La città di Dio |
Mi sono impegnato a scrivere sull'origine, il progresso e le rispettive competenze delle due città, una di Dio, l'altra del tempo, in cui convive, per quanto attiene al genere umano, anche la celeste in esilio.
Ho prima confutato, nella misura in cui mi ha aiutato la grazia di Dio, i nemici della sua città che preferiscono i propri dèi a Cristo, suo fondatore, e con astio a loro funesto avversano spietatamente i cristiani.
Ho trattato questo argomento nei primi dieci libri.
Riguardo al triplice mio intento, che poco fa ho ricordato, è stata trattata l'origine di tutte e due le città nei quattro libri che seguono al decimo e la loro evoluzione dal primo uomo fino al diluvio in un unico libro, che è il decimoquinto di questa opera, e da quell'evento fino ad Abramo di nuovo tutte e due le città hanno progredito tanto nel tempo come nella mia trattazione.
Ma dal patriarca Abramo fino all'epoca dei re d'Israele, argomento con cui ho condotto a termine il libro decimosesto, e da lì alla venuta del Salvatore del mondo, fino alla quale si svolge il libro decimosettimo, dal mio modo di trattare sembra che abbia progredito soltanto la città di Dio, sebbene non da sola sia progredita nel tempo ma l'una e l'altra, evidentemente nel genere umano, come dal principio, con il loro evolversi hanno differenziato le varie epoche.
Ho agito così affinché, senza l'interruzione dovuta all'antitesi con l'altra città, la città di Dio apparisse più distintamente nel suo evolversi da quando cominciarono ad essere più manifeste le promesse di Dio fino alla nascita di Gesù dalla Vergine, perché in lui si dovevano verificare gli eventi preannunciati dal principio.
Essa però fino alla rivelazione della Nuova Alleanza progredì non nella luce ma nell'ombra.
Ora, noto che si deve eseguire ciò che avevo omesso, trattare cioè nella misura adeguata come abbia progredito dal tempo di Abramo anche la città terrena, affinché le due città si possano confrontare nella riflessione dei lettori.
L'umana collettività, diffusa in ogni parte del mondo e in ambienti assai diversi, è tuttavia legata da una determinata comunanza d'un medesimo istinto naturale poiché tutti si assicurano l'utile e il dilettevole.
Difatti l'oggetto che si appetisce non basta a nessuno o per lo meno non a tutti perché non è sempre lo stesso.
Quindi la collettività spesso è divisa da un interno dissidio e la parte che prevale opprime l'altra.
La vinta si sottomette alla vincitrice perché preferisce al potere e perfino alla libertà una tranquillità qualsiasi e la conservazione dell'esistenza1 al punto che sono stati di grande ammirazione coloro che preferirono morire che essere schiavi.2
Difatti in quasi tutti i popoli si è fatto udire l'appello del naturale istinto sicché i vinti in quel frangente preferirono sottomettersi ai vincitori anziché essere completamente sterminati da una devastazione militare.
Da ciò è avvenuto, non senza la provvidenza di Dio da cui dipende che un popolo con la guerra sia soggiogato e un altro soggioghi, che alcuni furono insigniti di dominio e altri soggetti a dominatori.
Ma fra i numerosi imperi del mondo, nei quali fu distribuita la collettività dell'utile o dilettevole terreno, che con termine generico definiamo la città di questo mondo, possiamo notare che due imperi, molto più famosi degli altri, hanno avuto buon esito, prima quello di Assiria poi quello di Roma, ben collocati e distinti fra di sé nel tempo e nello spazio.
Infatti come quello si è segnalato prima e questo dopo, così quello in Oriente e questo in Occidente.
Inoltre alla fine del primo impero immediatamente si ebbe l'inizio del secondo.3
Considererei gli altri imperi e sovrani come appendici di questi due.
Nino fu il secondo re dell'Assiria e successe a suo padre Belo, primo sovrano di quell'impero,quando nella Caldea nacque Abramo.4
Vi era in quel tempo anche il regno assai piccolo di Sicione dal quale Marco Varrone, nell'opera La razza del popolo romano, come da un evo antico ha fatto derivare i Romani.
Dai re di Sicione infatti la razza è giunta agli Ateniesi, da essi ai Latini e poi ai Romani.5
Ma prima della fondazione di Roma, nel confronto con l'impero di Assiria, questi sono fatti di poco rilievo, sebbene anche Sallustio, storico romano, ammette che in Grecia Atene si distinse, però più nella fama che nella realtà storica.
Parlando di essa dice: Le conquiste civili di Atene, come io ritengo, furono rilevanti e illustri, ma meno importanti di come sono celebrate dalla fama.
Ma poiché in essa fiorirono letterati di grande ingegno, in tutto il mondo la civiltà di Atene viene considerata fra le più grandi.
Così il pregio di coloro che l'hanno realizzata è considerato eccellente in proporzione al modo con cui l'hanno potuto esaltare singolari capacità mentali.6
Si aggiudica a questa città la non piccola gloria anche da parte della letteratura e filosofia perché vi fiorirono in modo singolare queste attività.
Per quanto riguarda l'impero, nell'evo antico non ve ne fu alcuno più grande di quello dell'Assiria né così esteso di territorio.
Si dice che il re Nino, figlio di Belo, aveva assoggettato fino ai confini della Libia tutta l'Asia, che per numero è una delle tre parti del mondo, ma in estensione la metà.7
Verso Oriente soltanto sull'India non dominava, tuttavia alla morte di Nino la moglie Semiramide l'assoggettò con una guerra.8
Avvenne così che in quelle parti ogni popolo e re erano sottomessi all'impero e alla giurisdizione dell'Assiria e ne eseguivano ogni ordine.
Abramo nacque in quell'impero nella Caldea al tempo di Nino.
Però la storia della Grecia ci è molto più nota di quella dell'Assiria e quelli che hanno eseguito ricerche sulla razza del popolo romano nella sua prima origine hanno fatto derivare la cronologia dei fatti dai Greci ai Latini e poi ai Romani, che anche essi sono Latini.
Devo dunque, quando è necessario, fare i nomi dei sovrani d'Assiria affinché sia evidente come Babilonia, quasi prima Roma, si evolva assieme alla città di Dio in esilio in questo mondo.
Tuttavia soprattutto dalla Grecia e dal mondo latino in cui è Roma come una seconda Babilonia, ( Ap 14,8 ) devo scegliere i fatti che è opportuno inserire in questa opera per un confronto fra le due città, la terrena e la celeste.
Quando dunque nacque Abramo, come secondo re in Assiria era Nino e a Sicione Europe, primi furono rispettivamente Belo ed Egialeo.
Quando dopo l'uscita di Abramo da Babilonia Dio gli promise un grande popolo della sua stirpe e la benedizione di tutti i popoli nella sua discendenza, l'Assiria aveva il quarto re, Sicione il quinto.
In Assiria regnava il figlio di Nino successo alla madre Semiramide che, come si narra, era stata da lui uccisa perché, pur essendo madre, aveva osato contaminare il figlio con amore incestuoso.9
Alcuni ritengono che ella fondò Babilonia, più esattamente si può dire che ebbe la possibilità di ricostruirla.10
Ho esposto nel libro sedicesimo come e quando fu costruita.11
Alcuni storici dicono che anche il figlio di Nino e di Semiramide, che succedette alla madre nel regno, si chiamasse Nino, altri invece con un termine derivato dal padre lo chiamano Ninian.12
Contemporaneamente Telsion reggeva il regno di Sicione.
Durante il suo regno vi fu un periodo di prosperità e di pace sicché dopo la sua morte lo onorarono come dio con sacrifici e con la celebrazione di giuochi pubblici che ebbero inizio, come narrano, con quelli dedicati a lui.
In questo tempo nacque Isacco in seguito a una promessa di Dio al centenario padre Abramo dalla moglie Sara che, sterile e anziana, aveva perduto la speranza di aver figli.
Allora quinto re di Assiria era Arrio.
Quando Isacco aveva sessant'anni gli nacquero i gemelli Esaù e Giacobbe che aveva messo al mondo la moglie Rebecca, quando il loro nonno Abramo era ancora in vita ed aveva centosessanta anni.
Egli morì quando ebbe compiuto centosettantacinque anni, mentre regnavano, al settimo posto nell'elenco, in Assiria Serse primo, che si chiamava anche Baleo, e a Sicione Turiaco, che alcuni denominano Turimaco.
Il regno di Argo, in cui per primo regnò Inaco, ha avuto origine al tempo dei nipoti di Abramo.
Varrone narra, ed è una notizia che non si può trascurare, che gli abitanti di Sicione erano soliti offrire sacrifici anche vicino alla tomba del settimo re Turiaco.13
Mentre regnavano, all'ottavo posto nella serie, Armamitre di Assiria e Leucippo di Sicione e il primo re di Argo Inaco, Dio parlò ad Isacco ( Gen 26,3-5 ) e anche a lui rivolse le due promesse, che aveva rivolto ad Abramo, e cioè il paese di Canaan alla sua discendenza e la benedizione di tutti i popoli nella sua discendenza.
