Catechismo Tridentino |
Essendo notissime la debolezza e fragilità della natura umana, come ciascuno può facilmente sperimentare in se stesso, nessuno può disconoscere la grande necessità del sacramento della Penitenza.
Che se lo zelo dei Pastori si deve misurare dall'importanza della materia da loro trattata, bisogna concludere che essi non saranno mai abbastanza zelanti nello spiegare questo argomento.
Anzi, con tanto maggior diligenza si dovrà trattare di questo in confronto col Battesimo, in quanto il Battesimo si somministra una sola volta, né si può reiterare; mentre la Penitenza si può ricevere ed è necessario riceverla ogni volta che ci avvenga di ricadere nel peccato dopo il Battesimo.
Perciò il concilio di Trento ha detto che il sacramento della Penitenza è cosi necessario per la salvezza di coloro che sono caduti in peccato dopo il Battesimo, come questo è necessario a quelli che non sono ancora rigenerati alla fede ( Sess. 14, cap. 2 ).
San Girolamo ha scritto quella notissima sentenza, approvata pienamente da quelli che hanno scritto di questo argomento sacro dopo di lui, che la Penitenza è la seconda tavola di salvezza ( In Is 3,8 ).
Come, infranta la nave, rimane una sola via di scampo, quella cioè di aggrapparsi a una tavola scampata al naufragio, cosi un volta perduta l'innocenza battesimale, se non si ricorre alla tavola della Penitenza, non v'è speranza di salvezza.
Queste considerazioni si rivolgono non solo ai Pastori ma a tutti i fedeli, affinché in materia cosi necessaria non pecchino di negligenza.
Convinti dell'umana fragilità, il loro primo e più ardente desiderio sia di camminare nella via di Dio, col soccorso della sua grazia, senza inciampi né cadute.
Ma se inciampassero, considerando subito la somma benignità di Dio, che da buon Pastore cura le ferite delle sue pecorelle e le risana ( Ez 34,16 ), ricorreranno senza indugio a questa saluberrima medicina della Penitenza.
Per entrare subito in materia, spieghiamo innanzi tutto il valore e il significato del termine penitenza, per evitare che alcuno sia indotto in errore dall'ambiguità del vocabolo.
Taluni intendono penitenza come soddisfazione; altri, ben lontani dalla dottrina Cattolica, la definiscono una nuova vita, ritenendo che non abbia alcuna relazione col passato.
Bisogna adunque chiarire i significati di questo vocabolo.
Innanzi tutto diciamo che prova pentimento ( o penitenza ) chi si rammarica di una cosa, che prima gli era piaciuta, a parte la considerazione se fosse buona o cattiva.
Tale è il pentimento di coloro la cui tristezza è di carattere mondano, e non secondo Dio; pentimento che arreca non la salute, ma la morte ( 2 Cor 7,10 ).
Altra specie di pentimento è quello di coloro che si dolgono di un misfatto commesso e di cui si erano compiaciuti non per riguardo di Dio ma di se stessi ( Mt 27,3 ).
Una terza specie si ha quando non solo ci addoloriamo con intimo sentimento del peccato commesso, o ne mostriamo anche, qualche segno esterno, ma ci rammarichiamo principalmente per l'offesa di Dio ( Gl 2,12 ).
A tutte e tre queste specie di dolore conviene propriamente il nome di penitenza; quando invece leggiamo nella Scrittura che Dio si pente, tale parola ha un valore metaforico, adattato alla maniera umana di parlare, che la Scrittura adopera come per dire che Dio ha mutato divisamente.
Infatti in questo caso Dio sembra quasi agire alla maniera degli uomini, che, quando si pentono di qualche cosa, cercano con ogni studio di mutarla.
In questo senso leggiamo che Dio si penti di avere creato l'uomo ( Gen 6,6 ) e di aver eletto re Saul ( 1 Sam 15,11 ).
Ma v'è una grande diversità tra queste tre specie di penitenza.
La prima è difettosa, la seconda è l'afflizione di un animo commosso e turbato, solo la terza è nello stesso tempo una virtù e un sacramento; e di questa propriamente qui si tratta.
Trattiamo prima di tutto della penitenza in quanto è una virtù, non solo perché il popolo deve essere dai suoi Pastori istruito intorno a ogni genere di virtù, ma anche perché gli atti di questa virtù offrono la materia riguardante il sacramento della Penitenza; sicché, se non si conosce prima bene che cosa sia la virtù della penitenza, si dovrà necessariamente ignorare l'efficacia di questo sacramento.
Bisogna adunque esortare dapprima i fedeli a fare ogni sforzo per raggiungere quella interiore penitenza dell'anima che noi chiamiamo virtù e senza la quale la penitenza esteriore riuscirà di ben poco giovamento.
La penitenza interna è quella per la quale noi con tutto l'animo ci convertiamo a Dio e detestiamo profondamente i peccati commessi, proponendo insieme fermamente di emendare le nostre cattive abitudini e i costumi corrotti, fiduciosi di conseguire il perdono dalla misericordia di Dio.
Si associa a questa penitenza, come compagna della detestazione del peccato, una dolorosa tristezza che è una vera affezione emotiva dell'animo e da molti viene chiamata passione.
Perciò parecchi santi Padri definiscono la penitenza partendo da un cosi fatto tormento dell'anima.
É tuttavia necessario che nel pentito la fede preceda la penitenza, perché nessuno può convertirsi a Dio senza la fede.
Da ciò segue che a ragione non si può dire che la fede sia una parte della penitenza.
Che questa interiore penitenza sia una virtù, come abbiamo detto, è chiaramente dimostrato dai molti precetti che la riguardano ( Mt 3,2; Mt 4,17; Mc 1,4; Mc 1,15; Lc 3,3; At 2,38 ).
Poiché la legge ordina solo quegli atti che si esercitano mediante la virtù.
Del resto nessuno vorrà negare che sia atto di virtù il dolersi nel tempo, nel modo e nella misura opportuna.
E tutto questo ce lo insegna a dovere la virtù della penitenza.
Spesso avviene infatti che gli uomini non si pentano dei peccati quanto dovrebbero; che anzi vi sono taluni, a detta di Salomone, che si rallegrano del male commesso ( Pr 2,14 ); mentre vi sono altri che se ne affliggono cosi amaramente, da disperare di salvarsi.
Tale sembra essere stato il caso di Caino che esclamò:Il mio peccato è più grande del perdono di Dio ( Gen 4,13 ); e tale fu certamente quello di Giuda, il quale pentito, appendendosi al laccio, perdette insieme la vita e l'anima ( Mt 27,3; At 1,18 ).
La virtù della penitenza ci aiuta pertanto a conservare la giusta misura nel nostro dolore.
Il medesimo si deduce anche da quanto si propone come fine chi davvero si pente del peccato.
Questi, infatti, prima vuol cancellare la colpa e lavare tutte le macchie dell'anima; secondo, vuol dare soddisfazione a Dio per i peccati commessi; il che è evidentemente un atto di giustizia.
Poiché, sebbene tra Dio e gli uomini non possano esserci rapporti di vera e rigorosa giustizia, dato l'infinito abisso che li separa, pure taluno ve n'è, nel genere di quelli che si verificano tra padre e figli, tra padrone e servi; terzo, delibera di ritornare in grazia di Dio, nella cui inimicizia e disgrazia era caduto per motivo del peccato.
Tutto ciò chiaramente mostra che la penitenza è una virtù.
Importa anche insegnare ai fedeli attraverso quali gradini possiamo progredire in questa divina virtù.
Innanzi tutto la misericordia di Dio ci previene e converte a sé i nostri cuori.
Questo domandava al Signore il profeta quando implorava: Convertici a te, o Signore, e saremo convertiti ( Lam 5,21 ).
Secondo: illuminati da questa luce, ci rivolgiamo a Dio sulle ali della fede, poiché, come afferma l'Apostolo, chi si accosta a Dio deve credere che Dio esiste e che è il rimuneratore di quelli che lo cercano ( Eb 11,6 ).
Terzo: segue il senso del timore, quando l'anima, considerando l'atrocità delle pene, si ritira dal peccato.
A questo sembrano riferirsi le parole di Isaia: Come una donna incinta, prossima al parto, si lagna e grida fra le sue doglie, tali siamo noi ( Is 26,17 ).
