Summa Teologica - III |
1 - Nella Terza Parte i lettori affezionati della Somma italiana noteranno subito una novità: il traduttore di alcuni volumi non è un padre domenicano, ma un sacerdote secolare, già noto al pubblico italiano per altre pubblicazioni.
Mons. Italo Volpi, insegnante di dogmatica nel Seminano Regionale Umbro, per la sua passione di studioso, da molti anni aveva messo mano per conto proprio alla traduzione della Tertia Pars.
Alla sua offerta di collaborazione abbiamo aderito ben volentieri.
Perché affrontare di nuovo una fatica, rendendo infruttuosa quella già fatta da altri?
Ci siamo perciò contentati di dare qualche ritocco alla traduzione di Mons. Volpi, per renderla più omogenea al resto dell'Opera.
2 - Nessuno, speriamo, vorrà accusarci di presunzione, se anche all'inizio di questo volume osiamo predisporre alla lettera del testo della Somma gli stessi lettori non sprovveduti con una introduzione, pur avendo pensato l'Autore stesso a dotarlo di un prologo.
Codesto prologo infatti è così breve e conciso, da essere oggetto più di ammirazione e contemplazione, che fonte d'informazione spicciola e immediata.
D'altra parte esso è l'introduzione non a un volume, ma a tutta la Terza Parte dell'Opera.
Noi stessi siamo tentati di soffermarci a considerare queste poche righe, per rintracciare in esse le linee maestre della Somma Teologica, imitando i commentatori antichi e moderni.
Ma vincendo la tentazione e richiamando alla Introd. Gen. pp. 195 Ss., ci limiteremo a sottolineare le giuste osservazioni di qualche studioso moderno, rimandando per il resto alle note che accompagnano le parole dell'Autore.
3 - C'è oggi chi prospetta un ripensamento di tutta la teologia cattolica in chiave cristologica, accusando quella finora imperante sotto l'ispirazione di S. Tommaso, di seguire un piano astratto e irreale.
Pare, insomma, che il Dottore Angelico non abbia capito la centralità del mistero di Cristo.
Del resto nel piano stesso della Somma Teologica ciò sarebbe evidente: la Terza Parte a tutto rigore non è necessaria per giustificare i trattati precedenti.
In questa critica c'è qualche cosa di vero, che però fa onore a S. Tommaso.
Questi infatti con la stessa organizzazione dell'Opera viene a ricordarci che l'incarnazione e la redenzione non sono nella sfera del necessario, ma del contingente : l'incarnazione è opera superogatoria, un eccesso dell'amore di Dio verso le creature.
La gratuità di tanta benevolenza non poteva ricevere un risalto maggiore e più evidente.
Non è detto però che quest'opera sia eterogenea al resto della Somma e quindi al resto della teologia.
In ultima analisi essa non fa che porre in evidenza l'insondabile profondità del mistero di Dio, che noi possiamo conoscere solo dalle sue manifestazioni di bontà, di giustizia e di misericordia.
Dom O. Lafont trova giustamente nel mistero della bontà di Dio il filo conduttore che lega tutte le parti dell'Opera: « Noi abbiamo cercato di mostrare come questo mistero della bontà di Dio dava alla Prima Parte tutta intera la sua intelligibilità teologica e la sua unità ; esso fornisce il punto di partenza della considerazione sull'uomo: il problema di base della Seconda Parte è quello di mostrare come l'uomo, nella sua condizione complessa e legata alla successione partecipi alla bontà di Dio e si orienti verso di essa: di qui l'insistenza sul valore d'esemplarità, che giustifica e fonda l'atto volontario umano, e sulla finalità che orienta questo atto volontario verso Dio in se stesso ….
Ci sembra che una tale prospettiva costituisca come un richiamo alla cristologia, nel senso che molte analisi condotte nelle prime due parti della Somma non hanno la loro piena intelligibilità fuori del Cristo è ( O. LAFONT, Structures et methode dans la Somme Théologique de S. Thomas d'Aquin, Bruges, 1960, p. 299 ).
S. Tommaso stesso così ci ricorda che il mistero dell'incarnazione è al centro dei misteri della fede cristiana: « Tale mistero tra tutte le opere di Dio è quello che più sorpassa la ragione; niente infatti da parte di Dio si poteva escogitare di più meraviglioso, che il Figlio di Dio, vero Dio, diventasse vero uomo.
E poiché questo tra tutti i misteri è il più mirabile, ne segue che tutte le altre opere mirabili siano ordinate alla fede relativa a questa mirabilissima: perché "il massimo in ogni genere di cose costituisce la causa di quanto in esso si trova" è ( 4 Cont. Gent., c. 27 ).
Ma pretendere per questo, in una sintesi teologica, di parlare di Cristo prima di aver parlato di Dio e dell'uomo è un non senso; e dopo tutto sarebbe contro la stessa esposizione storica del dogma che riscontriamo nei libri ispirati.
Oggi i teologi si pongono il quesito se si debba parlare di teocentrismo o di cristocentrismo.
Ora, è evidente che, per S. Tommaso, Cristo ricapitola effettivamente ogni cosa e risolve nella sua unità così concreta e profonda anche codesto problema, non però in quanto uomo, bensì in quanto Dio: « In disciplina christiana initium et principium sapientiae nostrae est Christus, in quantum est Verbum Dei, idest secundum divinitatem.
Quoad nos vero principium est ipse Christus in quantum Verbum caro factum est, idest secundum eius incarnationem ».
Tuttavia il teologo come il cristiano è tenuto a ricordare che Cristo in quanto uomo ha propriamente funzione di via « Via quidem secundum humanitatem, terminus secundum divinitatem è evidente quindi che il vero soggetto della teologia è Dio, il quale in nessun modo può essere storicizzato data la sua infinita trascendenza.
Ciò spiega il predominio gerarchico e quantitativo che il De Deo occupa nella Somma Teologica.
4 - « A noi non sembra », diremo col P. Y. Congar, « che si debba cercare una teologia interamente cristologica, come ha fatto K. Barth, né applicare il programma di E. Mersch con la sua idea del Cristo primo intelligibile.
È vero che non perveniamo alla conoscenza del mistero intimo di Dio, se non per Gesù Cristo ( ordo inventionis, acquisitionis e, da parte di Dio, revelationis ), ma è solo mediante questo mistero di Dio che noi possiamo credere pienamente il mistero dell'incarnazione, dunque comprendere Gesù Cristo ( ordo iudicii ).