Queste promesse furono rivolte pure al figlio di lui e nipote di Abramo che dapprima fu chiamato Giacobbe e poi Israele quando già regnavano Beloco, nono re di Assiria, e Foroneo figlio di Inaco e secondo re di Argo, mentre a Sicione sopravviveva ancora Leucippo.
In questo periodo la Grecia sotto Foroneo, re di Argo, divenne più famosa per varie istituzioni di diritto e di amministrazione della giustizia.
Però essendo morto Fegoo, fratello più giovane di Foroneo, fu edificato un tempio sulla sua tomba, in cui doveva essere onorato come dio con l'immolazione di buoi.
Penso che lo ritennero degno di sì grande onore per il seguente motivo.
Il padre aveva assegnato loro alcuni territori in cui potessero regnare mentre egli era ancora in La vita.
Fegoo aveva fatto costruire in essi dei tempietti per onorare gli dèi e aveva insegnato che fossero osservati determinati periodi di tempo durante i mesi e gli anni in termini di durata e di numerazione.
Uomini ancora incolti, meravigliati di queste novità, avvenuta la morte, immaginarono o decisero che fosse diventato un dio.
Si ritiene che anche Io fosse figlia di Inaco.
Ella, chiamata più tardi Isis, fu onorata come grande dèa in Egitto.
Alcuni invece narrano che dall'Etiopia venne in Egitto come regina e che governò con liberalità e giustizia, che a favore dei sudditi introdusse parecchi vantaggi economici e culturali, che le fu attribuito ossequio divino dopo la morte e un ossequio così grande che incorreva nella pena di morte chi avesse affermato che era una creatura umana.14
Mentre regnavano il decimo re di Assiria Baleo e il nono di Sicione Messapo, da alcuni consegnato alla storia col nome di Cefiso ( posto che fosse un unico personaggio con due nomi e non piuttosto che lo considerarono un altro individuo coloro che nelle proprie opere usarono il secondo nome ) e mentre Apis era terzo re di Argo, morì Isacco a centottanta anni e lasciò i suoi gemelli che ne avevano centoventi.
Il minore di essi, appartenente alla città di Dio della quale sto trattando, perché il maggiore era stato rifiutato, aveva dodici figli.
Mentre viveva ancora il nonno Isacco, i fratelli avevano venduto quello di loro che si chiamava Giuseppe a mercanti che passavano per andare in Egitto.
Giuseppe fu presentato al faraone quando all'età di trenta anni si riscattò dall'umiliazione che aveva subito.
Aveva predetto, interpretando i sogni del sovrano, che erano in arrivo sette anni di abbondanza.
Altri sette anni di penuria che seguivano avrebbero esaurito l'abbondanza preponderante dei primi.
Per questo il faraone, dopo averlo liberato dal carcere, lo pose a capo del governo d'Egitto.
Ve lo aveva confinato l'interezza della castità.
Per custodirla con virilità e per sfuggire alla padrona, che l'amava di cattivo amore e avrebbe mentito al padrone credulone, non consentì all'atto di violenza carnale perfino con l'abbandonare la veste nelle mani di lei che l'aveva afferrato. ( Gen 39, 7 - 41,46 )
Nel secondo dei sette anni di carestia Giacobbe andò in Egitto dal figlio con tutti i suoi familiari all'età di centotrenta anni, come egli stesso denunziò al faraone che lo interrogava. ( Gen 47,7-9 )
Giuseppe ne aveva trentanove, perché s'erano aggiunti ai trenta, che aveva quando fu onorato dal faraone, i sette di abbondanza e i due di carestia.
In quegli anni Apis, re di Argo, essendo morto in Egitto dove si era trasferito con navi, divenne Serapide, il dio massimo degli Egiziani.
Varrone propone una spiegazione molto semplice di questo nome, del fatto, cioè, per cui non sia stato chiamato Apis anche dopo la morte ma Serapide.
L'urna sepolcrale, in cui si ripone il cadavere, da tutti ormai denominata sarcofago, in greco si chiama σορός.
Iniziarono a venerarlo mentre era sepolto in essa prima che fosse edificato il suo tempio.
Come a unire Sòrose e Apis prima fu chiamato Sorapide e poi Serapide col cambiamento di una lettera come si suol fare.
Ed anche riguardo a lui si decise che chi lo considerava un uomo subisse la pena capitale.
E poiché in quasi tutti i templi, in cui si onoravano Iside e Serapide, v'era una statua che col dito premuto sulle labbra sembrava intimare il silenzio, il gesto, come ritiene Varrone, ingiungeva di non dire che erano stati esseri umani.
Invece il bue, che l'Egitto, ingannato da un'incredibile leggerezza, nutriva in suo onore con cibi raffinati, poiché lo veneravano vivo senza sarcofago, era chiamato Apis e non Serapide.
Morto quel bue, poiché se ne cercava e trovava un altro del medesimo colore, cioè egualmente screziato con alcune macchie bianche, credevano che fosse un fatto prodigioso a loro concesso dal dio.15
Al contrario non era difficile ai demoni, per ingannarli, mostrare alla vacca, mentre concepiva e s'ingravidava, l'immagine di un toro simile che, mentre era sola, potesse guardare in modo che l'impulso della madre convogliasse la caratteristica che poi doveva fisicamente apparire nel feto, come fece Giacobbe con ramoscelli diversamente colorati in modo che nascessero pecore e capre di diverso colore. ( Gen 30,37-43 )
Infatti ciò che gli uomini possono mostrare con colori e oggetti veri, i demoni possono mostrarlo molto facilmente con immagini fittizie agli animali che concepiscono.
Dunque Apis, re di Argo e non d'Egitto, morì in Egitto.
Gli successe il figlio Argo, dal cui nome sono denominati Argi e quindi gli Argivi.
Né i re precedenti né la regione né il popolo avevano questo nome.
Mentre egli regnava ad Argo ed Erato a Sicione e nell'Assiria sopravviveva ancora Baleo, Giacobbe morì in Egitto all'età di centoquarantasette anni.
Vicino a morire benedisse i figli e i nipoti, figli di Giuseppe, e con grande evidenza predisse il Cristo dicendo nella benedizione a Giuda: Non cesseranno i principi da Giuda e il comando dai suoi fianchi, finché non giunga il destino che gli è riservato ed egli sarà l'attesa dei popoli. ( Gen 49,10 )
Durante il regno di Argo, la Grecia cominciò ad usare i propri prodotti dei campi e ad avere i raccolti nell'agricoltura con semi trasportati dall'estero.
Anche Argo dopo la morte fu considerato un dio e onorato con tempio e sacrifici.
Mentre egli regnava, questo culto fu deferito a un semplice cittadino morto fulminato, un certo Omogiro, perché per primo aveva attaccato i buoi all'aratro.
Mentre regnavano il dodicesimo re di Assiria Mamito e l'undicesimo di Sicione Plemmeo e ad Argo era ancora re Argo, morì in Egitto Giuseppe a centodieci anni. ( Gen 50,25 )
Dopo la sua morte il popolo di Dio, che cresceva in modo straordinario, rimase in Egitto per centoquarantacinque anni, dapprima in pace fino a quando morirono coloro cui era noto Giuseppe.
In seguito, poiché era invidiato per il suo accrescimento e v'erano delle prevenzioni, finché non venne liberato fu angustiato da ostilità, nonostante le quali cresceva di numero con un aumento favorito da Dio, ed era anche oppresso dalle fatiche di un'insopportabile schiavitù. ( Es 1 )
In Assiria e in Grecia rimanevano durante quel periodo i medesimi regni.
Mentre in Assiria regnava il quattordicesimo re Safro e a Sicione il dodicesimo re Ortopoli e il quinto re Criaso ad Argo, in Egitto nacque Mosè.
Da lui il popolo di Dio fu liberato dalla schiavitù d'Egitto, nella quale era opportuno che si esercitasse nel rimpiangere l'aiuto del suo Creatore.
Da alcuni si ritiene che, mentre dominavano i re suddetti, esisteva Prometeo, di cui si dice che foggiò gli uomini dal fango, appunto perché si tramanda che fosse un eccellente maestro di filosofia, tuttavia non si precisa quali fossero i filosofi al suo tempo.
Si dice anche che il fratello Atlante fosse un grande osservatore delle stelle, per questo la leggenda trovò il pretesto per inventare che sostiene il cielo.
V'è però un monte che ha il suo nome e dalla sua altezza può sembrare che sia affiorato nel modo di pensare del popolino il mito del sorreggere il cielo.16
Da quel tempo si iniziò in Grecia a inventare molte leggende.
Fino a Cecrope, re di Atene, durante il cui regno la città ebbe quel nome17 e Dio fece uscire dall'Egitto il suo popolo guidato da Mosè, per una cieca e frivola consuetudine dei Greci furono inseriti nel numero degli dèi alcuni morti.