Quarto: si aggiunge la speranza di impetrare la misericordia di Dio, sollevati dalla quale, risolviamo di emendare la vita e i costumi.
Quinto: finalmente la carità infiamma i nostri cuori, e da essa scaturisce quel filiale timore che degnamente conviene a figli probi e assennati.
Per essa, non temendo più che l'offesa della maestà di Dio, abbandoniamo del tutto l'abitudine del peccato.
Questi sono i gradi attraverso i quali si giunge alla più sublime virtù della penitenza, che agli occhi nostri deve apparire tutta celeste e divina.
Infatti la sacra Scrittura le promette il regno dei cieli, come si legge in san Matteo: Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino ( Mt 3,2; Mt 4,17 ); e in Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di tutti i peccati commessi e custodirà tutti i miei precetti, operando secondo il diritto e la giustizia, vivrà ( Ez 18,21 ); e ancora: Non voglio la morte dell'empio, ma che si converta dalla sua via e viva ( Ez 33,11 ).
Le quali parole devono evidentemente riferirsi alla vita eterna e beata.
Circa la penitenza esteriore si deve insegnare che essa costituisce propriamente il sacramento e consiste in talune azioni esterne e sensibili, che esprimono quello che avviene nell'interno dell'anima.
Innanzi tutto si deve spiegare ai fedeli perché Gesù Cristo ha messo la Penitenza nel novero dei sacramenti.
Ciò è perché non avessimo più a dubitare della remissione dei peccati, da lui promessa con le parole citate: Se l'empio farà penitenza, ecc.
Poiché se giustamente ciascuno deve temere del proprio giudizio sulle sue azioni, di necessità saremmo stati condotti a dubitare del nostro pentimento interiore.
Ma il Signore, volendo rimediare a questa nostra ansietà, ha istituito il sacramento della Penitenza, per il quale, in virtù dell'assoluzione del sacerdote, noi fossimo certi della remissione dei nostri peccati, e la coscienza si calmasse in grazia della fede che dobbiamo avere nella virtù dei sacramenti.
La parola del sacerdote che legittimamente assolve dai peccati avrà per noi lo stesso valore di quella che Gesù Cristo disse al paralitico: Confida figliuolo, che i tuoi peccati ti sono rimessi ( Mt 9,2 ).
Inoltre poiché nessuno può conseguire la salvezza se non per Cristo e per i meriti della sua passione, era conveniente e assai utile per noi che venisse istituito questo sacramento per la cui efficacia il sangue di Cristo, scorrendo su di noi, lava i peccati commessi dopo il Battesimo, e ci obbliga cosi a riconoscere che soltanto al nostro divino Salvatore dobbiamo il beneficio della riconciliazione.
Che la Penitenza sia un vero sacramento i Parroci lo dimostreranno facilmente cosi: come è un sacramento il Battesimo, perché cancella tutti i peccati e specialmente quello originale, cosi lo è pure in senso pieno la Penitenza che toglie tutti i peccati commessi, o col desiderio, o con l'opera dopo il Battesimo.
Di più ( e questo è l'argomento principale ), siccome gli atti esterni del penitente e del sacerdote indicano quel che avviene nell'interno dell'anima, chi vorrà negare che la Penitenza abbia vera e propria natura di sacramento?
Il sacramento infatti è il segno di una cosa sacra: ora, il peccatore pentito esprime chiaramente con le parole e con gli atti di avere distaccato l'animo dal peccato.
D'altra parte, dalle parole e dagli atti del sacerdote, facilmente rileviamo la misericordia di Dio che perdona quei peccati.
Del resto, una prova chiara l'abbiamo nelle parole del Salvatore: Darò a te le chiavi del regno dei cieli; qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli ( Mt 16,19 ).
L'assoluzione pronunciata dal sacerdote esprime la remissione dei peccati che essa produce nell'anima.
Ma non basta insegnare ai fedeli che la Penitenza è un sacramento: occorre aggiungere che è uno di quelli che si possono ripetere.
Infatti quando Pietro domandò al Signore se doveva perdonare fino a sette volte un peccato, si ebbe per risposta: Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette ( Mt 18,22 ).
Pertanto, qualora si abbia a trattare con uomini che sembrino diffidare della somma bontà e clemenza di Dio, dovrà il loro animo esser rafforzato e sollevato alla speranza della grazia divina.
Ciò sarà facile, illustrando questo ed altri passi numerosi della sacra Scrittura, e, insieme, allegando quei motivi e quelle argomentazioni, che si trovano nel trattato Sui caduti in peccato, di san Giovanni Crisostomo e in quello Sulla Penitenza, di sant'Agostino.
Ma poiché il popolo deve conoscere meglio di ogni altra cosa, la materia di questo sacramento, si dovrà insegnare che esso differisce dagli altri sopratutto perché, mentre la materia degli altri è qualche cosa di naturale, o di artificiale, della Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente: cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, com'è stato dichiarato dal concilio di Trento ( Sess. 14, Della Penit. Cap. 3 e can. 4 ).
Codesti atti vengono detti parti della Penitenza, in quanto si esigono per divina istituzione, nel penitente, per ottenere l'integrità del sacramento e una piena e perfetta remissione dei peccati.
Son detti: quasi materia non perché non abbiano ragione di vera materia, ma perché non sono di quel genere di materia che esteriormente si adopera, come l'acqua nel Battesimo e il crisma nella Confermazione.
Né, a intender bene, hanno affermato cosa diversa coloro, che hanno detto essere i peccati la materia propria di questo sacramento: perché, come diciamo che le legna sono materia del fuoco, perché dal fuoco sono consumate, cosi a buon diritto possiamo dire che i peccati sono materia della Penitenza, perché dalla Penitenza vengono cancellati.
Né dovranno i Pastori tralasciar di spiegare la forma del sacramento, perché questa conoscenza ecciterà gli animi dei fedeli a riceverne con gran devozione la grazia che gli è propria.
La forma è la seguente: " Io ti assolvo ", come si ricava non solo da quelle parole: Quanto scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo ( Mt 18,18 ), ma anche dall'insegnamento di Gesù Cristo tramandatoci dagli Apostoli.
E poiché i sacramenti significano quel che operano, le parole " Io ti assolvo ", mostrano che la remissione dei peccati avviene mediante l'amministrazione di questo sacramento.
É chiaro dunque che questa è la forma perfetta della Penitenza, in quanto i peccati sono quasi lacci che tengono avvinte le anime, e da cui si liberano col sacramento della Penitenza.
Si noti anzi che il sacerdote pronunzia con eguale verità la forma anche su di un penitente che, mosso da contrizione perfetta, accompagnata dal desiderio di confessarsi, abbia già ottenuto da Dio il perdono dei peccati.
Si aggiungono a queste parole varie preghiere, non necessarie alla forma del sacramento, ma dirette ad allontanare tutto ciò che potrebbe impedirne la virtù e l'efficacia per difetto di chi lo riceve.
Grazie infinite rendano dunque i peccatori a Dio che ha conferito ai suoi sacerdoti una cosi ampia potestà nella Chiesa.
Oggi i sacerdoti non hanno soltanto il potere di dichiarare il penitente assolto dai peccati, come quelli del vecchio Testamento che si limitavano a testificare che il lebbroso era guarito dal suo male ( Lv 13,9 ), ma lo assolvono veramente, come ministri di Dio il quale opera lui stesso principalmente, essendo autore e padre della grazia e della giustizia.
I fedeli osserveranno con cura anche i riti propri di questo sacramento.
Cosi avranno più altamente scolpito nell'animo ciò che hanno conseguito in questo sacramento: la riconciliazione, cioè, di loro, servi, con un Padrone clementissimo; o piuttosto, di figlioli, con un ottimo Padre; e comprenderanno meglio quel che convenga fare a coloro che vogliono ( e tutti devono volerlo ) mostrarsi grati e memori di tanto beneficio.
Colui che si pente dei peccati, si getta con animo umile e dimesso ai piedi del sacerdote, per riconoscere, mentre compie quest'atto di umiltà, che si devono estirpare le radici della superbia, da cui hanno principio e origine tutti quei peccati che piange e detesta.
Nel sacerdote, che siede come suo legittimo giudice, riconosce la persona e la potestà di Gesù Cristo, poiché il sacerdote nell'amministrare la Penitenza, come pure gli altri sacramenti, tiene il luogo di Cristo.