La teologia dogmatica deve applicarsi alla struttura in sé della realtà, poiché alla fine essa è uno sforzo per ricostruire la grande architettura della sapienza divina ….
Ed è chiaro pure che se Cristo è il centro, il fine non è altri che Dio stesso [ cfr. 1 Cor 15,28 ] » ( Cristo nella economia salvifica e nei trattati di teologia dogmatica », in Concilium, 1966, pp. 39 s. ).
Comunque è certo che S. Tommaso non intendeva restringere affatto i confini della cristologia: come risulta dal prologo della Terza Parte, egli vuole includervi espressamente tutti i benefici apportati dalla redenzione ( Chiesa e Sacramenti ), e tutta l'escatologia, « avendoci Cristo mostrato in se stesso la via per cui possiamo giungere, con la resurrezione, alla beatitudine della vita immortale ».
Ma presa in senso stretto la cristologia si riduce ai due trattati sull'Incarnazione ( qq. 1-26 ) e sulla Redenzione ( qq. 27- 59 ), che occuperanno ben quattro volumi della nostra edizione della Somma Italiana ( voll. XXIII-XXVI ).
5 - Quando S. Tommaso si accinse alla compilazione di questa parte della Somma, cioè negli ultimi due anni della sua vita, aveva già più volte abbozzato l'esposizione della sua cristologia.
Tuttavia i suoi agiografi hanno registrato con una certa accuratezza le sue preoccupazioni e il suo travaglio, coronamento di tutta una vita vissuta nella totale adesione al Maestro Divino e alla sua dottrina.
Ci piace qui ricordare che uno dei primi agiografi, contemporaneo del Santo, già dall'infanzia presenta il suo eroe come colui che avrebbe dissertato in maniera profondissima sul mistero di Cristo » ( cfr. PETRI CALÒ, Vita S. Thomae Aquin., curis et labore D. Prtimmer, p. 19 ).
- L'amore appassionato del Santo verso il Redentore divino non apparisce solo in qualche episodio isolato, ma nella vita ordinaria.
Si sa che allo scatenarsi di qualche tempesta egli era solito munirsi col segno della Croce ripetendo le parole « Deus in carnem venit, Deus pro nobis mortuus est ».
Le sue messe erano spesso accompagnate da intenso fervore sensibile: « Consueverat saepe rapi in missa tanto devotionis affectu, ut totus perfunderetur lacrimis » ( ibid., p. 35 ).
Non è certo per puro caso che le parti complete della Somma Teologica si chiudono con due dossologie cristologiche: « Talis enim partus decebat eum qui est super omnia benedictus Deus in saecula seculorum. Amen » ( I, q. 119, a. 2, ad. 4 ); « … ad quam nos perducat ipse qui promisit, Iesus Christus Dominus noster, qui est super omnia Deus benedictus in saecula. Amen» ( II-II, q. 189, a. 10, ad 3 ).
- Non è un caso, perché in modo analogo l'Autore aveva concluso il suo commento ai primi tre libri delle Sentenze.
Non sappiamo come avrebbe concluso il Compendium Theologiae, ma l'inizio è uno squarcio eloquente di cristologia.
6 - Troppo lungo sarebbe ricordare qui tutte le opere in cui ha trattato anche indirettamente del mistero dell'incarnazione.
Ricorderemo solo le principali, oltre quelle già nominate.
Nella Somma Contra Gentiles dedica al mistero di Cristo in modo esplicito i cc. 27-49 del IV libro.
Tra le « quaestiones disputatae » va ricordata la quaestio De Unione Verbi Incarnati.
Ma un posto tutto particolare occupano nella sua produzione letteraria i commenti della sacra Scrittura: il commento cioè alle lettere di S. Paolo, ai Vangeli di S. Matteo e di S. Giovanni, la Catena Aurea sui quattro Vangeli, il commento a Isaia.
Questa massa imponente di scritti, e quindi di fatica, non dice solo l'amore del Santo per un tema così sublime; ma dice anche la severa preparazione del teologo che si accingeva alla sintesi scientifica sull'argomento.
- Per chiudere in bellezza il capitolo sulle disposizioni dell'Autore rispetto all'argomento, ricorderemo due episodi conclusivi della sua esistenza.
Pietro Calò ci assicura che si deve alla curiosità del sacrista Fr. Giacomo da Caserta aver sorpreso il Santo in estasi ai piedi del Crocifisso, nel periodo in cui attendeva alla stesura delle ultime questioni relative al Divino Redentore.
E fu quell'umile frate a riferire il celebre colloquio: - Hai scritto bene di me, o Tommaso. Quale ricompensa dunque vuoi da me per la tua fatica?
- Nient'altro che te, o Signore -, rispose il Santo ( op. cit. p. 38 ).
Altra espressione sublime dell'amore per Gesù benedetto si ebbe a Fossanova, nel momento di ricevere il Santo Viatico.
« Dopo aver premesso altre devotissime parole, nel ricevere il Sacramento disse ad alta voce: Io ricevo te, prezzo della mia redenzione, per il cui amore ho studiato, vegliato e lavorato; Te ho predicato, Te ho insegnato.
Mai nulla io ho detto contro di te, e se qualche cosa di male ho espresso, lo feci per ignoranza.
Né sono pertinace nella mia opinione.
Ma se ho detto qualche cosa di falso su questo Sacramento e su gli altri, lascio tutto alla correzione della Santa Romana Chiesa, nella cui obbedienza passo da questa vita ( ibid. p. 48 ).
7 - « Nel commentare le Sentenze S. Tommaso si era preoccupato anche delle più piccole affermazioni della Scrittura, dei Padri, o dei Concili.
Ma purtroppo, al tempo del suo primo insegnamento a Parigi [ 1250-1259 ], il giovane professore aveva come strumenti di lavoro solo pochi testi patristici, testi passati per molte mani prima di giungere a Pietro Lombardo e ai suoi commentatori.
Ma alla fine del 1259 S. Tommaso ritorna in Italia, dove insegnerà fino al 1267-68; e qui ha la fortuna di trovare molte collezioni conciliari e patristiche, da poco venute dall'Oriente, attribuite, a torto o a ragione, a questo o a quel Padre della Grecia, dell'Asia Minore o dell'Egitto.
Allora, il primo lavoro che il Dottore Angelico si prefigge è di studiare nei testi stessi che si presentano il pensiero degli autori » ( M. MANTEAU-BONAMY, O. P., in Iniziazione Teologica, Brescia, 1956 t. IV, p. 47 ).