Fra di essi v'erano Melantomice, moglie del re Criaso, e Forba, loro figlio e, in successione al padre, sesto re di Argo, Iaso, figlio del settimo re Criopa e il nono re Stenelas o Stenelao o Stenelo, perché è denominato diversamente nei vari autori.
È tradizione che in questo tempo venne all'esistenza anche Mercurio, nipote di Atlante dalla figlia Maia, mito che esaltano anche le opere letterarie più celebri.18
Si rese famoso come esperto di molte conoscenze tecniche che trasmise all'umanità e per questa benemerenza decisero o anche credettero che fosse un dio.
Si dice che Ercole sia esistito dopo, ma contemporaneamente all'epoca degli Argivi, sebbene alcuni lo ritengano anteriore nel tempo a Mercurio, ma io penso che prendano abbaglio.
In qualsiasi tempo siano nati, è pacifico per gli storici seri, intenditori di archeologia, che tutti e due furono uomini e, poiché procurarono molti vantaggi all'umanità sofferente per trascorrere la vita più dignitosamente, meritarono da essi gli onori divini.
Minerva è molto più antica di loro.
È tradizione che ai tempi di Ogigo apparve in età da giovinetta presso il lago detto del Tritone e per questo è stata soprannominata la Tritonia.
È ritenuta ideatrice di tante attività e tanto più facilmente fu creduta una dèa quanto meno nota fu la sua nascita.
La credenza che sia nata dalla testa di Giove si deve attribuire ai poeti e alle leggende e non alla realtà storica.19
Fra gli storici non c'è accordo sul tempo in cui visse Ogigo, perché anche allora avvenne un gran diluvio, non quello più esteso al quale non sopravvissero uomini se non quelli che poterono rifugiarsi nell'arca, ( Gen 6-8 ) che peraltro la storiografia pagana, greca e latina, non conosce, più esteso però di quello che avvenne quando viveva Deucalione.
Infatti Varrone da esso inizia il libro, che precedentemente ho citato,20 e per giungere alla storia di Roma non si prefigge un avvenimento più remoto del diluvio di Ogigo, cioè avvenuto quando viveva Ogigo.21
Gli autori cristiani, che hanno compilato una cronologia, prima Eusebio poi Girolamo, che in questa ipotesi hanno seguito gli storici precedenti, sostengono che il diluvio di Ogigo avvenne più di trecento anni dopo, mentre regnava il secondo re di Argo Foroneo.
Ma in qualunque tempo avvenne, già Minerva era onorata come dèa, mentre regnava ad Atene Cecrope.
Sostengono che mentre regnava anche la città fu ripristinata o fondata.22
Dall'etimologia di Atene, nome che certamente deriva da Minerva che in greco è Άθηνά, Varrone dà la seguente spiegazione.
In quel luogo spuntò all'improvviso un ulivo e sgorgò dell'acqua.
Questi fatti straordinari impressionarono il re che inviò all'Apollo di Delfi per consultare sul significato e sul da farsi.
Egli rispose che l'ulivo simboleggiava Minerva e la polla Nettuno e che era in potere dei cittadini scegliere il nome di una delle due divinità, di cui erano quei simboli, con la quale denominare la città.
Ricevuto questo responso Cecrope convocò a dare il voto tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso, poiché era abitudine in quei luoghi che anche le donne partecipassero alle pubbliche deliberazioni.
Nella delibera popolare dunque i maschi votarono per Nettuno, le donne per Minerva.
Vinse Minerva perché si ebbe un voto in più delle donne.
Allora Nettuno arrabbiato devastò i campi di Atene con ondate che si frangevano schiumando, poiché non rimane difficile ai diavoli riversare diffusamente ogni sorta di acque.
Il medesimo scrittore dice che per placarne l'ira le donne furono colpite da tre pene, cioè, che d'allora in poi non votassero, che nessun figlio prendesse il nome della mamma, che non fossero chiamate Minervie.23
Così quella città, madre e nutrice delle discipline liberali e di tanti grandi filosofi, il vanto più famoso e illustre della Grecia, per una burla dei demoni, ebbe il nome da un litigio dei suoi dèi, maschio e femmina, e dalla vittoria attribuita dalle donne alla donna Atena e, danneggiata dal vinto, è stata costretta a punire la vittoria della vincitrice perché temeva di più le acque di Nettuno che i giavellotti di Minerva.
Così nelle donne che furono punite in tal modo anche Minerva, pur avendo vinto, fu vinta.
Infatti ella non protesse le donne che avevano dato il voto affinché, avendone perduto il diritto ed essendo stato proibito che i figli prendessero il nome dalle mamme, fosse per lo meno lecito a loro essere chiamate Minervie e meritare la denominazione della dèa che, dandole il voto, avevano reso vincitrice del dio maschio.
Si potrebbero dire sull'argomento tante e belle cose se la trattazione non sollecitasse ad altri argomenti.
Tuttavia Marco Varrone non gradisce prestar fede alle leggendarie fantasie contro gli dèi per non accreditare qualcosa d'indegno dell'onore dovuto alla loro grandezza.
Quindi non accetta che l'areopago, dove l'apostolo Paolo discusse con gli Ateniesi ( At 17,19-34 ) e da cui sono stati denominati areopagiti i magistrati della città, abbia la seguente spiegazione etimologica.
Marte, che in greco è Άσης, essendosi reso colpevole di omicidio, sottoposto al giudizio di dodici dèi, fu assolto in quel quartiere con sei voti favorevoli, poiché quando i voti erano pari, era abitudine preferire il proscioglimento dalla condanna.
Ma Varrone tenta di accreditare contro la suddetta versione, ripetuta molto più frequentemente, un'altra spiegazione etimologica da informazione di fonti letterarie meno note.
Non si dovrebbe credere, cioè, che gli Ateniesi abbiano voluto denominare l'areopago dal nome di Marte e del quartiere, come fosse il quartiere di Marte, come per un insulto contro gli dèi, perché Varrone ritiene non attribuibili a loro contestazioni e processi.
Egli sostiene che quel che si dice di Marte non è meno falso di quel che si dice delle tre dee, cioè Giunone, Minerva e Venere, delle quali si narra che per guadagnare la mela d'oro hanno gareggiato davanti a Paride, scelto come giudice, sulla superiorità della propria bellezza.
E quasi a calmare con i giuochi gli dèi, che si compiacciono di questi loro delitti, veri o falsi, esse sono onorate con canti e danze fra gli applausi del teatro.
Varrone non ammette questi fatti per non ammettere cose sconvenienti alla natura e al comportamento degli dèi.24
Tuttavia, dando una spiegazione storica non mitologica della parola Atene, inserisce nei suoi libri la contesa di Nettuno e Minerva così importante perché riguardava il dio dal cui nome doveva essere denominata la città.
Però mentre gareggiavano con la messa in mostra di avvenimenti straordinari, neanche Apollo interrogato osò giudicare fra i due ma, come Giove mandò Paride per l'alterco delle tre dèe suddette, così costui rinviò ai cittadini la cessazione dell'alterco degli dèi.
In tal modo Minerva vinceva ai voti ma fu vinta nel castigo delle sue votanti poiché lei, che poteva dare il nome ad Atene, malgrado gli uomini sfavorevoli, non poté dare il nome di Minervie alle donne a lei favorevoli.
In quel periodo, come scrive Varrone, mentre ad Atene regnava Cranao, successore di Cecrope o, come affermano i nostri Eusebio e Girolamo, mentre perdurava ancora Cecrope, si ebbe il diluvio chiamato di Deucalione, poiché egli regnava in quelle regioni in cui avvenne in una maggiore estensione.
Difatti questo diluvio non raggiunse l'Egitto e i territori limitrofi.25
Dunque Mosè fece uscire il popolo di Dio dall'Egitto verso la fine del regno di Cecrope, re di Atene, mentre in Assiria regnava Ascatade, a Sicione Marato, ad Argo Triopa.
Al popolo liberato consegnò la legge ricevuta da Dio sul monte Sinai.
Essa è definita l'Antica Alleanza, perché contiene promesse relative alla terra e per la mediazione di Gesù Cristo doveva avverarsi la Nuova Alleanza con cui si prometteva il regno dei cieli.
Era opportuno che si osservasse questo ordinamento, come si verifica in qualsiasi persona che si muove a Dio.
Lo dice l'Apostolo che prima non si ha ciò che è spirituale, ma animale, poi lo spirituale, poiché, come dice, ed è vero, il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. ( 1 Cor 15,46-47 )
Mosè guidò il popolo per quaranta anni nel deserto e morì a centoventi anni, ( Dt 34,7 ) dopo aver preannunziato profeticamente il Cristo mediante le allegorie delle osservanze esteriori nella tenda, nel sacerdozio, nei sacrifici e in molte altre istituzioni sacrali.
A Mosè successe Giosuè di Nun che sistemò la popolazione introdotta nella Terra promessa dopo avere sconfitto, per ordine di Dio, i popoli, dai quali era occupata la regione.