Dopo di che il penitente enumera tutti i suoi peccati, riconoscendo di meritare le pene più grandi ed acerbe, e ne domanda supplichevole il perdono.
In san Dionigi si trovano le più chiare testimonianze sull'antichità di tutte queste pratiche.
Ma nulla gioverà tanto ai fedeli e desterà in essi il vivo desiderio di appressarsi alla Penitenza, quanto la frequente spiegazione della sua utilità fatta dal Parroco; vedranno allora quanto giustamente si possa dire della Penitenza che se sono amare le sue radici, dolcissimi ne sono i frutti.
Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in grande amicizia.
Ne segue, massime negli uomini pii che la ricevono con santa devozione, una ineffabile pace e tranquillità di coscienza accompagnate da viva gioia spirituale.
Infatti non c'è colpa per quanto grave ed empia, che non si cancelli grazie alla Penitenza; e non una sola volta, ma molte e molte volte.
Al quale proposito cosi parla il Signore per bocca di Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, osserverà i miei precetti e praticherà il giudizio e la giustizia, vivrà e non morrà, né io mi ricorderò delle iniquità da lui commesse ( Ez 18,21 ).
E san Giovanni: Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedele e giusto, e ce li perdonerà ( 1 Gv 1,9 ).
E poco più oltre: Se taluno avrà peccato - si noti che non eccettua nessun genere di peccato -, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto, il quale è propiziazione per i nostri peccati; né solamente per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo ( 1 Gv 2,1.2 ).
E se leggiamo nella Scrittura che alcuni non hanno ricevuto misericordia da Dio, pur avendola caldamente implorata ( 2 Mac 9,13; Eb 12,17 ), ciò avvenne perché essi non erano pentiti di vero cuore dei loro misfatti.
Perciò quando occorrono nella Scrittura o nei Padri frasi che sembrano affermare che per alcuni peccati non c'è remissione ( 1 Sam 2,25; Mt 12,31; Eb 6,4; Eb 10,26 ), bisogna intenderle nel senso che il loro perdono è oltremodo difficile.
Come infatti una malattia viene detta insanabile quando il malato respinge l'uso della medicina, cosi c'è una specie di peccati che non si rimette né si perdona, perché rifugge dalla grazia di Dio che è il rimedio suo proprio.
In questo senso sant'Agostino ha scritto: Quando un uomo, giunto alla conoscenza di Dio per la grazia di Gesù Cristo, viola la carità fraterna e invidiosamente si agita contro la grazia stessa, la macchia di tale peccato è tanta che il peccatore non riesce a umiliarsi per domandarne perdono, sebbene i rimorsi lo obblighino a riconoscere e confessare il suo fallo ( Libr. I sul serm. del Sign. nel monte 22,73 e 74 ).
Ma per ritornare alla Penitenza, la sua efficacia nel rimettere i peccati le è in tal modo propria che senza di essa è impossibile non solo ottenere, ma neppure sperarne il perdono, essendo scritto: Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo ( Lc 13,3 ).
É vero che queste parole si applicano solo ai peccati gravi o mortali; ma anche i peccati più leggeri o veniali esigono la loro congrua penitenza.
Dice infatti sant'Agostino: Quella specie di penitenza che si fa ogni giorno nella Chiesa per i peccati veniali, sarebbe certo vana se detti peccati si potessero rimettere senza di essa.
Ma poiché in materia pratica non basta dare nozioni e spiegazioni generali, i Parroci cureranno di spiegare a parte quanto i fedeli devono sapere sulle doti di una vera e salutare penitenza.
Ora, questo sacramento, oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli altri sacramenti, contiene, come abbiamo già detto, tre elementi necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione e la soddisfazione.
Dice in proposito san Giovanni Crisostomo: La penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo cuore è la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande umiltà, ossia la salutare soddisfazione ( In Graz. p. 2, cap. 33, q. 5, dist. 1, e. 40 ).
Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione di un tutto.
Come il corpo umano è formato di molte membra, mani, piedi, occhi e simili, di cui nessuna potrebbe mancare senza imperfezione dell'insieme, che diciamo perfetto solo quando le possiede tutte, cosi la Penitenza risulta delle tre suddette parti in modo tale che, sebbene la contrizione e la confessione che giustificano il peccatore, siano le sole richieste assolutamente per costituirla, nella sua assenza essa rimane tuttavia imperfetta e difettosa, quando non include la soddisfazione.
Queste tre parti sono dunque inseparabili e cosi ben collegate tra loro, che la contrizione racchiude il proposito e la volontà di confessarsi e di soddisfare; la contrizione e la soddisfazione implicano la confessione; e la soddisfazione è la conseguenza delle altre due.
La ragione della necessità di queste tre parti è che noi offendiamo Dio in tre maniere: in pensieri, parole ed opere.
Perciò è giusto e ragionevole che noi, sottomettendoci alle chiavi della Chiesa, ci sforziamo di placare l'ira di Dio e di ottenere da lui il perdono dei peccati con quegli stessi mezzi adoperati per offendere il suo santissimo nome.
Vi è un'altra ragione.
La Penitenza è una specie di compenso dei peccati, che procede dalla volontà del peccatore; ed è stabilita dalla volontà di Dio, contro cui si è peccato.
Bisogna quindi da un lato che il penitente voglia dare questo compenso, e questo costituisce la contrizione; dall'altro, che egli si sottometta al giudizio del sacerdote il quale tiene il luogo di Dio, affinché si possa fissare una pena proporzionata alle colpe; ed ecco la necessità della confessione e della soddisfazione.
Ma poiché si devono insegnare ai fedeli la natura e la proprietà di ciascuna di queste parti, bisogna cominciare dalla contrizione e spiegarla con tanta maggior cura in quanto noi dobbiamo concepirla nel nostro cuore non appena i peccati commessi ci ritornano alla memoria, quando ne commettiamo dei nuovi.
Ecco come definiscono la contrizione i Padri del concilio di Trento: La contrizione è un dolore dell'animo e una detestazione del peccato commesso con il proposito di non più peccare per l'avvenire ( Sess. 14, c. 4 ).
Parlando più oltre della contrizione, aggiungono: Questo atto prepara alla remissione dei peccati, purché sia accompagnato dalla fiducia nella misericordia di Dio e dalla volontà di fare quanto è necessario per ben ricevere il sacramento della Penitenza.
Questa definizione fa ben comprendere ai fedeli che l'essenza della contrizione non consiste solo nel trattenersi dal peccare, nel risolvere di mutar vita, o nell'iniziare di fatto una vita nuova, ma anche e sopratutto nel detestare ed espiare le colpe della vita passata.
Questo è chiaramente provato dai gemiti dei Santi, che cosi spesso troviamo nei Libri sacri: Io sono stanco di piangere - dice Davide -, ogni notte spargo di lacrime il mio giaciglio.
Il Signore ha sentito la voce del mio pianto ( Sal 6,7-9 ).
E in Isaia: Ti darò conto, o Signore, di tutti gli anni miei, con l'amarezza dell'anima mia ( Is 38,15 ).
Queste parole, ed altre simili, sono l'espressione evidente di un odio profondo dei peccati commessi e di una detestazione della vita passata.
Dopo avere ben fissato che la contrizione è un dolore, bisogna avvertire i fedeli di non immaginarsi che esso debba esser esterno e sensibile.
La contrizione è un atto della volontà; e sant'Agostino attesta che il dolore accompagna la penitenza, ma non è la penitenza stessa ( Serm. CCCLI,1 ).
I Padri Tridentini hanno espresso col termine dolore la detestazione e l'odio del peccato commesso, sia perché la Scrittura lo usa cosi ( Fino a quando - dice Davide al Signore - terrò in ansia l'anima mia e il mio cuore in preda al dolore notte e giorno? ) ( Sal 13,2 ); sia perché il dolore nasce dalla contrizione in quella parte inferiore dell'anima che è sede delle passioni.
Non a torto, pertanto, è stata definita la contrizione come un dolore, perché produce appunto il dolore, ed i penitenti, per esprimere meglio il loro dolore, usavano mutare le vesti, come si ricava dalle parole del Signore: Guai a te, Corozain, guai a te, Betsaida; poiché se in Tiro e Sidone fossero avvenuti i miracoli compiuti presso di voi, già da gran tempo avrebbero fatto penitenza in cenere e cilizio ( Mt 11,21; Lc 10,13 ).
