il padre di coloro che abitano nelle tende dei pastori nomadi.

Il nome del fratello fu Iobal che inventò l'arpa e la cetra.

Sella generò Thobel che fu fabbro forgiatore di bronzo e ferro.

Sorella di Thobel fu Noemas. ( Gen 4,18-22 )

Fin qui si estendono le generazioni di Caino che in tutto da Adamo sono otto, compreso lo stesso Adamo, cioè sette fino a Lamech che ebbe due mogli.

L'ottava è la generazione dei suoi figli, fra i quali è ricordata anche una donna.

Nel passo è indicato con finezza che la città terrena sino alla fine avrà delle generazioni carnali che provengono dalla unione di maschi e femmine.

Per questo sono rammentate con i loro nomi le stesse mogli di quell'uomo che in quella serie è indicato come l'ultimo patriarca.

È un fatto che, fatta eccezione per Eva, non si riscontra prima del diluvio.

Dunque Caino, che significa "possesso", fondatore della città terrena e il figlio Enoch, dal quale la città ebbe il nome, che significa "inaugurazione", simboleggiano che questa città ha l'inizio e la fine sulla terra, perché in essa non si ha speranza di altro bene fuor di quello che si può ottenere nel tempo.

Così poiché Set, capostipite delle generazioni menzionate, significa "risurrezione", si deve esaminare che cosa la Storia sacra dice di suo figlio.

18 - Enos e la speranza

Anche a Set, dice la Scrittura, nacque un figlio e lo chiamò Enos: questi sperò d'invocare il nome del Signore. ( Gen 4,26 )

È un'acclamante affermazione di verità. Dunque vive nella speranza l'uomo figlio della risurrezione, vive nella speranza, finché è esule nel mondo, la città di Dio che è generata dalla fede nella risurrezione di Cristo.

La morte di Cristo e la sua vita dopo la morte sono simboleggiate da due uomini, da Abele, che significa lutto,18 e dal fratello Set che significa risurrezione.

Da questa fede si genera nel mondo la città di Dio, cioè l'uomo che sperò d'invocare il nome del Signore.

Dice l'Apostolo: Siamo stati salvati dalla speranza.

Una speranza, che è oggetto di conoscenza, non è speranza.

Che cosa si spera se già si conosce?

Se speriamo ciò che non conosciamo, aspettiamolo con perseveranza. ( Rm 8,24-25 )

Non si può ritenere che questo concetto sia privo della sublimità del mistero.

Certamente Abele sperò d'invocare il Signore perché la Scrittura ricorda che il suo sacrificio era molto accetto a Dio.

Anche Set sperò d'invocare il nome del Signore perché di lui è detto nella Scrittura: Dio mi ha concesso un altro figlio in luogo di Abele. ( Gen 4,25 )

Perché dunque si attribuisce in particolare ad Enos una dote che s'intende comune a tutti gli uomini di pietà?

Era indispensabile che nell'individuo ricordato come primo discendente del patriarca delle generazioni prescelte a una mèta più alta, quella cioè della città celeste, fosse allegoricamente indicato l'uomo, cioè la società umana che non vive secondo l'uomo nella realtà della felicità terrena ma secondo Dio nella speranza della felicità eterna.

E non è stato detto: Egli sperò nel Signore, o: Egli invocò il nome del Signore, ma: Sperò d'invocare il nome del Signore.

L'espressione: Sperò d'invocare come preannuncio profetico significa che sarebbe sorto un popolo, il quale mediante l'inserimento operato dalla grazia avrebbe invocato il nome del Signore.

È il medesimo significato che, espresso da un altro Profeta, ( Gl 2,23 ) l'Apostolo riferisce al popolo che partecipa della grazia di Dio: Avverrà che chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo. ( Rm 10,13 )

Nella espressione della Scrittura: E gli diede il nome di Enos che significa uomo e in quella che segue: Egli sperò d'invocare il nome del Signore si palesa chiaramente che l'uomo non deve riporre la speranza in se stesso.