Avendo governato il popolo dopo la morte di Mosè per ventisette anni, egli morì, mentre regnavano in Assiria il decimottavo re Aminta, a Sicione il decimosesto Corace, ad Argo il decimo Danao, ad Atene il quarto Erittonio.
Durante quel periodo, cioè dall'uscita del popolo d'Israele dall'Egitto, fino alla morte di Giosuè di Nun, con il quale il popolo occupò la Terra promessa, furono istituiti ai falsi dèi dai re di Grecia riti sacri.
Questi riti rievocavano con una solenne cerimonia il ricordo del diluvio, della liberazione da esso e della vita affannosa di uomini costretti a spostarsi ora ai monti ora alle pianure.
Interpretano in tal senso anche l'ascesa e la discesa dei Luperci per la via sacra, dicono perciò che da essi sono simboleggiati gli uomini che a causa dell'inondazione dell'acqua raggiunsero la vetta dei monti e quando si abbassava tornavano in basso.
Narrano che in quel periodo Dioniso, che è stato chiamato anche Libero padre e dopo la morte considerato un dio, mostrò la vite a un suo ospite nell'Attica.
Sempre in quel tempo furono istituiti giuochi musicali all'Apollo di Delfi, affinché si placasse il suo sdegno, a causa del quale, come credevano, sarebbero stati colpiti da sterilità i territori della Grecia, perché non avevano difeso il suo tempio, che il re Danao incendiò quando assalì con la guerra quelle regioni.
Furono avvertiti da un suo oracolo che approntassero quei giuochi.
Il re Erittonio per primo istituì in Attica giuochi ad Apollo, e non solo a lui, ma anche a Minerva.
In essi come premio ai vincitori veniva offerto olio, perché ritenevano Minerva inventrice di quel prodotto come Libero del vino.
Si tramanda che in quegli anni Europa fu rapita da Csanto, re di Creta, che in altri scrittori riscontriamo con un nome diverso.
Dal connubio nacquero Radamanto, Sarpèdone e Minosse che peraltro, secondo l'opinione più diffusa, sarebbero figli di Giove dalla medesima donna.
Ma quelli che adorano tali dèi attribuiscono alla verità storica quel che abbiamo detto del re di Creta, invece quel che i poeti cantano di Giove e ne strepitano i teatri e ne spettegolano le folle lo attribuiscono alla frivolezza della mitologia, la base, cioè, da cui approntare i giuochi per calmare i numi anche con le loro false colpe.
In questi tempi un Ercole era rinomato in Siria, ma certamente un altro, non quello di cui abbiamo parlato in precedenza.26
Nella tradizione esoterica infatti si dice che vi furono parecchi Liberi padri e parecchi Ercoli.
Gli autori nelle proprie opere tramandano che l'Ercole, di cui narrano le straordinarie dodici fatiche, fra cui non assegnano l'uccisione dell'africano Anteo perché è un'impresa che appartiene all'altro Ercole, salì da sé sul rogo nel monte Eta poiché col coraggio con cui aveva superato tante difficoltà non riusciva a sopportare il male, da cui era colpito.
In quel tempo il re o meglio il tiranno Busiride immolava i propri ospiti agli dèi.
Dicono che fosse figlio di Nettuno dalla madre Libia, figlia di Epafo.
Non si pensi che Nettuno commise questo stupro affinché gli dèi non siano accusati, ma queste favole si attribuiscono ai poeti e ai teatri per placarli.
Si mormora che Vulcano e Minerva siano i genitori di Erittonio re di Atene, agli ultimi anni del quale si costata che morì Giosuè di Nun.
Ma poiché desiderano una Minerva vergine, affermano che nel loro contrasto, Vulcano eccitato versò il seme in terra e per questo motivo al bimbo nato dalla terra è stato dato quel nome.
In greco infatti έρις significa contrasto e χθών terra e da essi è stato composto il nome di Erittonio.
I più dotti, bisogna ammetterlo, ribattono e respingono dai loro dèi simili vicende.
Dicono che questa diceria leggendaria è nata perché nel tempio di Vulcano e di Minerva, che avevano in comune ad Atene, fu trovato esposto un bambino avviluppato in un serpente, il quale simboleggiava che sarebbe diventato grande.
A causa del tempio in comune poiché non si conoscevano i genitori, sarebbe stato considerato figlio di Vulcano e di Minerva.
Ma dell'etimo del suo nome dà una spiegazione più quella leggenda che questa notizia storica.
Ma a noi che importa? La storia informi con libri che dicono il vero gli uomini rispettosi, il mito delizi i diavoli impuri con giuochi fondati sul falso.
Tuttavia gli uomini religiosi li onorano come dèi e sebbene negano di loro certi falli, non li possono scagionare da ogni colpa poiché per essi, che li richiedono, istituiscono giuochi, in cui sconciamente si eseguono trame, che poi con l'orpello della saggezza si rinnegano e gli dèi si placano con queste esecuzioni che sono false e sconce perché, sebbene il mito celebri una falsa colpa degli dèi, è tuttavia una vera colpa deliziarsi di una falsa colpa.
Dopo la morte di Giosuè di Nun il popolo di Dio ebbe i Giudici.
In quel periodo si avvicendarono in loro l'abiezione delle sofferenze per i loro peccati e la felicità del conforto nella misericordia di Dio.
Coevi a quel tempo furono inventati i miti
di Trittolemo, che per ordine di Cerere, condotto da serpenti alati, portò volando i frumenti alle terre incolte;
del Minotauro, che sarebbe stato una bestia chiusa nel labirinto e se in esso entravano gli uomini, a causa di un inestricabile sviamento, non potevano uscirne;
dei Centauri, la cui natura era il congiungimento di cavalli e uomini;
di Cerbero, che sarebbe stato un cane degli inferi a tre teste;
di Frisso e della sorella Elle, che volarono trasportati da un ariete;
della Gorgone, che aveva la chioma di serpenti e mutava in pietre quelli che la guardavano;
di Bellerofonte, che era trasportato da un cavallo alato chiamato Pegaso;
di Anfione, che con il suono magico della cetra ammansiva e spostava le pietre;
dell'artigiano Dedalo e del figlio Icaro, che volarono con ali artefatte;
di Edipo, che costrinse a gettarsi nel proprio abisso un essere mostruoso, che si chiamava la Sfinge, quadrupede con faccia umana, sciogliendo l'enigma insolubile che essa era solita proporre;
di Anteo, ucciso da Ercole, che era figlio della Terra e perciò era abituato cadendo in terra a risollevarsi più robusto ed altri episodi se li ho omessi.
Le leggende fino alla guerra di Troia, con cui Marco Varrone ha terminato il secondo libro su La razza del popolo romano, sono state ideate dall'intelligenza degli uomini in corrispondenza alla storia, che ha per contenuto fatti realmente avvenuti, in modo da non esser foggiate a ludibrio degli dèi.27
Però hanno inventato che per un atto di libidine di Giove fu involato il bellissimo giovinetto Ganimede, reato compiuto dal re Tantalo e dalla leggenda attribuito a Giove, oppure che abbia conseguito l'accoppiamento con Danae attraverso una pioggia d'oro, dove si capisce che il pudore della donna fu pervertito dall'oro.
Ora non si può esprimere in quale maniera i fatti compiuti o immaginati in quel periodo, oppure compiuti dagli altri e attribuiti a Giove, abbiano preteso dal cuore degli uomini tanta malvagità perché potessero sopportare pazientemente queste fandonie, che tuttavia hanno accettato anche con piacere.
Essi senz'altro, quanto più devotamente onorano Giove, tanto più severamente avrebbero dovuto punire coloro che osano dire di lui queste imposture.
Invece non solo non si sono sdegnati con coloro che hanno inventato queste favole, che anzi per rappresentarle nei teatri, hanno temuto piuttosto di avere sdegnati gli stessi dèi.
In quel periodo Latona partorì Apollo, non quello di cui si consultavano i responsi, come dicevo poco fa, ma quello che con Ercole fu servitore di Admeto, il quale tuttavia fu ritenuto un dio al punto che molti e quasi tutti ritengono che fosse un solo e medesimo Apollo.
Allora anche Libero padre andò a far guerra in India ed ebbe nell'esercito molte donne, chiamate Baccanti, non note per il coraggio ma per la frenesia.
Alcuni autori scrivono che Libero fu vinto e fatto prigioniero, altri che fu ucciso in battaglia da Perseo e dicono pure dove fu sepolto.
Tuttavia al suo nome, come fosse un dio, con l'intervento di diavoli osceni, sono stati istituiti i riti sacri o meglio sacrileghi dei baccanali.
Il senato dopo molti anni si vergognò tanto della loro forsennata oscenità che li proibì a Roma.28
Hanno ritenuto che sempre in quel periodo Perseo e la moglie Andromeda, dopo la loro morte, fossero accolti in cielo in modo tale che non arrossirono e non temettero di rappresentare la loro figura nelle costellazioni e di chiamarle con il loro nome.