La detestazione del peccato di cui parliamo ha ricevuto giustamente il nome di contrizione per esprimere l'efficacia del dolore da essa provocato, per similitudine tratta dalle sostanze corporee: come queste si frantumano con un sasso o con altra materia più dura, cosi i cuori induriti dall'orgoglio sono spezzati dalla forza della penitenza.
Nessun altro dolore, che nasca per la morte del padre, della madre, dei figli, o per qualsiasi altra calamità, vien detto contrizione; ma soltanto quello che proviamo per aver perduto la grazia di Dio e l'innocenza.
Ci sono anche altri vocaboli atti ad esprimere questa detestazione.
Talora essa viene chiamata contrizione di cuore, perché la Scrittura scambia sovente il cuore con la volontà: come infatti il cuore è il principio dei movimenti del corpo, cosi la volontà regola e governa tutte le potenze dell'anima.
Talora i Padri la chiamano compunzione del cuore; e appunto cosi hanno intitolato i libri da loro scritti sulla contrizione.
Come si aprono col ferro chirurgico i tumori per farne uscire la materia purulenta, cosi con lo scalpello della contrizione si lacerano i cuori, affinché ne esca il veleno mortifero del peccato.
Anche Gioele chiama la contrizione una lacerazione del cuore, scrivendo: Convertitevi a me con tutto il vostro cuore nel digiuno, nel pianto, nei gemiti.
E lacerate i vostri cuori ( Gl 2,12 ).
Il dolore d'aver offeso Dio con i peccati deve essere veramente sommo e massimo, tale che non se ne possa pensare uno maggiore.
É facile dimostrarlo con le ragioni seguenti.
Poiché la perfetta contrizione è un atto di carità che procede dal timore filiale, ne segue che la misura della contrizione dev'essere la carità.
E siccome la carità con cui amiamo Dio è la più grande, ne segue che la contrizione deve portare con sé un veementissimo dolore di animo.
Se dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, dobbiamo anche detestare sopra ogni cosa ciò che da lui ci allontana.
E qui giova notare che la Scrittura adopera i medesimi termini per esprimere l'estensione della carità e della contrizione.
Dice infatti della carità: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore ( Dt 6,5; Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27 ); e della seconda il Signore dice per bocca del profeta: Convertitevi con tutto il vostro cuore ( Gl 2,12 ).
In secondo luogo, come Dio è il primo dei beni da amare, cosi il peccato è il primo e il maggiore dei mali da odiare.
Quindi, la stessa ragione che ci obbliga a riconoscere che Dio deve essere sommamente amato, ci obbliga anche a portare sommo odio al peccato.
Ora, che l'amore di Dio si debba anteporre ad ogni altra cosa, sicché non sia lecito peccare neppure per conservare la vita, lo mostrano apertamente queste parole del Signore: Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me ( Mt 10,37 ); Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà ( Mt 16,25; Mc 8,35 ).
Notiamo ancora che alla carità, secondo san Bernardo, non si può prescrivere né limite né misura, perché la misura di amare Dio è di amarlo senza misura ( Della dilezione di Dio, I ).
Perciò non si deve porre limite alcuno alla detestazione del peccato.
Oltre che massima, la contrizione dev'esser vivissima e cosi perfetta da escludere ogni negligenza e pigrizia.
Sta scritto nel Deuteronomio: Quando cercherai il Signore Dio tuo lo troverai, purché lo cerchi con tutto il cuore e tutto il dolore dell'anima tua ( Dt 4,29 ).
E in Geremia: Voi mi cercherete e mi troverete purché mi cerchiate con tutto il vostro cuore, perché allora io mi faro trovare da voi, dice il Signore ( Ger 29,13 ).
Ma quand'anche la contrizione non fosse cosi perfetta, può esser sempre vera ed efficace.
Poiché avviene spesso che le cose sensibili ci commuovono più delle spirituali, sicché taluni sentono per la morte dei figli, maggior dolore che per la turpitudine del peccato.
Il medesimo si dica quando l'acerbità del dolore non suscita le lacrime, le quali però nella Penitenza sono da desiderare e lodare assai, come ben dice sant'Agostino: Non hai viscere di carità cristiana tu, che piangi un corpo abbandonato dall'anima, e non piangi un'anima abbandonata da Dio ( Serm. XLI,6 ).
A questo si possono riferire le parole del Signore citate sopra: Guai a te, Corazain, guai a te, Betsaida; che se in Tiro e Sidone fossero avvenuti i miracoli compiuti presso di voi, da gran tempo avrebbero fatto penitenza in cenere e cilizio ( Mt 11,21 ).
A conferma di questa verità basti ricordare gli esempi famosi dei Niniviti ( Gn 3,5 ), di Davide ( Sal 6,7 ), della Maddalena ( Lc 7,37 ), del Principe degli apostoli ( Mt 26,75 ), i quali tutti implorarono con lacrime abbondanti la misericordia di Dio e ottennero il perdono dei peccati.
Sarà utile ammonire i fedeli ed esortarli nella maniera più efficace a esprimere un particolare atto di contrizione per ogni peccato mortale, poiché dice Ezechia: Io ti darò conto di tutti gli anni miei nell'amarezza dell'anima mia ( Is 38,15 ).
Dar conto di tutti gli anni significa ricercare uno ad uno tutti i peccati, per deplorarli dal fondo del cuore.
Leggiamo ancora in Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, vivrà ( Ez 18,21 ).
In questo stesso senso sant'Agostino ha detto: Il peccatore esamini la qualità del suo peccato secondo il luogo, il tempo, la specie e la persona ( Della vera e falsa pen. 14 ).
Ma i fedeli non disperino mai della bontà e clemenza infinita di Dio, il quale, bramoso com'è della nostra salute, non tarda mai ad accordarci il perdono.
Egli abbraccia con paterna carità il peccatore, appena questi, rientrato in se stesso, si ravvede, e, detestando in genere tutti i suoi peccati, si rivolge al Signore, purché intenda di ricordarli e detestarli ciascuno in particolare a tempo opportuno.
Dio stesso ci comanda di sperare, dicendo per bocca del suo Profeta: Non nuocerà all'empio la sua empietà, dal giorno in cui egli si sarà convertito ( Ez 33,12 ).
Da quanto abbiamo detto è facile dedurre le condizioni necessarie per una vera contrizione, condizioni che devono essere spiegate ai fedeli con la maggiore diligenza, affinché tutti sappiano con quali mezzi possano acquistarla, e abbiano una norma sicura per discernere fino a qual punto siano lontani dalla perfezione di essa.
La prima condizione è l'odio e la detestazione di tutti i peccati commessi.
Se ne detestassimo soltanto alcuni, la contrizione non sarebbe salutare, ma falsa e simulata, poiché scrive san Giacomo: Chi osserva tutta la legge e in una sola cosa manca, trasgredisce tutta la legge ( Gc 2,10 ).
La seconda è che la contrizione comprenda il proposito di confessarci e di fare la penitenza: cose di cui parleremo a suo luogo.
La terza è che il penitente faccia il proposito fermo e sincero di riformare la sua vita, come insegna chiaramente il Profeta: Se l'empio farà penitenza di tutti i peccati che ha commessi, custodirà tutti i miei precetti e osserverà il giudizio e la giustizia, vivrà; né mi ricorderò più dei peccati che avrà commesso.
E più oltre: Quando l'empio si allontanerà dalla empietà che ha commesso e osserverà il giudizio e la giustizia, darà la vita all'anima sua.
E più oltre ancora: Convertitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità; cosi queste non vi torneranno a rovina.
Gettate lungi da voi tutte le prevaricazioni in cui siete caduti, e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo ( Ez 18,21; Ez 18,31 ).
La medesima cosa ha ordinato il Signore stesso nel dire all'adultera: Va' e non peccare più ( Gv 8,11 ); e al paralitico risanato nella piscina: Ecco, sei risanato: non peccare più ( Gv 5,14 ).
Del resto la natura e la ragione mostrano chiaramente che vi sono due cose assolutamente necessarie, per rendere la contrizione vera e sincera: il pentimento dei peccati commessi, e il proposito di non commetterli più per l'avvenire.
Chiunque si vuole riconciliare con un amico che ha offeso, deve insieme deplorare l'ingiuria fatta, e guardarsi bene, per l'avvenire, dall'offendere di nuovo l'amicizia.