In un altro testo si legge: È maledetto chiunque ripone la sua speranza nell'uomo. ( Ger 17,5 )

Quindi non deve riporla neanche in se stesso affinché sia cittadino della città che non è inaugurata col nome del figlio di Caino nel tempo, in questo incessante e mortale succedersi degli eventi, ma nell'immortalità della felicità eterna.

19 - Enoch il differimento alla fine

Anche la discendenza, il cui patriarca è Set, ha il termine di inaugurazione nella settima generazione da Adamo, Adamo compreso.

Il settimo discendente da lui appunto è Enoch che significa "inaugurazione".

Ed egli fu anche elevato al cielo perché piacque a Dio e in un numero insigne nell'ordine genealogico, cioè il settimo da Adamo, perché in esso fu reso sacro il sabato.

Però dal patriarca di queste generazioni, distinte dalla discendenza di Caino, cioè da Set, è il sesto che corrisponde al giorno in cui fu creato l'uomo e Dio diede compimento a tutte le sue opere.

Ma l'elevazione di questo Enoch indica allegoricamente il differimento della nostra inaugurazione.

È già avvenuta in Cristo, nostro capo, che è risorto per non morire più ed anche egli è stato elevato.

Rimane però da compiere l'inaugurazione di tutta la casa di cui Cristo è il fondamento. ( Ef 2,20 )

Essa è differita alla fine quando avverrà la risurrezione di tutti che non morranno più.

Non fa differenza chiamarla casa di Dio, tempio di Dio, città di Dio e non discorda dal modo di esprimersi della lingua latina.

Virgilio considera la casa di Assaraco molto adatta al dominio perché voleva indicare i Romani che tramite i Troiani discendono da Assaraco.19

Considera anche gli stessi Romani casa di Enea perché i Troiani, venuti sotto la sua guida in Italia, fondarono Roma.20

Il poeta ha imitato la sacra Scrittura, in cui si considera casa di Giacobbe l'ormai numeroso popolo ebraico.

20.1 - La città terrena è del tempo

Qualcuno potrebbe osservare: dunque l'agiografo intendeva tessere la genealogia di Adamo tramite il figlio Set per giungere a Noè col quale avvenne il diluvio.

Da lui continuò la serie dei discendenti per giungere ad Abramo, dal quale l'evangelista Matteo inizia le generazioni con cui giunge a Cristo, re eterno della città di Dio.

Che intento aveva l'agiografo nelle generazioni da Caino e fin dove voleva proseguirle?

Si risponde: fino al diluvio col quale fu sterminata tutta la discendenza della città terrena, che fu poi restituita con i figli di Noè.

Non sarà possibile infatti che la città terrena e la società degli uomini, le quali vivono secondo l'uomo, vengano a mancare prima della fine del tempo, perché di esso il Signore ha detto: I figli del tempo generano e sono generati. ( Lc 20,34 )

La rigenerazione invece conduce la città di Dio esule in questo tempo ad un altro tempo i cui figli non generano e non sono generati.

In questo mondo l'esser generato e il generare è comune all'una e all'altra, sebbene la città di Dio abbia anche in questo mondo moltissimi cittadini che si astengono dal generare, ma anche l'altra ne ha per una forma di imitazione, quantunque i suoi cittadini siano in errore.

Ad essa appartengono anche coloro che derogando dalla fede della città di Dio hanno dato origine alle varie eresie, perché vivono secondo l'uomo e non secondo Dio.

Sono cittadini della città terrena anche i saggi nudisti degli Indiani, di cui si dice che si dedicano nudi alla filosofia nei luoghi deserti dell'India e si astengono dall'aver figli.21

Non è un bene questo se non si adempie a norma della fede nel sommo bene che è Dio.

Si sa che prima del diluvio non si usava.

Anche Enoch, settimo da Adamo che, secondo la tradizione, pur non essendo morto, fu elevato al cielo, prima di essere elevato, generò figli e figlie, fra i quali Matusalem per il cui tramite si continuò la serie genealogica da consegnare alla storia.

20.2 - Ripensamenti sulla genealogia di Caino

Ci si chiede quindi perché si allega un numero tanto ristretto di discendenti nella genealogia di Caino se era necessario continuarli fino al diluvio e non era così lunga l'età prepuberale che per cento anni e più non aveva figli.