Durante il medesimo periodo di tempo vi furono poeti, che potevano anche esser considerati teologi, perché componevano poesie sugli dèi, ma su dèi che, sebbene grandi uomini, furono uomini o che sono principi categoriali di questo mondo creato dal vero Dio o che sono costituiti in principati e potestà per la volontà del Creatore e per i loro meriti.
Se fra i molti concetti insignificanti ed errati han detto poeticamente qualcosa sull'unico vero Dio, riconoscendo assieme a lui anche altri dèi, che non sono dèi e prestando un culto che si deve soltanto all'unico Dio, anche essi, Orfeo, Museo e Lino, non gli hanno prestato il culto nel debito modo né fu loro possibile rifiutare i miti sconvenienti dei loro dèi.
Però questi teologi hanno venerato gli dèi ma non sono stati venerati come dèi, sebbene la città dei miscredenti abbia l'abitudine, non saprei in quali termini, di deputare Orfeo ai riti sacrali, o meglio sacrileghi, del culto dei morti.
La moglie del re Atamante che si chiamava Ino e il figlio Melicerte morirono in mare gettandovisi spontaneamente e secondo il modo di pensare degli uomini furono annoverati fra gli dèi, come altri uomini di quel tempo, Castore e Polluce.
I Greci hanno chiamato Leucotea la madre di Melicerte e i Latini Matuta, ma gli uni e gli altri la considerano una dèa.
Durante quel periodo di tempo ebbe fine il regno di Argo, trasferito a Micene, patria di Agamennone, ed ebbe inizio il regno di Laurento, di cui fu primo re Pico, figlio di Saturno, mentre presso gli Ebrei era giudice Debora, ma in lei operava lo Spirito di Dio, perché era anche profetessa.
Il suo cantico profetico è poco chiaro sicché non si può, senza un lungo esame, decidere se sia riferibile al Cristo. ( Gdc 5 )
Già dunque in Italia avevano un regno i Laurenti e la teoria più certa è che da essi, dopo i Greci, dipenda l'origine di Roma.
Rimaneva ancora l'impero di Assiria, in cui regnava il ventitreesimo re Lampare, quando iniziava il regno di Pico, primo re di Laurento.
Gli adoratori di tali dèi riflettano sulla concezione che hanno di Saturno, padre di Pico, perché negano che fosse un uomo.
Altri hanno scritto che regnò in Italia prima del figlio Pico.
Virgilio nella sua opera letteraria più nota dice: Egli radunò un popolo incivile e sparpagliato sulle alture, gli diede le leggi e volle che si chiamasse Lazio, perché era rimasto latitante con sicurezza in queste regioni.
Dicono che durante il suo regno si ebbe l'età dell'oro.29
Ma si persuadano che queste sono fantasticherie poetiche e si convincano che padre di Pico fu Sterce e che da lui, abilissimo agricoltore, si ebbe la scoperta che i campi sono fertilizzati dal concime degli animali, che dal suo nome fu detto sterco.
Anzi alcuni affermano che egli si chiamasse Stercuzio.
Ma qualunque sia il motivo, per cui hanno preferito chiamarlo Saturno, certamente a buon diritto hanno considerato questo Sterce o Stercuzio dio dell'agricoltura.
Allo stesso modo hanno inserito anche il figlio Pico nel numero di simili dèi perché affermano che fu un bravissimo indovino e guerriero.
Pico ebbe per figlio Fauno, secondo re di Laurento, anche egli è o fu per loro un dio.
Prima della guerra di Troia tributarono onori divini a individui scomparsi.
Mentre veniva distrutta Troia con lo sterminio esaltato da ogni parte e notissimo ai ragazzi, perché per la sua importanza e per la sublime liricità dei poeti è in modo eccezionale conosciuto da tutti, regnava già Latino, figlio di Fauno, da cui ebbe inizio la denominazione del regno dei Latini e cessò quella di Laurento.
I Greci vincitori, mentre, abbandonata Troia, tornavano ai propri paesi, furono colpiti e straziati da diverse orribili sventure.
Ciò nonostante, anche in relazione ad esse, aumentarono il numero dei propri dèi.
Considerarono dio perfino Diomede, sebbene non avesse fatto ritorno in patria per una pena inflittagli dagli dèi.
Vorrebbero dare ad intendere che i suoi compagni, non in base a una immaginaria mistificazione poetica ma in base a una verifica storica, furono tramutati in uccelli.
Egli, divenuto dio, come affermano, non riuscì a restituire a loro la natura umana né l'ottenne, sebbene novello abitatore del cielo, da Giove suo re.
Dicono anzi che v'è un suo tempio nell'isola di Diomede, non lontano dal monte Gargano, che è nelle Puglie, e che questi uccelli volano attorno al tempio e vi sostano con tanta ammirevole venerazione che ingurgitano acqua e poi la spruzzano, e se capitano là Greci o discendenti di razza greca, non solo rimangono tranquilli, ma gorgheggiano lusinghieri, se invece scorgono uno straniero, volano in picchiata sulle teste e le feriscono con poderosi attacchi fino a uccidere.
Si dice che sono forniti di duri e grandi becchi adatti a simili assalti.
Per dimostrarlo Varrone ricorda altri fatti, non meno incredibili, della famosissima maga Circe che mutò in belve i compagni di Ulisse,30 e degli Arcadi che, tratti a sorte, passavano a nuoto un laghetto e in esso venivano tramutati in lupi e vivevano con tali fiere nei deserti di quella regione.
Se non si cibavano di carne umana, dopo nove anni, ripassato di nuovo a guado quel lago, tornavano a essere uomini.
Poi fa anche il nome di un certo Demeneto il quale, avendo assaggiato dell'immolazione che gli Arcadi erano soliti fare con un fanciullo sacrificato al loro dio Liceo ed essendo trasformato in lupo e al decimo anno restituito nella propria forma, si esercitò nel pugilato e vinse alla gara olimpica.
Lo storico citato suppone che l'appellativo a Pan Liceo e a Giove Liceo sia stato attribuito in Arcadia per il solo motivo della trasformazione di uomini in lupi, perché pensavano che potesse avvenire soltanto con un potere divino.
Il lupo appunto in greco è λύχος, da cui evidentemente deriva il termine Liceo.
Egli afferma che anche i Luperci romani derivano dal clan, per così dire, di questi miti.31
Coloro che leggeranno forse attendono il mio parere su questa madornale mistificazione diabolica.
Dico soltanto che bisogna fuggire di mezzo a Babilonia. ( Is 48,20 )
Questo avvertimento del profeta va inteso in senso spirituale per fuggire dalla città del tempo, che è la società degli angeli e degli uomini infedeli, per avviarci al Dio vero con l'incedere della fede che opera per mezzo dell'amore. ( Gal 5,6 )
Noi osserviamo che il potere dei demoni è tanto grande, quindi con tanto maggior fermezza dobbiamo unirci al Mediatore, perché con lui risaliamo dal basso in alto.
Se diciamo che non si deve credere a questi pregiudizi, anche adesso non mancano persone le quali assicurano che hanno sentito parlare di alcuni fatti del genere o perfino che li hanno visti.
Quando ero in Italia, udivo narrare simili aneddoti di una regione di quelle parti.
Dicevano che alcune locandiere iniziate ai malefizi, davano nel formaggio ai viandanti, che volevano o potevano, qualcosa affinché all'istante si trasformassero in giumenti, caricassero la roba necessaria e, compiuto il servizio, tornassero in sé.
Dicevano che tuttavia in loro non si aveva una percezione da bestie ma ragionevole e umana, come Apuleio nell'opera intitolata L'asino d'oro ha denunziato o immaginato che è avvenuto a lui, dopo aver bevuto un intruglio, di divenire asino ma con la coscienza umana.
Questi fatti strepitosi sono o falsi o così strani che giustamente non si credono.
Tuttavia si deve credere fermamente che Dio onnipotente può fare tutto ciò che vuole o per punire o per aiutare.
I demoni quindi, se non lo permette Colui i cui ordinamenti occulti sono molti, ma nessuno ingiusto, non possono effettuare nulla col potere della propria natura perché anche essa, sebbene angelica, per quanto viziata dalla colpa, è creatura.
I demoni certamente non creano una sostanza se ottengono gli effetti che sono oggetto di questo esame, ma trasformano soltanto nell'apparenza gli esseri creati dal Dio vero in modo che sembrino quel che non sono.
Per nessun motivo vorrei ammettere che non solo l'anima ma neanche il corpo, con l'artifizio o il potere dei demoni, può essere realmente trasformato in membra e lineamenti belluini.
È il contenuto della immaginazione umana che anche con la riflessione o col sogno sfuma in una serie infinita di oggetti e, sebbene non sia corpo, coglie le sembianze dei corpi con ammirevole prontezza e che, sopiti o sopraffatti gli altri sensi umani, può essere, mediante una forma corporea, non saprei in quale indicibile maniera, convogliata alla sensitività di altre persone.