Queste due cose devono necessariamente essere accompagnate dall'obbedienza, poiché è giusto che l'uomo obbedisca alla legge naturale, divina e umana alle quali è soggetto.
Pertanto, se un penitente ha rubato con violenza o con frode qualche cosa al suo prossimo, è obbligato alla restituzione; se ha offeso la sua dignità e la sua vita con le parole o con i fatti, deve soddisfarlo con la prestazione di qualche servizio o di qualche beneficio.
É noto a tutti, in proposito, il detto di sant'Agostino: Non è rimesso il peccato, se non si restituisce il maltolto ( Epist. CLIII,6,20 ).
Né si consideri come poco importante tra le altre condizioni volute dalla contrizione, il perdonare interamente le offese ricevute, come espressamente ci ammonisce il Signore e Salvatore nostro: Se perdonerete agli uomini le loro mancanze, il vostro Padre celeste vi perdonerà i vostri peccati; ma se non perdonerete agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre colpe ( Mt 6,14-15 ).
Questo è quanto i fedeli devono osservare rispetto alla contrizione.
Tutte le altre considerazioni che i Pastori potranno facilmente raccogliere in proposito, possono riuscire a render la contrizione più perfetta nel suo genere, ma non devono essere considerate come assolutamente necessarie, potendosi avere anche senza di esse una Penitenza vera e salutare.
Ma perché i Parroci insegnino quanto occorre alla salvezza, a che i fedeli indirizzino ad essa la vita e le opere, non trascurino di ricordare spesso con diligenza, sia l'utilità, sia l'efficacia della contrizione.
Infatti le altre opere di devozione, come le elemosine, i digiuni, le orazioni ed altre simili, sono talora respinte da Dio per colpa di chi le offre; mentre la contrizione non può non essergli sempre grata ed accetta.
" Tu non respingerai, o Signore - dice il Profeta - un cuore contrito e umiliato " ( Sal 51,19 ).
Che anzi, appena l'abbiano concepita nel cuore, Dio dà il perdono dei peccati, come il Profeta stesso dichiara in altro luogo: Io dico: confesso il mio delitto avanti al Signore; e tu rimetti l'empietà del mio peccato ( Sal 32,5 ).
Di tale verità abbiamo come una figura nei dieci lebbrosi, che il Signore inviò ai sacerdoti, e che furono guariti prima che a loro giungessero ( Lc 17,14 ).
Da ciò si rileva che la vera contrizione, di cui abbiamo fin qui parlato, possiede si grande efficacia, che per essa il Signore accorda immediatamente la remissione di tutti i nostri peccati.
Molto varrà ancora, ad accendere la pietà dei fedeli, il fornire loro un metodo per eccitarsi alla contrizione.
A tale scopo sarà opportuno ammonirli di esaminare spesso la propria coscienza, e vedere se hanno fedelmente osservato i precetti di Dio e della Chiesa.
Se si riconoscono colpevoli di qualche fallo, se ne accusino subito davanti a Dio e gliene domandino umilmente perdono, scongiurandolo di accordare loro il tempo di confessarsi e fare penitenza.
Sopratutto implorino il soccorso della sua grazia, per non più ricadere in quelle colpe che essi deplorano amaramente di aver commesse.
Cercheranno infine i Pastori d'ispirare nei fedeli un odio sommo contro il peccato, sia a motivo della sua immensa e vergognosa bruttezza, sia perché arreca gravissimi danni in quanto aliena da noi la benevolenza di Dio da cui abbiamo ricevuti tanti beni e tanti maggiori ce ne ripromettiamo, mentre poi ci condanna alla morte eterna con i suoi acerbi tormenti senza fine.
Fin qui abbiamo trattato della contrizione; passiamo alla confessione, o accusa, che costituisce la seconda parte della Penitenza.
Con quanta cura e diligenza i Parroci debbano spiegarla, s'intenderà facilmente ( com'è evidente per tutti i buoni Cristiani ), considerando che tutto quel che di santo, pio e religioso è piaciuto a Dio di conservare nella Chiesa ai nostri tempi, lo si deve attribuire in gran parte alla confessione.
Sicché nessuno si meraviglierà, se il nemico del genere umano, che vorrebbe distruggere dalle fondamenta la fede cattolica, si stia sforzando a tutta possa, per mezzo dei suoi satelliti e ministri della sua empietà, di abbattere questa rocca della virtù cristiana.
Si insegni innanzi tutto che l'istituzione della confessione fu per noi utilissima, anzi necessaria.
Pur ammettendo che la contrizione cancella i peccati, chi non sa che essa deve, in tal caso, essere cosi viva e ardente da eguagliare la grandezza del peccato?
Ma poiché pochi sono capaci di giungere a un grado si alto di pentimento, ne segue che pochissimi potrebbero sperare da questa via il perdono dei peccati.
Fu dunque necessario che il Signore, nella sua clemenza, fornisse un più agevole modo alla salvezza degli uomini; e lo fece in maniera mirabile, dando alla Chiesa le chiavi del regno dei cieli.
Secondo la dottrina della Chiesa Cattolica, tutti devono credere e affermare senza riserva che se uno è sinceramente pentito dei suoi peccati e risoluto di non più commetterli per l'avvenire, quand'anche non sentisse un dolore sufficiente a ottenergli il perdono, otterrà il perdono e la remissione di tutte le colpe in virtù delle chiavi, purché li confessi nel debito modo al Sacerdote.
In questo senso tutto i santi Padri hanno proclamato con ragione che il cielo ci è aperto dalle chiavi della Chiesa; e il concilio di Firenze ha messo questa verità fuori dubbio, dichiarando che l'effetto della Penitenza è la remissione dei peccati ( Decr. per gli Armeni ).
Ma v'è un'altra considerazione che mostra l'utilità della confessione.
L'esperienza prova che nulla giova tanto ad emendare i costumi di persone che menano una vita corrotta, quanto la manifestazione dei segreti pensieri del loro animo, delle loro parole ed azioni, ad un amico prudente e fedele, che li possa aiutare coi suoi servigi e consigli.
Allo stesso modo dobbiamo considerare sommamente profittevole a quelli che sono turbati dal rimorso dei loro peccati, lo scoprire le malattie e le piaghe della loro anima al Sacerdote, il quale tiene il luogo di N.S. Gesù Cristo ed è sottoposto dalle leggi più severe a un perpetuo silenzio.
In tal guisa troveranno pronti dei rimedi pieni di quella celeste virtù, atta non solo a sanare la presente infermità, ma ancora a disporre le anime in modo che per l'avvenire non ricadano si facilmente nella stessa malattia, o nello stesso vizio.
Né si dimentichi un altro vantaggio della confessione, che interessa vivamente la vita sociale.
Tolta infatti dalla vita cristiana la confessione sacramentale, il mondo sarà inondato da occulte e nefande scelleratezze.
E a poco a poco l'abitudine del male renderà gli uomini si depravati, che non si pentiranno di commettere in pubblico queste iniquità ed altre ancora più gravi.
Invece il pudore di doversi confessare raffrena la licenza e il desiderio del peccato, ponendo un argine alla irrompente malizia degli uomini.
Esposta l'utilità della confessione, i Parroci ne spiegheranno la natura e il valore.
La confessione si definisce cosi: è un'accusa dei peccati, nel sacramento della Penitenza, fatta per riceverne il perdono, in virtù delle chiavi.
Innanzi tutto e a ragione è detta accusa; perché noi non dobbiamo confessare i peccati quasi con ostentazione, come fanno coloro che si compiacciono di operare il male ( Pr 2,14 ); ovvero come una narrazione, quasi volessimo trattenerci con una persona oziosa che non avesse altro da fare; ma enumerarli con l'intenzione di confessarci colpevoli e col desiderio di punirli in noi stessi.
Noi confessiamo i peccati per ottenerne il perdono; perché il tribunale della Penitenza è diverso dai tribunali umani, nei quali alla confessione del delitto è riservata la pena, non già la liberazione della colpa e il perdono dell'offesa.
In questo medesimo senso, sebbene con altre parole, sembrano aver definito la confessione alcuni santi Padri.
Per es., sant'Agostino: La confessione è la manifestazione di una infermità occulta, fatta con la speranza del perdono ( In Psalmos 67,7 ); e san Gregorio: La confessione è una detestazione dei peccati ( Hom. in ev., 40, 2 ).