Se l'agiografo non aveva in mente un discendente al quale ricondurre per stretto legame la serie delle generazioni, come al contrario con quelle che provenivano da Set aveva in mente di giungere a Noè, da cui la serie per stretto legame doveva continuare, non era ragionevole omettere i figli primogeniti per giungere a Lamech.

Con i suoi figli si chiude la serie nell'ottava generazione da Adamo e nella settima da Caino.

Sembra che da quel punto si debba connettere qualche riferimento per giungere al popolo d'Israele, in cui la Gerusalemme terrena offrì un'allegoria profetica alla città del cielo, o al Cristo secondo la carne, che è al di là dell'universo, il Dio benedetto per tutti i tempi, ( Rm 9,5 ) autore e re della Gerusalemme celeste.

Invece tutta la discendenza di Caino fu distrutta dal diluvio.

Se ne può dedurre che in una medesima genealogia sono stati menzionati soltanto i primogeniti.

Perché allora sono tanto pochi?

Infatti non è possibile che prima del diluvio fossero così pochi, se i genitori non erano impediti dall'impegno di generare a causa di una pubertà centenaria, dato che la pubertà non era tardiva in relazione alla longevità.

Erano di circa trenta anni quando cominciavano ad aver figli.

Ora otto volte trenta anni ( giacché sono otto le generazioni da Adamo ai figli di Lamech ) ne fanno duecentoquaranta.

Ma che per tutto il tempo fino al diluvio non ebbero più figli?

E perché l'agiografo non ha voluto nominare le generazioni successive?

Ora da Adamo fino al diluvio sono calcolati dal nostro testo duemiladuecentosessantadue anni, secondo quello ebraico milleseicentocinquantasei.

Se riteniamo più verosimile la cifra minore e vengono sottratti dai milleseicentocinquantasei i duecentoquaranta anni, non è credibile che per millequattrocento anni e rotti, che rimangono fino al diluvio, la discendenza di Caino abbia potuto astenersi dall'aver figli.

20.3 - Soluzioni possibili

Ma chi si turba per questo motivo ricordi che, quando mi proposi in qual senso si deve interpretare come fu possibile agli antichi non aver figli per tanti anni, si disse che il problema può avere due soluzioni: o da una tardiva pubertà in relazione alla vita longeva o dal fatto che i figli, inseriti nella genealogia, non furono i primogeniti ma quelli dai quali arrivare al patriarca che aveva in mente l'autore del libro, come Noè nelle generazioni da Set.

Quindi nella discendenza di Caino, se non è nominato il personaggio al quale si dovrebbe giungere tramite quelli nominati, se i primogeniti sono omessi, resterà l'ipotesi di una tardiva pubertà.

Così un po' dopo i cento anni gli uomini sarebbero divenuti maturi sessualmente e abili ad avere figli in modo che la discendenza si svolgesse attraverso i primogeniti e giungesse fino al diluvio in un determinato numero di anni.

Potrebbe anche darsi che per una ragione più arcana, che mi sfugge, la città, che consideriamo terrena, fosse segnalata dalla successione pervenutaci delle generazioni fino a Lamech e figli e poi l'agiografo abbia smesso di menzionare le altre che vi poterono essere fino al diluvio.

Vi può essere un'altra ragione per cui la genealogia non viene rassegnata con i primogeniti, in modo che non si debba ricorrere a una pubertà tanto tardiva, e cioè la città che Caino fondò col nome del figlio Enoch poté regnare su un vasto territorio e avere molti re non contemporaneamente ma ciascuno in un proprio periodo ed erano figli e successori dei regnanti.

È possibile che il primo di questi re sia stato Caino, il secondo il figlio Enoch che diede il nome alla città fondata come capitale, il terzo Gaidad figlio di Enoch, il quarto Mevia figlio di Gaidad, il quinto Matusael figlio di Mevia, il sesto Lamech figlio di Matusael che è il settimo da Adamo nel ceppo di Caino. ( Gen 4,17-18 )

Questo non significa che il primogenito succedesse necessariamente al padre, ma colui che fosse segnalato da una benemerenza vantaggiosa alla città terrena o da un destino qualsiasi o piuttosto che, quasi per un determinato diritto ereditario, succedesse al padre colui che ne era il prediletto.