Il corpo degli uomini giace certamente da qualche parte, ancora in vita, ma con i sensi impediti più fortemente e violentemente che dal sonno.
Così il contenuto dell'immaginazione, presa forma corporea, si mostra ai sensi degli altri nella figura di un determinato animale e anche all'uomo sembra di essere in quella forma, come potrebbe sembrargli di esserlo in sogno, e di caricare dei pesi.
Questi pesi, se sono veramente corpi, sono caricati dai demoni per una burla agli uomini che scorgono in parte la massa reale dei pesi, in parte le falsi immagini dei giumenti.
Un certo Prestanzo raccontava ciò che era accaduto a suo padre.
Questi aveva sorbito a casa sua quell'intruglio magico attraverso il formaggio ed era rimasto a letto come se dormisse, tuttavia fu assolutamente impossibile destarlo.
Diceva che dopo alcuni giorni fu come se si svegliasse e narrò i sogni illusori che aveva fatto per imposizione, cioè che divenuto un cavallo, assieme ad altri giumenti, aveva recato sul groppone per i soldati il vettovagliamento chiamato Retico poiché veniva trasportato nelle regioni della Rezia.
Si appurò che era avvenuto come aveva narrato, tuttavia a lui sembravano sogni.
Un altro narrò che, durante la notte, prima di dormire, vide venire a casa sua un filosofo da lui molto conosciuto, il quale gli spiegò alcune teorie platoniche che prima, sebbene supplicato, non aveva voluto spiegare.
E quando fu chiesto al filosofo perché aveva fatto a casa di un altro quel che aveva negato a chi lo richiedeva di fare in casa propria, rispose: Non l'ho fatto, ho sognato di farlo.
Perciò a chi vegliava è stato mostrato mediante un contenuto dell'immaginazione quel che l'altro vide in sogno.
Queste notizie sono giunte a me non da una persona qualsiasi, cui sarebbe indecoroso prestar fede, ma da persone che hanno riferito cose viste e che, a mio avviso, non mi hanno mentito.
Perciò riguardo al fatto che uomini, come si legge nelle opere letterarie, siano stati trasformati in lupi dagli dèi, o meglio da demoni Arcadi e che Circe con incantesimi trasformò i compagni di Ulisse,32 è possibile, come a me pare, che, se è avvenuto, è avvenuto nella forma sopra indicata.
Ritengo poi che gli uccelli di Diomede, poiché si afferma che la loro specie persiste nel succedersi delle covate, non sono derivati dalla metamorfosi di uomini ma che furono sostituiti agli uomini allontanati segretamente, come la cerva ad Ifigenia, figlia del re Agamennone.
Non furono certamente difficili ai demoni, lasciati liberi per divina ordinazione, simili gherminelle, ma poiché la ragazza in seguito fu trovata viva, si riseppe con facilità che a lei era stata sostituita una cerva.
Dei compagni di Diomede invece, poiché sparirono all'istante e poi non si fecero più vedere da nessuna parte e i vendicativi angeli cattivi li perdettero di vista, si favoleggia che furono trasformati in quegli uccelli che di nascosto dai luoghi, dove vive questa razza, furono trasportati in quegli altri luoghi e subito sostituiti.
Non c'è da meravigliarsi poi che portino col becco l'acqua e la spruzzino sul tempio di Diomede e che blandiscono gli oriundi Greci e strapazzano quelli di altra provenienza, perché il fatto avviene per istigazione dei demoni ai quali interessa persuadere, per ingannare gli uomini, che Diomede è divenuto un dio.
Così questi, con oltraggio del vero Dio, adorano molti falsi dèi e cercano di cattivare uomini morti, che non vivevano nella verità neanche quando vivevano, con templi, altari, immolazioni, sacerdoti.
Sono istituzioni queste che sono legittime perché dovute all'unico Dio vivo e vero.
Nel periodo dopo la conquista e la distruzione di Troia Enea, con venti navi con le quali si trasferivano i superstiti di Troia, venne in Italia.
Vi regnava Latino, ad Atene Menesteo, a Sicione Polifide, in Assiria Tautane, dagli Ebrei era giudice Labdon.
Dopo la morte di Latino regnò Enea per tre anni e nei paesi menzionati rimanevano i medesimi, eccetto Pelasgo che era re di Sicione e Sansone che era giudice degli Ebrei e che, essendo straordinariamente forte, era considerato un Ercole.
I Latini considerarono Enea un dio perché, appena morto, disparve.
Anche i Sabini annoverarono fra gli dèi il loro primo re Sanco o, come alcuni dicono, Sacto.
In quel tempo Codro, re di Atene, senza farsi riconoscere, si espose per essere ucciso dai Peloponnesi, nemici della città, e così avvenne.
Vanno dicendo che in questo modo liberò la patria.
I Peloponnesi avevano ricevuto un oracolo che avrebbero vinto se non uccidevano il re.
Li ingannò dunque mostrandosi col vestito di un accattone e incitandoli con insulti alla propria morte.
Per questo Virgilio ha detto: Anche gli insulti di Codro.33
Gli Ateniesi venerarono anche lui come dio mediante l'onoranza delle offerte.
Mentre era quarto re del Lazio Silvio, figlio di Enea non da Creusa, dalla quale nacque il terzo re Ascanio, ma da Lavinia, figlia di Latino, la quale, come si narra, lo mise al mondo dopo la morte di Enea, e mentre in Assiria regnava il ventinovesimo re Oneo e il decimosesto di Atene Melanto ed era giudice degli Ebrei il sacerdote Eli, ebbe termine il regno di Sicione che, come si tramanda, era durato novecentocinquantanove anni.
Mentre nei paesi menzionati regnavano i medesimi sovrani, il regno d'Israele, terminata l'epoca dei Giudici, ebbe inizio col re Saul e Samuele era il profeta. ( 1 Sam 10,17ss )
Da quel tempo cominciarono a regnare i re del Lazio che soprannominavano i Silvii, perché avevano cominciato a regnare col figlio di Enea che per primo fu chiamato Silvio.
A quelli che seguirono furono imposti altri nomi, ma non venne meno il soprannome,34 come molto tempo dopo furono soprannominati Cesari i successori di Cesare Augusto.
Dopo la destituzione di Saul, per cui non si ebbe più un re della sua tribù, alla sua morte seguì nel regno Davide dopo quarant'anni del dominio di Saul.
In quel tempo gli Ateniesi, dopo la uccisione di Codro, cessarono dall'avere un re e cominciarono, per l'amministrazione dello Stato, ad avere dei magistrati.
Dopo Davide che, anche egli, regnò quarant'anni, ( 2 Sam 5, 4 ) fu re d'Israele il figlio Salomone, il quale fece costruire il meraviglioso tempio di Dio a Gerusalemme.
Durante il suo regno nel Lazio fu fondata Alba.
E da essa in seguito si cominciò a denominare i re di Alba, non più del Lazio, sebbene anche essa sia nel Lazio.
A Salomone successe il figlio Roboamo, sotto il quale il popolo d'Israele fu diviso in due regni e i due Stati cominciarono ad avere un proprio re. ( 1 Re 12 )
Il Lazio dopo Enea, che considerarono dio, ebbe undici re, dei quali nessuno divenne dio.
Invece Aventino, che è il dodicesimo dopo Enea, essendo stato ucciso in guerra e sepolto sul colle, che oggi ancora si designa col suo nome, fu aggiunto al numero degli dèi concepiti a modo loro.
Altri non vollero ammettere che fosse ucciso in battaglia, ma han detto che era scomparso e che il colle non è stato denominato Aventino dal suo nome ma dalla venuta di certi uccelli.
Dopo di lui nel Lazio non è stato considerato dio alcuno fuorché Romolo, fondatore di Roma.
Fra lui e il suddetto si hanno due re.
Il primo, tanto per usare un verso di Virgilio, fu l'immediato discendente Proca, gloria della stirpe troiana.35
Mentre viveva, poiché già in certo senso Roma era portata in grembo, l'impero di Assiria, il più grande di tutti, giunse al termine della sua lunga durata.
Passò ai Medi dopo circa milletrecentocinque anni, tanto per calcolare anche il periodo di Belo, che fu padre di Nino e, pago di un dominio modesto, fu il primo re in quella regione.
Proca fu re prima di Amulio.
Ora Amulio aveva dichiarato vergine vestale la figlia del fratello Numitore di nome Rea, che si chiamava anche Ilia, madre di Romolo.
Dicono che concepì i gemelli da Marte per nobilitare o scusare il suo disonore e per addurre una prova convincente che una lupa aveva allattato i bimbi esposti.
Suppongono che questa razza di belve sia a servizio di Marte affinché si ammetta che la lupa porse le poppe ai piccoli perché riconobbe i figli di Marte suo signore.
Però non mancano coloro i quali dicono che, mentre giacevano esposti e vagivano, furono prima raccolti da non saprei quale meretrice e le sue mammelle furono le prime che succhiarono.