Queste due definizioni possono riportarsi a quella data di sopra, che le contiene tutt'e due.
I Parroci poi insegneranno ai fedeli, senza la minima esitazione, una verità di massima importanza: cioè che Gesù Cristo medesimo, il quale ha operato tutto bene e in vista della nostra salvezza, ha istituito questo sacramento per la sua somma bontà e misericordia.
Infatti essendo gli Apostoli riuniti insieme il giorno della sua resurrezione, alitò su di essi dicendo: Ricevete lo Spirito Santo.
Saranno perdonati i peccati a chi voi li rimetterete, e ritenuti a coloro, cui voi li avrete ritenuti ( Gv 20,22 ).
Avendo dunque il Signore concessa ai sacerdoti la facoltà di perdonare o di ritenere i peccati, è chiaro che egli li costituì giudici di quello che dovessero fare.
La stessa cosa il Signore parve volesse significare, quando agli Apostoli comandò di sciogliere Lazzaro risuscitato, dalle bende in cui era avvolto ( Gv 11,44 ).
Sant'Agostino spiega cosi quel passo: I sacerdoti possono ora andare più in là, possono più abbondantemente perdonare a chi confessa, rimettendo le colpe.
Infatti il Signore affidò agli Apostoli l'incarico di sciogliere Lazzaro, ch'egli aveva risuscitato, mostrando che la facoltà di sciogliere veniva concessa ai sacerdoti.
Può anche invocarsi a questo proposito il comando impartito dal Signore ai lebbrosi guariti lungo la strada, di presentarsi ai sacerdoti e di sottoporsi al loro giudizio ( Lc 17,14 ).
Poiché dunque il Signore ha conferito ai sacerdoti la facoltà di rimettere o di ritenere i peccati, evidentemente essi sono costituiti giudici in questa materia.
E siccome secondo l'ammonimento sapiente del santo concilio Tridentino non è possibile pronunciare una sentenza giusta su qualsiasi argomento, né si può rispettare la regola della giustizia nell'assegnare le pene dei delitti, se la causa non sia stata ampiamente esposta e ponderata, ne segue che i penitenti nella loro confessione devono presentare ai sacerdoti tutte e singole le loro colpe.
I Parroci quindi spiegheranno minutamente quanto su ciò ha stabilito il santo concilio Tridentino e la Cattolica Chiesa ha sempre insegnato.
Se leggiamo con attenzione i santi Padri, rintracceremo dovunque testimonianze esplicite, le quali confermano come questo sacramento sia stato istituito da nostro Signore G. Cristo, e come esista nel Vangelo la legge della confessione sacramentale, che essi chiamano, alla greca, exomologesi ed exagoreusi.
Che se poi ci volgiamo al vecchio Testamento in cerca di immagini, ci appariranno come indubbiamente pertinenti alla confessione dei peccati quei vari generi di sacrifici, compiuti dai sacerdoti in espiazione delle varie specie di peccati.
Né basta; come occorre mostrare ai fedeli l'istituzione divina della confessione, occorre anche insegnare che per autorità della Chiesa furono aggiunti riti e cerimonie solenni, non inerenti alla essenza del sacramento, ma tali da farne maggiormente risaltare il valore, e da predisporre le anime dei penitenti, riscaldate dalla pietà, a ricevere più copiosamente la grazia del Signore.
Prostrati a capo scoperto ai piedi del sacerdote, gli occhi abbassati, le mani in atto di supplica, dando prova anche in altri modi, non necessari all'essenza del sacramento, di cristiana umiltà, confessiamo i nostri peccati.
Mostriamo cosi di comprendere che nel sacramento è racchiusa una forza celeste, e che doverosamente con tutto l'ardore imploriamo e cerchiamo la misericordia divina.
Nessuno osi pensare che la confessione sia stata istituita dal Signore in modo che la pratica non ne sia necessaria.
I fedeli sono tenuti a credere che chi ha la coscienza gravata da peccato mortale, deve essere richiamato alla vita spirituale mediante il sacramento della confessione.
Vediamo che il Signore espresse questa necessità con una magnifica immagine, quando definì il potere di amministrare questo sacramento: chiave del regno dei cieli ( Mt 16,19 ).
Chi può penetrare in un luogo chiuso senza ricorrere a chi ne ha le chiavi?
Cosi nessuno può entrare in cielo, se i sacerdoti, alla fedeltà dei quali il Signore consegno le chiavi, non ne dischiudano le porte.
Altrimenti sarebbe assolutamente inutile l'uso delle chiavi nella Chiesa; e inutilmente chi ha questo potere potrebbe interdire l'ingresso in cielo ad alcuno, se vi fosse un'altra via per giungervi.
Bene spiegò la cosa sant'Agostino, dicendo: Nessuno pretenda di far penitenza di nascosto, alla presenza del Signore, pensando: il Signore che mi deve perdonare, sa quel che è nel mio cuore.
Ma allora è stato detto invano: Quel che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo?
E senza ragione sono state consegnate le chiavi alla Chiesa di Dio? ( Disc. CCCXCII,3 ).
Nel medesimo senso sant'Ambrogio scrive nel libro Sulla penitenza, combattendo l'eresia dei Novaziani, i quali riservavano soltanto a Dio la potestà di rimettere i peccati: Chi dunque presta maggiore ossequio a Dio: chi si uniforma ai suoi comandi, o chi vi resiste?
Orbene: Dio ha comandato di obbedire ai suoi ministri; ciò facendo, tributiamo in realtà onore direttamente a Dio.
Non potendo esserci dubbio alcuno sull'origine e istituzione divina della legge della confessione, ne segue che occorre ricercare chi debba ad essa sottostare, in quale età e in quale tempo dell'anno.
Dal canone del Concilio del Laterano, il quale comincia con le parole: "Ogni individuo dell'uno o dell'altro sesso ", risulta che nessuno è vincolato dalla legge della confessione prima dell'età in cui può avere l'uso della ragione.
Tale età però non si desume da un definito numero di anni.
Sicché sembra doversi ritenere genericamente che la confessione comincia ad obbligare il fanciullo quando abbia raggiunto la capacità di distinguere tra bene e male, e la sua anima sia capace di malizia.
Si devono, cioè, confessare i propri peccati al sacerdote, non appena pervenuti a quella età in cui è dato di ragionare e di decidere intorno alla vita eterna, non essendoci altro modo di sperare in essa, per chi ha la consapevolezza di aver peccato.
Col medesimo canone la santa Chiesa stabiliva cosi il tempo in cui è obbligatorio fare la confessione: " tutti i fedeli devono confessare i propri peccati almeno una volta l'anno ".
Vediamo però se la cura della nostra salvezza non esiga qualcosa di più.
In realtà, ogni volta che sembra imminente il pericolo di morte, o iniziamo un atto impraticabile per un uomo macchiato di colpa, come quando amministriamo o riceviamo i sacramenti, la confessione non deve essere tralasciata.
Lo stesso faremo quando siamo nel dubbio di avere dimenticato una colpa.
Non possiamo, evidentemente, confessare peccati che non ricordiamo, ma neppure otteniamo da Dio il perdono dei peccati, se attraverso la confessione non li cancella il sacramento della Penitenza.
Nel fare la confessione si devono osservare molte prescrizioni, di cui alcune appartengono alla essenza stessa del sacramento, mentre altre non sono cosi necessarie.
Il Parroco spiegherà le une e le altre.
Non mancano peraltro opere e commenti, da cui è facile ricavare le spiegazioni in proposito.
Innanzi tutto i Parroci dovranno insegnare che la confessione deve essere integra ed assoluta, dovendosi manifestare al sacerdote tutti i peccati mortali.
I peccati veniali invece, che non tolgono la grazia di Dio e in cui cadiamo più di frequente, sebbene si possano opportunamente e utilmente confessare, come dimostra la consuetudine dei buoni cristiani, possono però tralasciarsi senza colpa ed espiarsi in molte altre maniere.
Ma, ripetiamo, i peccati mortali devono essere tutti e singoli enunciati, anche i più segreti, come quelli che violano solamente i due ultimi comandamenti del Decalogo.
Accade sovente che tali colpe feriscono l'anima più seriamente di quelle altre, che gli uomini sogliono commettere apertamente.