Questo discorso vale soprattutto per gli atti del Concilio di Calcedonia, come ha chiarito magistralmente il P. G. Geenen, "approfondendo le indagini di Bardy O. e di Backes I. sull'argomento.
È stata forse questa maggiore conoscenza delle fonti a dare una disposizione nuova alla cristologia della Somma rispetto a quella delle Sentenze?
Mentre nel commentare da giovane l'opera di Pietro Lombardo S. Tommaso aveva seguito il solito schema ( congruenza dell'incarnazione, Persona assumente, natura assunta, unione ipostatica ), nella Somma Teologica dopo la questione introduttiva sulla convenienza dell'incarnazione, subito tratta nella q. 2 il tema centrale dell'unione ipostatica.
Questo spostamento è già presente nelle Somma Contra Gentiles e nel Compendium Theologiae, in cui la cristologia inizia con la lunga serie degli errori cristologici e con la rispettiva condanna.
È certo ormai che S. Tommaso si è deciso al passo, oltre che per motivi di alta speculazione teologica, in considerazione dell'enorme importanza che codesto tema aveva avuto nello sviluppo storico del pensiero teologico.
Egli mostra, in questo caso così ben documentabile, di « aver raggiunto un grado insuperato nella conoscenza della storia delle eresie, e nell'arte di utilizzare in teologia una tale documentazione conciliare e storica.
Ciò risulta dall'esattezza e dalla penetrazione della sua presentazione del monofisismo, unica possiamo dire in tutta la scolastica » ( G. LAFONT, op. cit., p. 325 ).
8 - Più ancora che ai Concili il Dottore Angelico ricorre ai testi della Scrittura del vecchio e del nuovo Testamento nel costruire il suo trattato.
Pochi teologi possono competere con lui nella padronanza della parola sacra.
E nei passi decisivi la stessa esegesi moderna d'ispirazione cattolica guarda tuttora con rispetto le sue penetranti interpretazioni.
È superfluo sottolineare che i Vangeli e le epistole paoline tengono qui il campo in maniera predominante.
Per quanto riguarda le fonti patristiche abbiamo detto abbastanza sui documenti conciliari.
Basterà aggiungere i nomi di S. Agostino e di S. Giovanni Damasceno per completare il quadro essenziale relativo alle fonti del trattato tomistico.
Le citazioni del primo sono un florilegio di quasi tutte le opere; invece del secondo si cita quasi sempre il 3 De Fide Ortodoxa, che è un vero trattato di cristologia.
Però, come al solito, il Dottore Angelico non si lascia imporre gli schemi delle fonti che utilizza.
« Non solo la costruzione della Somma non riflette quella del De Fide Ortodoxa, ma le numerose citazioni di questo trattato, che si possono rilevare nelle prime sei questioni della Terza Parte, non ne manifestano alcuna utilizzazione sistematica » ( O. LAFONT, op. cit., p. 326 ).
9 - Rispetto ai teologi contemporanei inizialmente S. Tommaso segue l'indirizzo comune dei commentatori di Pietro Lombardo [ m. 1152 ], il quale si era trovato spettatore della controversia cristologica nel secolo di Abelardo, senza prendere una decisione a proposito delle tre sentenze che si combattevano.
La prima sosteneva che il Figlio di Dio « aveva assunto un uomo », e riteneva di poter attribuire a Cristo un supposito umano.
La seconda sosteneva che si doveva attribuire a Cristo «una persona composta », sussistente cioè in due nature.
La terza ( quella di Abelardo ) riteneva che in Cristo si è avuta l'assunzione separata del corpo e dell'anima, cosicché alla sua umanità veniva a mancare la sussistenza.
Per questo tale opinione venne denominata « nichilismo cristologico ».
Pietro Lombardo non aveva saputo fare la sua scelta sicura; ma nel secolo successivo i teologi, guidati dal magistero ecclesiastico, difesero con onore la seconda tesi, che in seguito l'Aquinate poté verificare su gli atti dei concili più antichi cui abbiamo accennato.
Perciò l'approfondimento tomistico si svolse senza contrasti con i maestri contemporanei.
La questione sul motivo immediato dell'incarnazione, ravvivata da S. Anselmo, non era considerata di grande importanza: si trattava allora di una questione elegante, che non divideva gli animi e non delimitava i confini dei vari sistemi teologici.
Il problema venne ad acuirsi nel secolo successivo per colpa, o per merito, del Dottor Sottile, O. Duns Scoto, e della sua scuola.
10 - Possiamo dire che dal trecento in poi gli scotisti non hanno più abbandonato la lotta, per diffondere e per difendere l'idea della incarnazione « perfettiva ».
Il torto dei tomisti è stato forse quello di aver alimentato la polemica, impegnandosi troppo nella difesa della tesi contraria.
La polemica diuturna, si sa, giova sempre all'opposizione.
Ai nostri giorni alcuni scotisti credono addirittura di sapere che S. Tommaso nega il primato di Cristo, o per lo meno logicamente dovrebbe negarlo.
Di fronte ad affermazioni del genere c'è da rimanere storditi.
E quindi per orientarsi è necessario ricordare brevemente i termini della controversia.
Questa ci riporta al celebre quesito cui abbiamo accennato: « Utrum, si homo non peccasset, nihilominus Deus incarnatus fuisset » ( q. 1, a. 3 ).
Si sa che S. Tommaso con la stragrande maggioranza dei Padri e dei teologi afferma che il motivo immediato dell'incarnazione è la redenzione del genere umano ( « propter nos homines et propter nostram salutem … » ); cosicché arriva a concludere con S. Agostino, che se Adamo non avesse peccato, l'incarnazione non avrebbe avuto luogo.
Gli scotisti invece credono di sapere che il Figlio di Dio si sarebbe incarnato ugualmente, per condurre a compimento l'opera della creazione; perché Cristo è stato concepito da Dio quale « primogenito di tutte le creature » ( Col 1,15 ).
E a loro dire queste parole di S. Paolo non possono avere altro compito, che quello di rivelarci un ordine di dignità e di causalità dell'umanità stessa di Cristo.
Cosicché Cristo, anche come uomo, è da considerarsi causa, almeno meritoria, di tutte le altre creature.
- A loro parere, quindi, l'incarnazione « redentiva », motivata anche solo occasionalmente dal peccato, sarebbe indegna di Dio: perché Dio verrebbe così a dipendere dalla creatura; e la più alta manifestazione della bontà divina verrebbe ad essere condizionata dalla malvagità umana.