Difatti chiamavano lupe le meretrici e per questo i locali della loro prostituzione anche ora si chiamano lupanari.
Aggiungono che in seguito furono condotti al pastore Faustolo e nutriti dalla moglie Acca.
Sebbene non deve far meraviglia se, per rimproverare un re che aveva ordinato con efferatezza di gettarli in acqua, Dio, per mezzo di una fiera che allattava, volle soccorrere, dopo averli salvati dall'annegamento, quei bimbi dai quali doveva essere fondata una così grande città.
Ad Amulio successe nel regno del Lazio il fratello Numitore, nonno di Romolo.
Nel primo anno del suo regno fu fondata Roma, perciò in seguito regnò col suo nipote Romolo.
Non voglio indugiare in particolari.
La città di Roma fu fondata come un'altra Babilonia o come figlia della prima Babilonia perché per suo mezzo piacque a Dio di soggiogare il mondo civile e di pacificarlo dopo averlo condotto all'unità di rapporti politici e giuridici.
V'erano già degli Stati potenti e forti e nazioni agguerrite che non avrebbero ceduto facilmente e che era indispensabile sottomettere con immensi pericoli, con grandi perdite dall'una e dall'altra parte e con disagio spaventoso.
Invece quando l'impero di Assiria soggiogò quasi tutta l'Asia, sebbene il dominio sia stato realizzato con la guerra, tuttavia fu possibile realizzarlo con guerre non tanto gravose e difficili, perché i popoli erano ancora inesperti alla resistenza e non erano tanti e così grandi.
Difatti dopo il diluvio più grande perché universale, in cui soltanto otto uomini si salvarono nell'arca di Noè, non erano passati più di mille anni quando Nino assoggettò l'Asia fuorché l'India.
Roma, al contrario, non sottomise con la medesima celerità e facilità i tanti popoli dell'Oriente e dell'Occidente che sappiamo soggetti all'impero romano perché, ampliandosi lentamente, li trovò vigorosi e agguerriti da qualunque parte si estendeva.
Nell'anno in cui Roma fu fondata, il popolo d'Israele era nella Terra promessa da settecentodiciotto anni.
Di essi ventisette appartengono a Giosuè di Nun e trecentoventinove all'epoca dei Giudici.
E da quando aveva cominciato a essere un regno, ne erano passati trecentosessantadue.
Il re che allora reggeva il regno di Giuda si chiamava Acaz o, secondo il computo di altri, il suo successore Ezechia.
È noto che questo re molto buono e devoto regnò al tempo di Romolo.
Nello Stato del popolo ebraico, che si chiamava Israele, aveva cominciato a regnare Osea.
Alcuni narrano che in quel tempo proferì vaticini la Sibilla Eritrea.
Varrone riferisce che le sibille furono parecchie non una.36
La Sibilla Eritrea ha dato allo scritto alcune manifeste divinazioni sul Cristo.
Le ho lette nella lingua latina, prima in brutti versi latini e anche sconnessi per non saprei quale inettitudine del traduttore, come ho appreso in seguito.
Infatti l'illustre Flacciano, che fu anche proconsole, uomo di spontanea eloquenza e di grande cultura, mentre parlavamo del Cristo, mi presentò un codice greco dicendomi che conteneva poesie della Sibilla Eritrea, mi mostrò in un punto, nei capoversi, che la serie delle lettere era disposta in modo che vi si leggessero le parole Ίησοϋς Χρειστός Θεοϋ υίός σωτήρ, le quali significano: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore.
I versi, in cui le prime lettere hanno il significato che ho detto, come li ha tradotti un tale in versi latini ben connessi, hanno questo contenuto: Segno del giudizio: la terra sarà madida di sudore.
Verrà dal cielo Colui che sarà re per sempre, cioè per giudicare di presenza la carne e il mondo.
In questo fatto vedranno Dio il miscredente e il credente, in alto con i santi alla fine del tempo.
Vi saranno col corpo le anime che egli giudica, quando il mondo giace incolto in dense sterpaglie.
Gli uomini disdegnano gli idoli e ogni tesoro.
Il fuoco brucerà la terra e al mare e al polo dilagando sfonderà le porte dell'Averno oscuro.
Ad ogni corpo dei santi una libera luce sarà data, una fiamma eterna brucerà i colpevoli.
Ognuno mettendo a nudo gli atti occulti manifesterà le cose segrete e Dio schiuderà le coscienze alla luce.
Allora vi sarà pianto, tutti gemeranno battendo i denti.
Sarà tolto lo splendore al sole e cesserà la danza negli astri.
Crollerà il cielo, lo splendore della luna cesserà; abbatterà i colli e solleverà dal basso le valli.
Non vi sarà nelle costruzioni dell'uomo il sublime e l'alto.
I monti saranno livellati ai campi e l'azzurro del mare cesserà del tutto, la terra finirà frantumata: parimenti sorgenti e fiumi si disseccheranno per il caldo.
Ma allora una tromba manderà un triste suono dall'alto del globo per lamentare la colpa infelice e i vari tormenti e la terra spaccandosi mostrerà il caos del Tartaro.
I re saranno adunati lì davanti al Signore.
Cadrà dal cielo uno scroscio di fuoco e di zolfo.37
In questi versi latini, tradotti in qualche modo dal greco, non era possibile la corrispondenza del significato che si ha quando le lettere che sono all'inizio si collegano in una parola, dove in greco è usata l'Y perché non era possibile trovare parole latine che cominciassero con quella lettera e si adattassero al significato.
Sono tre versi, il quinto, il decimottavo e il decimonono.
Inoltre se, collegando le lettere iniziali di tutti i versi, non leggiamo quelle che sono state scritte per i tre versi suddetti, ma sostituiamo la lettera Y, come se fosse usata in quei capoversi, si enunzia con cinque parole, in linguaggio greco non latino: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.
Sono ventisette versi che è il cubo di tre.
Tre per tre difatti dà nove e nove per tre, come ad aggiungere alla superficie l'altezza, è ventisette.
Se unisci le prime lettere delle cinque parole greche che sono Ίησοϋς Χρειστός Θεοϋ υίός σωτήρ, e significano Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, si avrà ίχθύς, cioè pesce, termine con cui simbolicamente si raffigura il Cristo perché ebbe il potere di rimanere vivo, cioè senza peccato, nell'abisso della nostra mortalità, simile al profondo delle acque.
Questa Sibilla Eritrea o, come alcuni meglio pensano, Cumana, in tutto il suo vaticinio poetico, di cui quella riportata è una piccola parte, non ha nulla che riguardi il culto degli dèi falsi o inventati, anzi parla in termini tali contro di loro e contro i loro adoratori da essere annoverata nel numero di coloro che appartengono alla città di Dio.
In una sua opera Lattanzio allega vaticini della Sibilla sul Cristo, sebbene non indichi il nome.
Io ho pensato di riunire le frasi che egli ha citato separatamente in modo che rientrino in un unico contesto i vari e brevi pensieri che egli ha riportato.
Dice la Sibilla: Cadrà poi nelle mani empie degli infedeli, daranno schiaffi a Dio con mani contaminate e getteranno sputi velenosi dalla turpe bocca ed egli senza resistenza offrirà il dorso ai colpi.
Nel ricevere schiaffi tacerà affinché non si sappia che è il Verbo e da dove viene per morire ed essere coronato di spine.
Per cibo gli diedero il fiele e per bevanda l'aceto, gli offriranno questa vivanda dell'inospitalità.
Tu, stolto, non hai compreso il tuo Dio che si mostra alla coscienza degli uomini, ma lo hai perfino coronato di spine e gli hai mescolato nella bevanda il fiele disgustoso.
Sarà spaccato il velo del tempio e a mezzogiorno per tre ore scenderà una notte tenebrosa.
Morirà e sarà nel sonno della morte per tre giorni e allora, ritornato dal regno dei morti, verrà per primo alla luce dopo aver mostrato ai risorti le primizie della risurrezione.38
Lattanzio ha usato queste attestazioni della Sibilla separatamente in punti diversi della dissertazione, in accordo a quel che richiedeva la tesi che intendeva dimostrare.
Io, senza nulla frapporre ma legando insieme le frasi in un solo testo, ho procurato di dividerle soltanto nei periodi, con la speranza che in seguito gli amanuensi non trascurino di mantenerli.
Alcuni dicono che la Sibilla Eritrea non visse ai tempi di Romolo ma della guerra di Troia.
Si tramanda che, mentre regnava Romolo, visse Talete di Mileto, uno dei sette sapienti i quali, dopo i poeti teologi, fra cui il più illustre fu Orfeo, furono chiamati σοφοί che significa "sapienti".39
Nel medesimo tempo le dieci tribù, che nella divisione del popolo furono chiamate d'Israele, furono sconfitte dai Caldei e trasferite in prigionia in quelle regioni, ( 2 Re 17 ) mentre rimanevano in Giudea le due tribù che erano denominate di Giuda e avevano la capitale del regno a Gerusalemme.