Cosi ha definito il concilio Tridentino ( Sess. 14, e. 5 e can. 7 ) ed ha sempre insegnato la Chiesa Cattolica, come ne fan fede le testimonianze dei santi Padri.
Leggiamo, per esempio, in sant'Ambrogio: Nessuno può essere perdonato di una colpa, se non abbia confessato il suo peccato ( Del parad. 14,71 ).
Commentando l'Ecclesiaste, san Girolamo conferma la medesima verità: Chi sia stato segretamente morso dal serpente diabolico e infettato dal veleno del peccato all'insaputa di tutti, se tacerà e non farà penitenza, né scoprirà la sua ferita al fratello e al maestro, questo maestro, che ha nella lingua la capacità di curare, non potrà essergli utile ( Sull'Eccl. 10 ).
E san Cipriano, nel discorso sui Lapsi apertamente sentenzia: Sebbene costoro non abbiano commesso il peccato di sacrificare ( agli idoli ), o di comprare il relativo libello, se ne ebbero il pensiero, devono nel dolore confessare la colpa ai sacerdoti di Dio.
Su questo punto il parere dei santi dottori è unanime.
Nella confessione si deve usare quella somma e diligentissima cura che usiamo nelle contingenze più gravi: dobbiamo mirare con tutte le energie a sanare le ferite dell'anima e a svellere le radici del peccato.
Né dobbiamo limitarci a spiegare nella confessione i peccati gravi, ma anche le circostanze di ciascuno, che ne accrescono o diminuiscono notevolmente la malizia.
Infatti vi sono circostanze cosi aggravanti, che da sole rendono mortale il peccato: è necessario perciò sempre confessarle.
Chi abbia ucciso, dovrà dire se la vittima era laico o ecclesiastico.
Chi abbia avuto rapporti carnali con una donna, dovrà spiegare se questa era nubile o coniugata, parente o consacrata a Dio con voto.
Tutte queste circostanze costituiscono altrettanti generi di peccati: nel primo caso si tratta di fornicazione semplice; nel secondo di adulterio; nel terzo d'incesto; nel quarto, sempre secondo la nomenclatura dei teologi, di sacrilegio.
Anche il furto è genericamente un peccato; ma chi ruba uno scudo pecca molto più lievemente di chi ne ruba cento o duecento o, comunque, sottragga una forte somma, specialmente se sacra.
Simile considerazione vale anche per il tempo e per il luogo, come appare dagli esempi ben noti addotti da tanti libri, che non occorre ripeterli.
Tutto ciò va spiegato in confessione: però si ricordi che le circostanze non aggravanti la colpa in misura notevole possono essere taciute senza peccato.
É veramente indispensabile che la confessione sia integra e completa.
Chi di proposito confessi in parte i peccati e in parte li ometta, non solo non ritrarrà alcun vantaggio dalla confessione, ma si renderà reo di una nuova colpa.
Simile difettosa manifestazione di colpe non potrà meritare il nome di confessione sacramentale.
In tal caso il penitente dovrà rinnovare la confessione, e in più si è fatto reo di un altro peccato, perché ha violato la santità sacramentale con la simulazione della Confessione.
Si badi però che le lacune della confessione, non volute di proposito, ma provenienti da involontaria dimenticanza, o da manchevole esplorazione della propria coscienza, pur sussistendo l'intenzione di confessare tutte le proprie colpe, non impongono che tutta la confessione sia ripetuta.
Basterà in un'altra occasione confessare al sacerdote le colpe dimenticate, dopo che esse siano tornate alla memoria.
Occorre badare a che l'esame di coscienza non sia troppo sommario e rapido.
Se saremo stati cosi negligenti nell'esaminarci sui peccati commessi, che possa dirsi di noi di non averli in realtà voluti ricordare, saremo tenuti a ripetere la confessione.
La confessione deve essere schietta, semplice, aperta, non artificiosamente concepita, come sogliono fare tanti che sembrano fare più la storia della loro vita, che confessare i peccati.
Essa deve mostrarci al Sacerdote quali noi siamo, quali compariamo a noi stessi, dando il certo per certo, il dubbio per dubbio.
Simili doti mancheranno alla confessione, se i peccati non vengono nettamente espressi, o in essa vengono mescolati discorsi estranei alla materia.
Meritano lode coloro che espongono le cose con prudenza e verecondia.
Non è bene perdersi in lunghe frasi; ma succintamente, modestamente, deve dirsi quanto riguarda la natura e l'entità di ciascun peccato.
Cosi il confessore come il penitente devono cercare con ogni mezzo che la loro conversazione nella confessione sia segreta.
Perciò non è mai lecito confessare i peccati per mezzo di una terza persona o per lettera, non essendo questi i modi di tener segreta una cosa.
Sarà massima cura dei fedeli purificare incessantemente l'anima mediante la confessione frequente dei peccati.
Nulla è più salutare per chi ha l'anima gravata da colpa mortale, in mezzo ai molti pericoli della vita, che confessare senza indugio i propri peccati.
Del resto, pur potendosi ripromettere una lunga vita, è veramente riprovevole che noi, mentre usiamo tanta diligenza nel mondare il corpo e le vesti, non usiamo altrettanta diligenza nel far si che lo splendore dell'anima non sia offuscato dalle macchie di turpissimi peccati.
È tempo di parlare del Ministro di questo sacramento, che è il Sacerdote fornito della facoltà ordinaria o delegata di assolvere, come vogliono le leggi ecclesiastiche.
Chi deve attendere a simile mansione, riveste non solo la potestà dell'ordine, ma anche quella di giurisdizione.
Alcune parole del Signore nel Vangelo di san Giovanni offrono un'insigne testimonianza intorno a questo sacro ministero: A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; e saranno ritenuti a chi li riterrete ( Gv 20,23 ).
É evidente che queste parole non furono rivolte a tutti, ma solamente agli Apostoli, ai quali i sacerdoti succedono in questa funzione.
E poiché ogni specie di grazia, impartita mediante questo sacramento, rifluisce dal capo, che è G. Cristo, nelle membra, è logico che esso sia impartito al corpo mistico di G. Cristo, vale a dire ai fedeli, solo da coloro, che hanno la potestà di consacrare sull'altare il suo corpo reale; tanto più che, in virtù di questo sacramento della Penitenza, i fedeli vengono preparati e abilitati a ricevere l'Eucaristia.
I vecchi decreti dei Padri lasciano agevolmente comprendere di quanto rispetto fosse circondata nella Chiesa antichissima la potestà del sacerdote ordinario.
Essi stabilivano che nessun Vescovo o Sacerdote compisse atti di amministrazione sacramentale nella parrocchia altrui, senza l'autorizzazione di chi vi fosse preposto, o senza la giustificazione di un'estrema necessità.
In sostanza la stessa cosa sanciva l'Apostolo, ordinando a Tito di porre sacerdoti in ogni città, perché nutrissero e formassero i fedeli col pascolo celeste della dottrina e dei sacramenti ( Tt 1,5 ).
Qualora però sussista pericolo imminente di morte, né sia possibile avere pronto il proprio Parroco, affinché nessuno in tali circostanze si perda, il concilio di Trento insegna essere consuetudine della Chiesa di Dio che ogni Sacerdote possa non solamente assolvere da ogni genere di peccato, comunque riservato, ma anche sciogliere dal vincolo della scomunica.
Oltre la potestà di ordine e di giurisdizione, strettamente necessarie, il Ministro di questo sacramento sia fornito di vasta dottrina e di prudenza, poiché egli deve essere insieme giudice e medico.
Non basta una scienza qualsiasi, perché tale giudice deve conoscere a fondo i peccati commessi, assegnarli alle rispettive specie, distinguere i leggeri dai gravi, secondo la qualità e il rango dei penitenti.
Anche come medico ha bisogno della massima sagacia, dovendo con cura apprestare al malato quei rimedi che sembrino più acconci a risanarne l'anima, e a premunirla in avvenire dall'insidia del male.
Da ciò i fedeli comprenderanno come ciascuno debba porre ogni studio nello scegliersi un sacerdote raccomandato per integrità di vita, per dottrina e chiaroveggenza; che sia capace di valutare convenientemente l'importanza gravissima del suo ufficio, quale pena convenga a ciascun peccato, chi sia da sciogliere e chi da lasciar senza assoluzione.