11 - Ecco come serenamente considera il problema S. Tommaso nel commentare un testo paolino: « Questo problema non è di grande importanza ( magnete auctoritatis ), perché è pur sempre Dio a disporre le cose che dovevano succedere nel modo in cui esse si sarebbero attuate.
Ora, noi non sappiamo che cosa egli avrebbe disposto, se nella sua prescienza non avesse contemplato la colpa; tuttavia i testi autorevoli ( Scrittura e Padri ) pare che vogliano dire espressamente che egli non si sarebbe incarnato, se l'uomo non avesse peccato, e io propendo di più per questa posizione » ( 1 Tm., c. 1, lect. 4 ).
Il Dottore Angelico non trova motivi di ragione per escludere la tesi dell'incarnazione perfettiva: « Dio avrebbe potuto incarnarsi, anche se non ci fosse stato il peccato ( q. 1, a. 3 ) ma « siccome nella Sacra Scrittura il motivo dell'incarnazione viene sempre desunto dal peccato del primo uomo, è meglio dire che l'opera dell'incarnazione è stata disposta da Dio a rimedio del peccato, di modo che, non esistendo il peccato, non ci sarebbe stata l'incarnazione » ( ibid. ).
È evidente quindi che egli si è deciso a favore dell'incarnazione redentiva solo perché la Scrittura è nettamente a suo favore; ma tale « autorità » rimane esclusiva, perché si tratta di un'opera del tutto soprannaturale: « Le cose che dipendono dalla sola volontà di Dio, al di sopra di tutto ciò che è dovuto alle creature, non possono esserci note se non attraverso la sacra Scrittura, nella quale la volontà divina viene manifestata » ( ibid. ).
Sono questi i termini precisi della soluzione tomista, ed è così difficile scalfirla, che molti scotisti moderni preferiscono non insistere nell'affrontare direttamente la questione ipotetica ( cfr. BONNEFOY, op. cit. pp. 180-189 ).
Preferiscono discutere ( come se non fosse la stessa cosa ), se il motivo indicato sia unico, o per lo meno determinante; così da escludere l'incarnazione nel caso che ipoteticamente fosse venuto a mancare.
Essi immaginano di arrendersi così alle dichiarazioni della Scrittura e dei Padri, che presentano la redenzione connessa intimamente con l'incarnazione; ma credono di scorgere nell'esaltazione di Cristo, nella gloria dei Santi e nella gloria di Dio motivi più decisivi appunto perché più nobili.
A loro parere l'esclusivismo che irrigidisce la posizione di S. Agostino e di S. Tommaso, condizionando occasionalmente l'incarnazione al peccato, sarebbe inaccettabile e assurdo.
Ora, a noi sembra che sia questa esclusione della tesi altrui a creare il vero contrasto tra le due scuole, con lo scambio delle rispettive qualifiche fissate dalla storiografia: il tomismo genuino prende una posizione volontarista che fa dipendere l'Incarnazione dalla volontà salvifica di Dio, senza escludere a priori l'ipotesi contraria; lo scotismo, invece, in base a delle categorie razionali fissa un primato gerarchico e causale dell'umanità di Cristo rispetto alle altre creature, ed esclude a priori l'incarnazione prevalentemente redentiva come assurda e inaccettabile.
12 - La pretesa di dimostrare assurda una posizione tenuta da S. Tommaso e da S. Agostino ci sembra davvero eccessiva.
È più probabile che gli oppositori non abbiano capito la solidità dei presupposti sui quali quella si regge.
Certo si è che né S. Agostino, né S. Tommaso nell'accettare la redenzione dal peccato come motivo immediato dell'incarnazione intendono dimenticare o escludere i fini più alti e remoti cui essa, una volta decisa da Dio liberamente, è subordinata.
S. Tommaso, si sa, troverà il primo motivo di quest'opera nella bontà stessa di Dio ( q. 1, a. 1 ).
Quando si dice che il Verbo si è incarnato per noi e per la nostra salvezza », non si esclude né la gloria del Cristo, né tanto meno la gloria di Dio.
Ma non è detto che una causa occasionale non possa causare a suo modo cose e fatti di ordine superiore.
Altrimenti bisognerebbe negare l'assioma agostiniano, che « Dio permette il male perché è così potente da trarne un bene » ( Enchir., c. 11 ).
D'altra parte, comunque si ordinino tra loro fatti contingenti, non è mai il caso di parlare di incongruenza rispetto alla predisposizione divina.
Le cose create infatti non possono mai subordinare la causa suprema, che ne dispone a piacimento da tutta l'eternità con un decreto che è eterno come Dio stesso.
E come si fa a escludere, dopo tutti i paradossi del mistero cristiano, che Dio abbia voluto glorificarsi nell'incarnazione, partendo proprio dall'ingratitudine umana, per venire incontro alla nostra disperata miseria?
Chi può proibire a Dio di manifestare proprio così la sua grandezza, mostrando nella maniera più sublime che egli permette il male, appunto perché capace di trarne un bene e un bene maggiore?
Tale anzi è il senso ovvio di tante espressioni della Scrittura e dei Padri.
Chi ha dunque il diritto di considerare assurda una simile catechesi, che ha fatto struggere d'amore migliaia di Santi?
Né si deve dimenticare che la gloria essenziale di Dio, e quindi del Verbo, è nella sfera del necessario e non del contingente: è in Dio stesso e non nelle opere ad extra, compresa l'opera dell'incarnazione.
Nessun teologo cattolico si sentirà perciò autorizzato a considerare necessario da parte di Dio il compimento ad extra di quanto egli considera l'optimum.
13 - Per scalzare meglio la posizione « volontarista » di S. Tommaso il P. Bonnefoy crede di poterle attribuire una menomazione del primato di Cristo.
A suo avviso, infatti, il primato suddetto esige che alla santa umanità del Redentore venga attribuita la causalità finale, esemplare, e meritoria su tutto il creato.
Egli perciò non esita, con la scuola scotista, ad attribuire a Cristo, in quanto uomo ( si noti bene l'inciso ), il merito della grazia e della gloria concessa agli Angeli all'origine del mondo, e persino quello di aver così determinato la creazione dell'universo ( cfr. op. cit., pp. 216-219 ).
Con quest'ultima affermazione si arriva all'assurdo di considerare una creatura ( tale è infatti la santa umanità di Cristo ) causa di se stessa, sia pure in dipendenza da Dio.
Concepito in tal modo, è certo che S. Tommaso respingerebbe il primato di Cristo.
Anche perché il Santo Dottore non è propenso a considerare astratta in questa maniera la santa umanità del Verbo Incarnato.