È possibile che il diluvio avvenne mentre ancora viveva e regnava Lamech, che il diluvio raggiunse e sommerse assieme a tutti gli altri uomini, eccetto quelli che erano nell'arca.

Non deve sorprendere se le due stirpi, dato il notevole numero di anni intercorsi, in un lungo spazio di tempo, da Adamo al diluvio, presentino discendenti di numero disuguale, cioè sette nel ceppo di Caino e dieci in quello di Set.

Ho già detto che Lamech è settimo da Adamo e Noè decimo.

Quindi non è stato menzionato un solo figlio di Lamech, come nelle altre generazioni, ma più perché era incerto chi doveva succedergli quando moriva, se fosse rimasto un periodo di regno fra lui e il diluvio.

20.4 - Undici numero infausto

Ma comunque sia impostata la serie delle generazioni che decorre da Caino tramite primogeniti o re, mi pare che, accertato che Lamech è il settimo da Adamo, per nessuna ragione si deve passare sotto silenzio l'aggiunta di tanti figli fino a raggiungere il numero undici che è simbolo di peccato.

Si aggiungono infatti tre figli e una figlia.

Altro possono simboleggiare le mogli, non quel che mi pare doversi esporre in questo momento.

Stiamo parlando della discendenza, ma nel testo non si fa cenno da dove provengano.

Poiché dunque la Legge si bandisce al numero dieci, e da qui il famoso Decalogo, certamente il numero undici, poiché va al di là del dieci, simboleggia la trasgressione della Legge e quindi il peccato.

Perciò fu dato l'ordine che nella tenda dell'Alleanza, la quale era nel viaggio del popolo di Dio come un tempio portatile, si disponessero undici teli di pelo di capra. ( Es 26,7 )

Nella stuoia dal pelo di capra v'è il ricordo del peccato a causa dei capri che andranno alla sinistra. ( Mt 25,33 )

Rendendocene coscienti ci prostriamo in esso come per dire ciò che è scritto nel Salmo: Il mio peccato mi è sempre dinanzi. ( Sal 51,5 )

Quindi la discendenza, che da Adamo passa per lo scellerato Caino, si chiude col numero undici, da cui è simboleggiato il peccato e il numero ha al termine una donna, perché da questo sesso avvenne l'inizio del peccato per cui tutti dobbiamo morire.

Fu commesso appunto perché ne seguisse il piacere della carne che si oppone allo spirito.

Per questo anche la figlia di Lamech Noema significa piacere.22

Nella discendenza di Set invece da Adamo a Noè viene segnalato il numero dieci conveniente alla legge.

A Noè si aggiungono i tre figli ma, essendo uno incorso nella colpa, due soltanto hanno la benedizione del padre.

Così escluso l'indegno e aggiunti al numero i degni di lode si raggiunge il numero dodici che è da segnalare anche nel numero dei Patriarchi e degli Apostoli in vista del prodotto delle due parti del numero sette.

Difatti quattro per tre e tre per quattro fanno dodici.

Stando così le cose, noto che si deve esaminare e trattare in qual senso le due stirpi, che in distinte serie di generazioni designano le due città, una dei generati dalla terra l'altra dei rigenerati, si confusero commischiandosi al punto che l'intero genere umano, ad eccezione di otto persone, meritò di morire nel diluvio.

21 - Due città due discendenze

C'è una considerazione da premettere.

Le generazioni sono enumerate da Caino e, prima degli altri che succedono, è menzionato colui che diede il nome alla città fondata, cioè Enoch.

Poi gli altri vengono annoverati fino a quel termine, di cui ho parlato, quando la discendenza di tutta la stirpe fu sterminata dal diluvio.

Invece appena menzionato il figlio di Set, Enos, ( Gen 4,26 ) prima di aggiungere gli altri discendenti fino al diluvio, si frappone una frase con le parole: Questo è il libro dell'origine degli uomini, nel giorno in cui Dio creò Adamo, lo creò ad immagine di Dio.