Quando Romolo morì, i Romani, poiché anche egli era scomparso, lo annoverarono fra gli dèi, fatto a tutti ben noto.40
La consuetudine era del tutto scomparsa, anche se al tempo degli imperatori era riemersa ma per adulazione e non per un'aberrazione.
Perciò Cicerone accredita a grande vanto di Romolo41 il fatto che meritò questi onori non in tempi incivili e incolti, quando gli uomini erano facilmente ingannati, ma in tempi raffinati e acculturati, sebbene non avesse ancora brillato e germogliato il linguaggio fine e ingegnoso dei filosofi.42
Ma anche se i periodi successivi non considerarono dèi gli uomini morti, tuttavia non cessarono di onorare quelli che erano stati considerati dèi dagli antenati, che anzi con statue, che gli antichi non avevano,43 accrebbero l'attrattiva di una frivola ed empia superstizione.
La causavano nel loro cuore gli immondi demoni che ingannavano anche con falsi oracoli affinché mediante spettacoli si rappresentassero oscenamente, in omaggio ai falsi dèi, i loro delitti immaginari che ormai in una età più civile non erano più oggetto di mistificazione.
Dopo Romolo regnò Numa il quale, avendo pensato che la città doveva essere difesa da un gran numero di dèi senza dubbio falsi, dopo la morte non meritò di essere accolto in quella schiera.
Si pensò, per così dire, che aveva affollato il cielo con tante divinità che non gli fu possibile trovare un posticino per sé.
Mentre egli regnava a Roma e presso gli Ebrei iniziava il regno di Manasse, il re crudele dal quale, secondo la tradizione, fu ucciso il profeta Isaia, ( 2 Re 21 ) viveva, come dicono, la Sibilla di Samo.44
Mentre regnava presso gli Ebrei Sedecia e a Roma Tarquinio Prisco, successore di Anco Marzio, il popolo dei Giudei fu condotto prigioniero in Babilonia in seguito alla distruzione di Gerusalemme e del tempio fatto costruire da Salomone. ( 2 Re 25 )
I Profeti, nel rimproverare i Giudei per la loro disonestà ed empietà, avevano predetto questi avvenimenti, soprattutto Geremia che indicò anche il numero degli anni. ( Ger 25,11 )
Si tramanda che in quel tempo viveva Pittaco di Mitilene, un altro dei sette sapienti.
Eusebio scrive che gli altri cinque i quali, per raggiungere il sette, si aggiungono a Talete, che ho nominato precedentemente, e a Pittaco, vissero in quel periodo in cui il popolo di Dio era tenuto prigioniero in Babilonia.45
Sono Solone di Atene, Chilone di Sparta, Periandro di Corinto, Cleobulo di Lindo, Biante di Priene.
Costoro, chiamati i sette sapienti, si distinsero dopo i poeti teologi perché eccellevano sugli altri uomini per un tenore di vita lodevole e perché compendiarono alcuni imperativi morali in forma di proverbi.
Però non lasciarono ai posteri opere letterarie di rilievo, salvo Solone che, come si riferisce, scrisse alcune leggi per gli Ateniesi.
Talete fu un naturalista e lasciò i libri delle sue teorie.
Durante la cattività dei Giudei si distinsero anche i naturalisti Anassimandro, Anassimene e Senofane.
In quel tempo esisteva anche Pitagora, dal quale ebbe inizio la denominazione di "filosofi".46
Durante quel periodo Ciro, re della Persia, che reggeva anche Caldei e Assiri, alleviando la cattività degli Ebrei, permise che cinquantamila uomini ritornassero per edificare il tempio.47
Da loro furono soltanto gettate le fondamenta e costruito l'altare.
Per le incursioni dei nemici non poterono andare avanti nella costruzione che ebbe un rinvio fino a Dario.
Sempre in quel periodo avvennero anche i fatti che sono narrati nel libro di Giuditta che i Giudei, come è noto, non hanno accolto nel canone della Scrittura.
Sotto Dario, re di Persia, terminata la prigionia dopo i settanta anni, che aveva predetto il profeta Geremia, fu restituita l'indipendenza ai Giudei, mentre regnava il settimo re di Roma Tarquinio.
Quando fu mandato in esilio, anche i Romani cominciarono ad esser liberi dal dominio dei propri re.
Il popolo d'Israele ebbe Profeti fino a questo tempo, furono molti, ma di pochi sono ritenuti canonici gli scritti presso gli Ebrei e presso i cristiani.
Nel porre un termine al libro precedente ho promesso che in questo libro avrei allegato alcuni loro brani.48
Noto che è giunto il momento di farlo.
Indice |
1 | Lucano, Phars. 4, 577ss |
2 | Vedi 1,15-24 |
3 | Vedi appresso 27 |
4 | Vedi sopra 16,17; Eusebio, Chronic.: PL 27, 259 |
5 | Varrone, De gente pop. rom. (fr. inc.) |
6 | Sallustio, Catil. 8, 2-4 |
7 | Vedi appresso 22; Sopra 4,6; Sopra 16,17; Diodoro Siculo, Bibl. 2, 1, 7-10; 2, 5, 3; Paolo Orosio, Hist. 1, 4, 1-3 |
8 | Eusebio, Chronic. 1, 15, 1: PL 27, 46 |
9 | Eusebio, Chronic. 1, 15, 1: PL 27, 46; Paolo Orosio, Hist. 1, 4, 7 |
10 | Ovidio, Met. 4, 57-58; Diodoro Siculo, Bibl. 2, 9; Eusebio, Chronic.1, 15, 1: PL 27, 46; Paolo Orosio, Hist. 2, 2, 1 |
11 | Vedi sopra 16,4 |
12 | Eusebio, Chronic. 1, 14, 1; 1, 15, 1: PL 27, 43. 46; Diodoro Siculo, Bibl. 2, 7, 1 |
13 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 11 |
14 | Erodoto, Hist. 1, 2; Diodoro Siculo, Bibl. 1, 24, 8; Eusebio, Chronic.: PL 27, 287 (498 da Abramo |
15 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 13 |
16 | Sui due eroi cf. Eusebio, Chronic.: PL 27, 278. 279. 284 (332, 379 e 428 anni da Abramo); Diodoro Siculo, Bibl. 3, 60, 1-2; 4, 27, 5 |
17 | Eusebio, Chronic.: PL 27, 283 (460 da Abramo); Diodoro Siculo, Bibl. 1, 28, 7 |
18 | Virgilio, Aen. 3, 138-141; Ovidio, Met. 2, 685-707; 11, 301-317; Orazio, Carm. 10, 1-8 |
19 | Diodoro Siculo, Bibl. 1, 12, 7-8; 5, 72, 13; 5, 73, 7-8; Eusebio, Chronic.: PL 27, 271 (236 da Abramo) |
20 | Vedi sopra 2,2 |
21 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 5 |
22 | Eusebio e Girolamo, Chronic. 1, 16, 1; 1, 28, 1: PL 27, 54. 126. Il fatto è citato anche da Platone, Timeo 22B |
23 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 7 |
24 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 8 |
25 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 10; Eusebio e Girolamo, Chronic. 1, 30, 1: PL 27, 129; anche Paolo Orosio, Hist. 1, 9, 1 |
26 | Vedi sopra 8 |
27 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 14 |
28 | Livio, Ab Urbe cond. 39, 18, 7-8; Cicerone, De leg. 2, 15, 37 |
29 | Virgilio, Aen. 8, 321-325: cf. anche Diodoro Siculo, Bibl. 5, 66, 4 |
30 | Omero, Odyss. 10, 230-243 |
31 | Varrone, De gente pop. rom., fr. 17; Vedi sopra 12 |
32 | Virgilio, Ecl. 8, 70 |
33 | Virgilio, Ecl. 5, 11 |
34 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 3, 8 |
35 | Virgilio, Aen. 6, 767 |
36 | Varrone, Antiq., frr. 138 e 290 |
37 | Oracula Sibyllina 8, 217-243 |
38 | Lattanzio, Div. inst. 4, 6. 15. 18; 7, 8 |
39 | In Eusebio Talete è di oltre 100 anni dopo la cattività d'Israele: cf. Chronic.: PL 27, 355. 365 (1270-1377 da Abramo) |
40 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 2, 1; Ovidio, Met. 14, 816-820; Cicerone, Tuscul. 1, 12, 28 |
41 | Vedi appresso 22,6 |
42 | Cicerone De rep. 2, 10, 18-19 |
43 | Vedi sopra 4,31,6 |
44 | Eusebio, Chronic.: PL 27, 364 (1353 da Abramo) |
45 | Eusebio, Chronic. 2, prooem. 4: PL 27, 232.363 (1377 da Abramo) |
46 | Vedi sopra 8,2; Appresso 18,37 |
47 | Eusebio, Chronic.: PL 27, 375; Esd 1,1ss |
48 | Vedi sopra 17,24 |