Quando si parla di Cristo si deve porre l'accento sull'ipostasi, come per qualsiasi altro soggetto.
E, nel caso, l'unico essere e l'unica ipostasi che si presenta è l'ipostasi divina ( cfr. III, q. 17, a. 2 ).
Stando così le cose non si capisce perché i passi paolini, che sono diventati i cavalli di battaglia dell'opinione scotista ( Col 1,15-18; Rm 8,29; Ef 1,3.5 ), non si debbano invece interpretare in un senso personalistico, così da essere innanzi tutto affermazioni della divinità di nostro Signore Gesù Cristo.
Che questo sia, p. es., il senso ovvio di Col 1,15-18 ( « Questi [ Cristo ] è immagine di Dio invisibile, primogenito avanti ogni creatura; poiché in lui tutte le cose furono create: quelle celesti e quelle terrene, le visibili e le invisibili, siano troni o dominazioni, principati o potestà, tutto è stato creato per mezzo di lui, ed egli esiste avanti tutte le cose e tutti hanno consistenza in lui.
Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa … », risulta evidente per l'esegesi moderna come quella medioevale di S. Tommaso. « Il v. 16 », ha scritto il P. Teodorico da Castel S. Pietro, « esclude la possibilità di considerare il Figlio come la prima delle creature: egli, infatti, è, con Dio, artefice della creazione di tutti gli esseri » ( La Sacra Bibbia, a cura di Mons. S. Garofalo, Torino, 1960, III, p. 295 )
Perciò il primato di Cristo secondo S. Tommaso non va cercato fuori dell'unione ipostatica.
D'altra parte è innegabile che nello spirito del loro Maestro i tomisti non vedono di buon occhio l'insistenza di molti teologi contemporanei nel presentare l'incarnazione perfettiva, come soluzione unica e necessaria del problema cristologico; perché in tal modo si corre il rischio di compromettere l'assoluta gratuità della « gratia unionis ».
14 - Il pericolo è tutt'altro che immaginano.
Certe impostazioni cristologiche, orientate nel senso dell'ascesa del creato piuttosto che in quello della discesa gratuita e imprevedibile del Creatore, sono alla radice di quel cristo-centrismo cosmologico, che minaccia di svuotare il senso genuino del mistero dell'incarnazione.
Il P. Theillard de Chardin, p. es., fa partire addirittura dalla materia il moto verso la « cristificazione », rinnovando non senza seguito i fasti dell'antica gnosi, con le sue fantastiche teorie evoluzioniste.
« Nel mistero dell'Incarnazione », nota invece il Dottore Angelico, « si deve considerare il movimento di discesa della divina pienezza nell'intimo della natura, piuttosto che il moto di ascesa della natura umana, in qualche modo preesistente, verso Dio » ( III, q. 34, a. 1, ad 1 ).
- In altri termini, diremo che per capire il mistero di Cristo bisogna partire da Dio, dal Verbo, dallo Spirito e non dalle esigenze del creato: gli scotisti più preparati sono mossi da questa stessa preoccupazione, perciò non escludiamo la possibilità di capirci fraternamente.
Rispetto al mondo si deve salvaguardare in Dio un'assoluta autonomia e libertà; ma questa non si salva facendo forza sulla necessità di coronare con l'unione ipostatica l'opera della creazione.
« Al compimento dell'universo », diremo con S. Tommaso, « basta che le cose create siano ordinate a Dio naturalmente come a loro fine.
Che invece una creatura venga unita a Dio in unità di persona sorpassa i limiti della perfezione naturale » ( q. 1, a. 3, ad 2 ). …..( omissis ).
18 - A riportare il quesito direttamente sul piano psicologico fu il gesuita P. Galtier, nella terza parte della sua opera, L' Unité du Christe: etre, personne, conscience ( Parigi, 1939 ).
Troppo lungo sarebbe esporre qui nei particolari il suo pensiero.
Diremo solo che egli, partendo dalla concezione scotista la quale riduce la personalità al semplice fatto che un dato individuo di natura razionale è immune dall'unione ipostatica, considera la coscienza come espressione dell'individualità naturale piuttosto che come espressione dell'unica ipostasi soggiacente alle due nature.
A suo modo di vedere, oggetto proprio della coscienza, « è unicamente l'atto percepito come nostro.
La coscienza non afferra quel che lo provoca, o che lo termina ….
Il soggetto non è raggiunto che indirettamente, cioè negli atti od operazioni che a lui sono attribuiti; proprio per il fatto che essa glieli attribuisce, la coscienza percepisce anche il soggetto.
Ma non percependoli che in questo modo, essa non percepisce chiaramente di esso se non il fatto d'essere il soggetto delle proprie operazioni.
Ora, come la coscienza che li percepisce, queste operazioni non appartengono al soggetto che in forza della sua natura », la quale ne è il principio dinamico.
« Non esistendo e non agendo che in forza della natura, il soggetto non conosce se stesso che in essa e per essa » ( op. cit., p. 295 ).
Ciò significa che quanto risulta alla coscienza è solo la natura; anzi l'atto di coscienza non è che la natura stessa la quale si percepisce nelle sue operazioni.
Da questa premessa Qaltier deduce che in Cristo la riflessione sugli atti della sua umanità non può condurre a un'immediata presa di coscienza dell'unione ipostatica; perché l'ipostasi, o persona, non è principio d'attività.
Per l'uguaglianza perfetta con noi, si deve attribuire a Cristo completa e autonoma una vera coscienza Umana, un io umano insomma.
Ad evitare in lui uno sdoppiamento psicologico della personalità provvede la visione beatifica, ossia la scienza beata.
19 - Nel 1949 un discepolo ardente del De Basly, il P. L. Seiller, pubblicò un articolo sulla psicologia del Cristo, sviluppando la dottrina del maestro sul piano psicologico, servendosi dell'opera del Galtier.
Egli portava alle ultime conseguenze queste teorie, affermando che Cristo, come « homo assumptus », gode di perfetta autonomia nella sua attività, come se non fosse unito ipostaticamente al Verbo.
C'è in lui, a suo parere, un'unica coscienza, quella umana, e un unico io in cui essa si esprime: l'io umano che unico risuona nei Vangeli.
Perciò l'« homo assumptus » è una personalità psicologica distinta da quella del Verbo: non è solo qualche cosa, ma qualcuno.
Lo scritto audace del Padre Seiller il 27 Giugno 1951 con decreto del S. Ufficio veniva posto nell'indice dei libri proibiti.