Li creò maschio e femmina e li benedisse e nel giorno in cui li creò diede loro il nome di Adamo. ( Gen 5,1-2 )

A mio parere, la frase è stata interposta affinché da Adamo iniziasse la cronologia, che l'agiografo non ha voluto indicare per la città terrena, come se Dio la ricordasse per non farne il computo.

La ragione per cui si torna a questo riassunto dopo che è stato menzionato il figlio di Set, l'uomo che sperò d'invocare il nome del Signore, ( Gen 4,26 ) sta nel fatto che era conveniente presentare le due città, l'una da un omicida a un omicida, perché anche Lamech confessa alle due mogli di aver compiuto un omicidio, ( Gen 4,23 ) l'altra tramite colui che cominciò ad invocare il nome del Signore.

Questa è infatti nello stato di soggezione alla morte l'unica importante occupazione della città di Dio in esilio in questo mondo, occupazione che doveva essere inculcata da un solo uomo nato dalla risurrezione di un ucciso.

Quell'unico uomo è l'unità di tutta la città dell'alto, non ancora adempiuta ma da adempiere sulla base del preannuncio di questa allegoria profetica.

Quindi il figlio di Caino, cioè il figlio del possesso, certamente sulla terra, abbia pure il nome nella città terrena, perché fu fondata col suo nome.

Essa da loro appunto deriva perché di essi si dice nel Salmo: Daranno il loro nome alle loro città. ( Sal 49,12 )

Perciò li riguarda ciò che è scritto in un altro Salmo: Signore, farai scomparire la loro immagine dalla tua città. ( Sal 73,20 )

Invece il figlio di Set, cioè il figlio della risurrezione, speri d'invocare il nome del Signore perché indica allegoricamente quella umana società che dice: Io come un olivo verdeggiante nella casa di Dio sperai nella sua misericordia. ( Sal 52,10 )

Non aspiri alla vanagloria di un nome illustre sulla terra perché è felice l'uomo che spera nel nome del Signore e non si è volto a inseguire illusioni di grandezza e menzognere frenesie. ( Sal 40,5 )

Dunque dalla tematica delle due città uscite, per così dire, dalla porta comune della soggezione alla morte, che fu aperta con Adamo, l'una nella vicenda del tempo, l'altra nella speranza in Dio per avanzare e giungere al traguardo verso distinti e rispettivi obiettivi, ha inizio la cronologia.

Ad essa altre stirpi si aggiungono tenendo presente la derivazione da Adamo.

Dalla sua discendenza condannata, come da un solo blocco consegnato al giusto castigo, Dio produce vasi d'ira all'infamia e vasi di misericordia al premio ( Rm 9,22-23 ) rendendo ai primi con la pena ciò che è dovuto e a questi con la grazia ciò che non è dovuto.

Perciò anche nel confronto con i vasi d'ira la città dell'alto apprenda, poiché è in esilio sulla terra, a non fidarsi della libertà del proprio arbitrio, ma speri d'invocare il nome del Signore.

Infatti la volontà nello stato di natura, creata buona da Dio buono, ma mutabile da un essere immutabile perché dal nulla, può declinare dal bene per compiere il male che si compie con il libero arbitrio e può declinare dal male per compiere il bene che non si compie senza l'aiuto di Dio.

Indice

4 Virgilio, Aen. 12, 899-900
5 Plinio, Nat. hist. 7, 16, 73-74
6 Omero, Il. 5, 304
7 Plinio, Nat. hist. 7, 48, 154
8 De civ. Dei 18, 42-44
9 De civ. Dei 11, 8
10 Plinio, Nat. hist. 7, 48, 155
11 De civ. Dei 18, 43-44
12 De civ. Dei 11, 13.19
13 Gen 4,1;
Girolamo, De nomin. hebr. 7
14 Girolamo, De nomin. hebr. 9
15 Ibid., 16
16 Ibid., 9
17 Gen 5,2;
Girolamo, Quaest. hebr. in Gen. 313
18 Girolamo, De nomin. hebr. 5
19 Virgilio, Aen. 1, 282-285
20 Virgilio, Aen. 3, 97-98
21 Plinio, Nat. hist. 7, 2, 22
22 Gen 4,22;
Girolamo, De nomin. hebr. 14