20 - Già prima però era insorto contro le teorie psicologiche del Seiller e del Galtier Mons. Pietro Parente, il quale con impegno diuturno sostenne una tesi diametralmente opposta a quella del P. Galtier: « La persona come è principio di unità ontologica in base all'essere, così è principio di unità psicologica in base all'operare.
Tanto la natura quanto la persona sono principii operativi; ma mentre la natura è la fonte [ principium quo ] dell'attività, la persona è l'agente [ principium quod ].
Alla persona spetta l'egemonia dinamica di tutta l'attività che scaturisce dalla natura.
Possiamo dire che la funzione dinamica della persona è sulla linea della causalità efficiente, mentre quella della natura è piuttosto sulla linea della causalità formale » ( P. PARENTE, L'Io di Cristo, Brescia, 1955, p. 357 s. ).
Dato quindi che l'umanità assunta costituisce lo « strumento congiunto » del Verbo, questi « assolve nella natura assunta la funzione dinamica propria della persona in qualsiasi natura intellettuale » ( ibid. ).
In base a tali premesse Mons. Parente ritiene che il Verbo entri nella sfera psicologica umana, per assolvere nel Cristo le funzioni proprie della persona.
L'autocoscienza umana del Cristo nel suo ripiegamento riflessivo non può non avvertire che l'umanità sua « esiste e opera in virtù di un Altro, cioè in dipendenza dal Verbo » ( ibid. p. 375 ).
E così l'unico io psicologico di Cristo viene a coincidere con l'unico io ontologico.
Siamo costretti a riferire così per sommi capi questa dottrina, che in forma abbastanza sintetica è stata esposta dall'autore citato in Problemi e Orientamenti di Teologia Dogmatica ( Milano, 1957, Il, pp. 345-69 ).
Le discussioni che essa ha provocato tra i teologi nel decennio 1950-1960 sono state davvero interessanti: ma per riassumerle bisognerebbe avere a disposizione l'intero volume.
Rimandiamo perciò i nostri lettori, per una informazione sommaria, all'opera di Mons. A. PIOLANTI, Dio Uomo ( Roma, 1964, pp. 216 ss. ).
Quest'ultimo tenta in fine per conto proprio, sulla linea tracciata da Mons. Parente, un bilancio della discussione e un ripensamento del problema.
Il bilancio si articola nella definizione degli elementi relativi al problema dell'io di Cristo ( « unità psicologica », « determinazione qualitativa dell'Io-Uno di Cristo », « espressione umana della realtà e contenuto divino » ); nella impostazione del problema psicologico; nella definizione del concetto di coscienza; nella precisazione dei rapporti tra attività e persona ( op. cit., pp. 249-57 ).
21 - È stato fatto notare rispettosamente a Mons. Piolanti che non tutto è chiaro e risolutivo nella sua impostazione.
« Merita l'incondizionato consenso » scrive il P. S. Deandrea, « la posizione del problema prospettata da Mons. Piolanti, secondo la quale si deve partire non dalla natura e dalla coscienza, ma dalla persona.
È infatti questo l'unico modo che consenta di evitare il pericolo di ipostatizzare la natura.
Però confessiamo, che non sarebbero stati inutili né superflui ulteriori chiarimenti e più precise delucidazioni sul punto più interessante, e anche più delicato della questione : quello del concetto di coscienza » ( « Dio uomo », in Angelicum, 1965, p. 347 ).
Sembra anche a noi che per risolvere il problema si debba studiare direttamente la fenomenologia dell'atto coscienziale; perché da esso soltanto si può desumere il concetto esatto di coscienza.
Ebbene per portare un piccolo contributo a una simile ricerca sulla complessa psicologia del Cristo, vogliamo soffermarci a ricostruire, in base al pensiero tomistico, quello che dovrebbe essere il funzionamento della sua autocoscienza.
22 - La ricerca contemporanea sull'autocoscienza secondo l'Aquinate prende le mosse dall'opera ormai classica del P. A. GARDEIL, La structure de l'ome et l'esperience mystique; e ad essa si richiamano sia il Galtier che il Parente.
Ma si ha la netta impressione che questi studiosi si siano fermati alle discusse posizioni del P. Gardeil, ignorando le critiche del tomismo più rigoroso, le quali costrinsero il dottissimo Padre a un « examen de conscience » ( vedi II ev. Thom. 1928, pp. 156- 180 ).
Il rimprovero più grave fatto al P. Gardeil fu quello di aver attribuito a S. Tommaso l'autocoscienza intellettiva senza dipendere dall'oggetto ricevuto attraverso i sensi.
Per attribuire all'Aquinate un'autocoscienza immediata, cioè Indipendente dalla previa cognizione degli oggetti esterni e da una specie intenzionale, avuta attraverso i sensi, si adducono specialmente i testi celeberrimi del De Ventate, q. 10, a. 8 i Sent. d. 3, q. 4, a. 6.
Ora, come noi stessi abbiamo avuto modo di dimostrare in un articolo sull'argomento, certe espressioni di queste opere giovanili, pur non essendo mai state ritrattate espressamente dall'Autore, vanno però corrette in base alle opere della maturità.
È vero infatti che nelle Sentenze S. Tommaso ammette in maniera esplicita un « intuito semplice », che si riduce alla sola « presenza dell'intelligibile all'intelletto in qualsiasi maniera ».
E, in forza di tale presenza, all'anima viene concessa la coscienza di se medesima, indipendentemente dal processo astrattivo della cognizione intellettiva umana.
La stessa concezione troviamo nel passo citato del De Veritate, dove all'anima si riconosce la capacità suddetta: « Mens, antequam a phantasmatibus abstrahat, sui notitiam habitualem habet qua possit percipere se esse » ( De Venit., q. 10, a. 8, ad 1 ).
Viene così concessa all'anima l'autopercezione immediata, allo stato embrionale di abito più che di atto; limitando ulteriormente questa percezione alla sola conoscenza di se stessi quanto all'esistenza ( quod est ), ed escludendo la conoscenza quidditativa ( quid est ), ossia la cognizione della stessa natura dell'anima o dell'intelligenza.
Ma non va dimenticato che il Dottore Angelico faceva qui delle concessioni alla psicologia agostiniana, per riscontrare nell'anima l'immagine continua della Trinità anche nello stato di quiete.
Invece nella Somma Teologica questa concessione è formalmente negata: « Quia connaturale est intellectui nostro, secundum statum praesentis vitae, quod ad materialia et sensibilia respiciat … consequens est ut sic seipsum intelligat intellectus noster, secundum quod flt actu per species a sensibilibus abstractas …
Non ergo per essentiam suam, sed per actum suum se cognoscit intellectus noster » ( I, q. 87, a. 1 ).
23 - Né possiamo accettare a occhi chiusi la concessione iniziale, secondo il pensiero di S. Agostino, che riscontriamo in I, q. 93, a. 7, ad 4.
Infatti a quella concessione iniziale segue la soluzione ben più gradita all'Autore: « Quamvis dici possit, quod [ anima ] percipiendo actum suum seipsam intelligit, quandocumque aliquid intelligit ».
Perciò noi consideriamo inaccettabile questa conclusione del Parente: « Possiamo concludere che S. Tommaso adotta fondamentalmente il concetto agostiniano della presenza abituale dell'anima a se stessa, ma tenta in tutti i modi di metterla d'accordo con la posizione aristotelica » ( op. cit., p. 262 ).
Noi pensiamo che S. Tommaso, per la logica del sistema, sia costretto a ripudiare la posizione agostiniana, pur facendo delle concessioni verbali.
Perciò non ci sembra accettabile dal suo punto di vista una coscienza concepita come « una qualità immanente degli atti conoscitivi è, « che derivi solo ex parte subiecti e riguardi solo il soggetto e gli atti del soggetto » ( PIOLANTI, op. cit., p. 252 ).
Nella nostra introduzione al vol. VI, abbiamo cercato di spiegare come si debba intendere tomisticamente la percezione che l'intelletto umano ha di se stesso, derivandolo dalla conoscenza di qualsiasi oggetto.
Si deve partire, dicevamo, dalla « plurivalenza » della specie intenzionale.
L'idea infatti di una qualsiasi realtà esterna non serve soltanto a presentare un dato oggetto all'intelligenza umana: serve anche a porre in atto questa facoltà e questo individuo.
Il soggetto passa in tal modo da uno stato potenziale a uno stato attuale.
Ora, questa attualità rende conoscibile in atto e la facoltà e il soggetto conoscente.
Mentre penso, io so di pensare.
Ma perché io pensi in modo esplicito a me stesso sarà necessaria forse una nuova specie intenzionale, diversa da quella che mi presenta l'oggetto esterno che occupa la mia mente?
Per S. Tommaso la nuova specie non è necessaria.
Basta la sola specie di quell'oggetto per raggiungere, con le sue molteplici intentiones, e l'idea come tale, cioè l'atto stesso del conoscere, e l'intelletto, e il soggetto pensante.
- Stando rigorosamente alla terminologia scolastica, diremo che basta un'unica specie impressa, per suscitare all'occorrenza una molteplicità di specie espresse.
24 - Ma per quanto riguarda la psicologia del Cristo è interessante il quesito seguente: nell'atto della riflessione, o del ripiegamento dell'intelligenza umana verso i dati soggettivi, qual'è il primo di questi dati? l'atto, la facoltà, o il soggetto?
Noi pensiamo che il problema, da buoni tomisti, si debba risolvere a favore del soggetto, ossia del supposito sussistente, perché oggetto primano dell'intelletto è l'ente; e il primo ente ad essere conosciuto dall'intelligenza umana non è l'accidente ma la sostanza.
Scrive infatti S. Tommaso: « Come gli altri predicamenti non hanno l'essere, se non per questo, che hanno come soggetto la sostanza, così non hanno le possibilità di esser conosciuti, se non in quanto partecipano in qualche modo della cognizione della sostanza » ( cfr. In 7 Metaphys., lect. 1, n. 1259 ).
Questo è vero per la conoscenza degli oggetti esterni, ma non è meno vero per la conoscenza che il soggetto ha di se stesso con la riflessione.
Il primo dato, quindi, della nostra coscienza intellettiva è l'io: non perché la persona sarebbe, come dice Mons. Parente, il principio o causa efficiente del nostro operare ; ma semplicemente perché tra i dati soggettivi della conoscenza è l'essere sostanziale, l'ente per sé, la sostanza prima, già implicita nell'atto conoscitivo primigenio, che emerge distintamente al primo moto di riflessione.
A detta di S. Tommaso, questa prima cognizione raggiunge poco più che la sola conoscenza dell'atto esistenziale del soggetto medesimo, dando la possibilità di rispondere con sicurezza alla sola quaestio an sit ( cfr. De Verit., q. 10, a. 8 ).
Ma non si può mai escludere un minimo di conoscenza quidditativa del soggetto medesimo: innanzi tutto la propria unità pur nella molteplicità dei suoi componenti.
25 - Applicando questi dati della psicologia all'Uomo-Dio, diremo che nella forma più elementare di conoscenza umana attribuitagli dai teologi, cioè mediante la scienza acquisita o sperimentale, egli percepiva per riflessione, come ogni altro uomo, l'unità del supposito, che esprimeva nell'io cosciente.
Ciò non significa che percepisse per questa via il contenuto essenziale di codesto io.
Come del resto non lo percepiamo noi mediante la prima e immediata riflessione.
Chi di noi infatti conosce per riflessione, di primo acchito, l'essenza o natura specifica dell'anima propria?
- La riflessione della scienza acquisita e sperimentale afferra il soggetto nei suoi dati generici: è imprecisa quindi perché generica; ma non perché falsa.
Perciò anche nel Cristo questa riflessione squisitamente umana e connaturale portava alla percezione generica di un unico essere sussistente, non già della sola sua natura umana, come vuole il P. Galtier, il quale partiva dal preconcetto che il supposito divino non è sperimentabile.
Qui infatti non si tratta di sperimentare la qualifica del soggetto, ma il soggetto come tale.
Ora l'io cosciente in Cristo deve emergere unico sotto le due nature, se non vogliamo negare al suo intelletto umano una perfezione riconosciuta a qualsiasi intelletto: quella di adeguarsi alla realtà almeno nella semplice apprensione.
Tutti i buoni tomisti infatti non troveranno nessun imbarazzo a riconoscere che nel concetto genericissimo e analogico di ente rientra anche la divinità, senza pretendere affatto di raggiungere per questo l'intuizione di Dio.
26 - Il discorso sui contenuti specifici dell'io è molto più complesso, sia per l'uomo in genere, come per Cristo.
Rispondere alla domanda: Io chi sono? non dipende solo dalla presenza di un intelletto funzionante, ma dalle perfezioni accidentali di codesto intelletto, cioè dal suo intuito raffinato, dagli abiti o virtù intellettive.
Analogamente dobbiamo pensare che in Cristo la perfetta coscienza dell'io derivasse dai vari abiti della scienza acquisita, che si acuisse quindi mediante la scienza infusa, e si completasse mediante la scienza beatifica.
E in questa complessità di doti eccezionali che si muove la ricostruzione tomistica dell'io psicologico di Cristo, cioè di quell'io che ascoltiamo attraverso le pagine del Vangelo.
Non staremo qui a ripetere i motivi per cui S. Tommaso, in pieno accordo con la tradizione patristica, attribuisce a Cristo la scienza infusa e la scienza beatifica.
I nostri lettori non hanno per questo altro sforzo da fare che aprire il volume presente alle qq. 9-11.
Stando a questi dati psicologici così particolari, diremo che per quanto riguarda la coscienza del proprio Io, Cristo poteva avere un approfondimento sublime del suo valore intrinseco mediante la scienza infusa.
Infatti tale scienza, che è caratteristica degli spiriti disincarnati, attua talmente l'anima che la possiede da renderla perfettamente autocosciente, non solo per conoscere quod est, ma per sapere esattamente quid est ( cfr. I, q. 55, a. 1, ad 2; q. 89, aa. 1,2 De Spirit. Creat., a. 1, ad 12 ; De Verit., q. 8, a. 6 ).
27 - Ma la scienza infusa è d'ordine naturale, anche se, accordata a un uomo viatore, possa considerarsi un dono preternaturale.
Perciò con essa il Cristo non poteva raggiungere il supposito divino, se non in maniera indistinta e confusa: analoga a quella con la quale l'angelo conosce Dio mediante la scienza vespertina, « qua cognoscit Verbum per eius similitudinem in sua natura relucentem » ( I, q. 62, a. 1, ad 3; cfr. ibid. q. 58, a. 6, e 11. pp. ).
Con essa l'intelletto umano del Cristo poteva solo scorgere la necessità di attribuire il complesso delle opere compiute da Dio nell'anima di lui a un supposito d'ordine superiore.
In tutti i modi va esclusa per questa via la diretta intuizione del Verbo.
Tale conoscenza può derivare solo dalla luce della gloria, cioè della scienza beatifica.
E quindi come tomisti, in parte almeno, possiamo essere d'accordo col P. Galtier, il quale trova lì nella scienza beata del Cristo il mezzo conoscitivo più perfetto per completare l'unità psicologica dell'Uomo Dio.
Poiché mediante la scienza dei beati l'anima gode della luce stessa di Dio, vede l'essenza divina: e quindi l'intelletto creato del Cristo s'incontra realmente in perfetta luce con la sua realtà increata.
Ma non possiamo accettare dal suddetto autore la tendenza ad ipostatizzare i vari tipi di scienza creata attribuiti a Cristo.
Anche qui S. Tommaso ripeterebbe quanto dice a proposito delle facoltà conoscitive naturali dell'uomo: « Propriamente parlando non è il senso o l'intelletto che conosce, ma l'uomo per mezzo dell'uno e dell'altro » ( De Verit., q. 2, a. 6, ad 3 ).
Qui noi diremo: « Non è la scienza sperimentale, o quella infusa, o quella beatifica a intendere, ma Cristo mediante tutte codeste scienze ».
Ipostatizzando tali scienze si corre il rischio alla fine di ipostatizzare la natura umana del Cristo, tornando indietro di molti secoli, cioè alla cristologia nestoriana.
Non intendiamo negare con questo alla natura assunta una certa autonomia nel suo operare; ma per intenderla non bisogna mai dimenticare il suo stato di unione.
« Col riconoscere [ tale autonomia ] », dice giustamente il Rev.mo P. L. Ciappi, « non si vuol fare di tale natura un agente indipendente che operi per proprio conto, ma si intende semplicemente constatare che, malgrado il suo stato d'unione al Verbo, la natura umana conserva tutte le sue spontanee energie vitali e psicologiche.
Attraendole nell'orbita del suo essere personale, il Verbo le ha fatte sue ed è perciò che una tale psicologia, propriamente umana è divenuta nel modo più reale la sua stessa psicologia.
L'intimità di questa unione non fu un mistero per la coscienza umana di Cristo, illuminata dalla visione beatifica; come invece lo è per noi l'intima costituzione della nostra personalità.
Dal primo istante della sua concezione, Cristo, anche mediante la coscienza umana che gli era propria, ebbe piena consapevolezza e della sua divinità e della sua umanità.
Consapevolezza, che impedì alla natura umana di attribuirsi una propria personalità, vedendosi unita sostanzialmente al Figlio di Dio » ( in Sapienza, 1952, p. 94 ).
L'Aquinate era ben lontano dal pensare che si potesse considerare esaurito l'argomento, scrivendo con somma cura il suo trattato teologico su Cristo.
Anzi, fin dal secondo articolo della q. 1, dopo aver raccolto dalla tradizione cristiana i motivi di convenienza e i vantaggi dell'incarnazione, si era sentito in dovere di concludere: « Ci sono poi moltissimi altri vantaggi derivati dall'incarnazione al di sopra della comprensibilità umana ».
Ma anche entro i limiti della nostra comprensione è evidente che la Somma Teologica presenta il Cristo e la sua opera dal punto di vista della sola teologia sistematica; mentre è possibile considerarlo dal punto di vista apologetico.
Ecco perché gli studi moderni sulla cristologia, per quanto numerosissimi, sono tutt'altro che superflui.
La figura storica di Gesù Nazzareno balza viva dai mille particolari concreti, che l'erudizione filologica ed archeologica riesce a precisare e ad accertare faticosamente giorno per giorno.
E per quanto possano essere sublimi le considerazioni della teologia medioevale, noi moderni non sapremmo rinunziare ormai ai risultati dell'indagine positiva, che nelle biografie più aggiornate ci rende familiare l'esperienza umana del Cristo.
Così non sapremmo rinunziare facilmente ai trattati di apologetica, i quali discutono ampiamente ed espressamente le ragioni che rendono credibile la divinità di nostro Signore Gesù Cristo.
Ma i grandi trattati apologetici sono tutti posteriori a S. Tommaso.
Perciò oggi nessun tomista sogna di chiudersi entro le cinquantanove questioni della Terza Parte per una conoscenza approfondita della cristologia.
La produzione moderna sull'argomento presenta però, nella sua esuberanza, il problema della scelta.
Ebbene noi siamo persuasi che una profonda meditazione dei testi tomistici sarà un'ottima preparazione per maturare i criteri dai quali deve scaturire una cernita giudiziosa e sicura.
P. TITO S. CENTI O. P.
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