Siccome tutti desiderano ardentemente che le proprie colpe e le proprie vergogne rimangano occulte, i Pastori assicureranno i fedeli che non v'è ragione di temere che il Sacerdote riveli mai ad alcuno i peccati ascoltati in confessione, e ne possa giammai derivare alcun genere di pericolo.
Le sanzioni sacre minacciano gravissimamente quei sacerdoti che non abbiano tenuti sepolti nel più inviolabile silenzio i peccati da chiunque confessati loro nel sacramento.
Leggiamo fra i decreti del grande concilio Lateranense: Badi il Sacerdote a non rivelare mai con la parola, coi segni, o con qualsiasi altro mezzo, il peccatore.
L'ordine della nostra esposizione esige che dopo aver trattato del ministro, svolgiamo alcuni punti principali sull'uso e lo svolgimento della confessione.
Vi sono molti fedeli ai quali par mill'anni che trascorrano i giorni dalla legge ecclesiastica stabiliti per la confessione; e sono cosi remoti dalla genuina professione cristiana, da non curarsi di ricordare bene i peccati che dovrebbero denunciare al Sacerdote, trascurando tutto ciò che può massimamente contribuire al conseguimento della grazia divina.
Con tanto maggiore studio occorre quindi venire in soccorso alla loro salvezza.
Perciò i sacerdoti osserveranno bene, se il penitente abbia concepito vero dolore dei suoi peccati, e se nutra deliberato proposito di non ricadérvi.
Se si accorgono che egli possiede tali disposizioni, lo esortino a ringraziare Dio di cosi singolare beneficio e a implorare incessantemente l'aiuto della divina grazia, col sussidio della quale potrà resistere vittoriosamente alle malvagie concupiscenze.
Lo ammaestrino a meditare ogni giorno per un po' di tempo sui misteri della passione di nostro Signore, a imitarlo, e a riscaldare il cuore d'amore per lui.
Mediante tale meditazione si sentirà ogni giorno più al sicuro dalle demoniache tentazioni.
Causa vera della nostra rapida e facile disfatta dinanzi agli assalti del nemico è appunto il non cercare di attingere dalla meditazione delle verità celesti il fuoco della divina carità, capace di rinnovare e rafforzare lo spirito.
Qualora il Sacerdote comprenda che il penitente non si duole dei suoi peccati in modo da dirsi veramente contrito, si sforzi perché concepisca vivo desiderio di tale contrizione.
Il desiderio ardente di tanto dono lo indurrà a invocarlo dalla misericordia divina.
Si deve però innanzi tutto reprimere la superbia di chi si sforza di scusare, o attenuare le proprie colpe.
Vi sarà, ad esempio, chi, confessando i propri scatti d'ira, ne vorrà far ricadere la causa su altri, da cui si lamenterà di aver ricevuto ingiuria.
Il sacerdote gli faccia osservare che qui v'è un indizio di animo superbo, che non tiene conto, o addirittura ignora l'entità della propria colpa; che simile genere di scuse finisce con l'accrescere, anziché diminuire, la gravita del male, poiché chi lo vuole spiegare cosi, lascia intendere d'essere disposto a usare pazienza solo quando non sia ingiuriato da altri.
Ci potrebbe mai essere cosa meno degna di un cristiano?
Avrebbe dovuto invece dolersi quanto mai per colui che lo ha ingiuriato.
Invece non è colpito dallo spettacolo del male, ma si adira; e anziché cogliere l'ottima occasione per prestare ossequio a Dio con la sua pazienza, e correggere il fratello con la mitezza, trasforma un mezzo di salute in mezzo di rovina.
Più perniciosa appare la colpa di coloro che, trattenuti da uno sciocco pudore, non osano manifestare i propri peccati.
Bisogna far loro animo con le esortazioni; far loro intendere che non c'è motivo di vergognarsi nel rivelare i loro vizi, e che non c'è da meravigliarsi, nell'apprendere che un uomo ha peccato.
Non è questo un male universale, che rientra nella sfera dell'umana debolezza?
Vi sono altri poi che, per la poca consuetudine, o per la nessuna cura posta nell'evocare il ricordo delle loro colpe, non sanno condurre bene a termine una confessione cominciata, o non sanno neppure cominciarla.
Occorre vivamente rimproverarli e insegnare che, prima di presentarsi al Sacerdote, devono con ogni cura concepire dolore dei peccati, il che è impossibile se questi non sono stati distintamente e minutamente ricordati.
Se il Sacerdote riconosce che codesti penitenti sono del tutto impreparati, li congedi cortesemente, non mancando di esortarli a prendere tempo per ricordare le proprie colpe e poi tornare.
Se protesteranno di avere già posto nella preparazione ogni studio e ogni diligenza, - poiché il Sacerdote deve sempre avere timore che se respinti non tornino più, - dovranno essere ascoltati, specialmente nel caso che dimostrino sincera brama di correggere la propria vita, e finiscano con l'accusare la propria negligenza e promettere di compensarla nell'avvenire con maggiore riflessione.
Però in tutto questo è necessaria una scrupolosa cautela.
Ascoltata la confessione, se il Sacerdote giudica che non mancano al penitente né la diligenza nell'esposizione delle colpe, né il dolore di averle commesse, potrà assolverlo; altrimenti, come abbiamo detto, raccomanderà maggiore attenzione nell'esame di coscienza e lo congederà colla maggiore delicatezza.
Siccome accade che qualche donna, avendo dimenticato di accusare un peccato in una confessione precedente, non osa tornare al Sacerdote, nel timore di essere tenuta dal popolo rea di singolare malvagità, o avida di lode per la sua religiosità, non sarà male insistere, in pubblico e in privato, che nessuno può vantare tale memoria, da ricordare tutti e singoli i suoi atti, i suoi detti e i suoi pensieri.
Perciò i fedeli non devono in nessun modo vergognarsi di tornare al sacerdote, qualora ricordino un peccato prima dimenticato.
Queste e altre simili regole dovranno essere osservate dai sacerdoti nella confessione.
Veniamo alla terza parte della Penitenza, che è la soddisfazione.
Esporremo innanzi tutto il significato e l'efficacia della soddisfazione, da cui i nemici della Chiesa Cattolica hanno tratto ripetute occasioni di divergenza e discordia, con gravissimo pregiudizio del popolo cristiano.
La soddisfazione è l'integrale pagamento di quello che è dovuto: poiché è soddisfacente ciò a cui nulla manca.
Sicché trattando della riconciliazione per riottenere la grazia, soddisfare significa offrire quel che a un animo irato apparisce sufficiente a vendicare l'ingiuria.
In altre parole, la soddisfazione è il compenso offerto per l'ingiuria arrecata ad altri.
Nel caso nostro i teologi usarono il vocabolo soddisfazione, per indicare quel genere di compenso che l'uomo offre a Dio per i peccati commessi.
E poiché in questo campo possono esserci molte gradazioni, la soddisfazione può intendersi in vari modi.
La più alta ed eccellente soddisfazione è quella con la quale, a compenso delle nostre colpe, è stato dato a Dio tutto ciò che da parte nostra gli si doveva, pur supponendo che Dio abbia voluto trattarci a rigore di diritto.
Tale soddisfazione, che ci rese Dio placato e propizio, fu offerta unicamente da G. Cristo Signor nostro; che sulla croce sconto l'intero debito dei nostri peccati.
Nessuna creatura avrebbe potuto sgravarci di cosi pesante onere; per questo, egli, secondo la parola di san Giovanni, si diede pegno di propiziazione per le colpe nostre e per quelle di tutto il mondo ( 1 Gv 2,2 ).
Questa è dunque la piena e globale soddisfazione, perfettamente adeguata al debito contratto col cumulo di malvagie azioni commesse in tutta la storia del mondo.
Il suo valore riabilita gli atti umani al cospetto di Dio; senza di esso, questi apparirebbero destituiti di qualsiasi pregio.
Sembrano valere in proposito le parole di Davide che, dopo avere esclamato nella contemplazione dello spirito: Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha donato?
Nulla rinvenne degno di tanti e cosi grandi benefici, al di fuori di questa soddisfazione, che espresse col nome di calice: Prenderò il calice, della salvezza e invocherò il nome del Signore ( Sal 116,12 ).
Un secondo genere di soddisfazione è detto canonico; e si compie in un determinato periodo di tempo.
É antichissima consuetudine ecclesiastica che, nel momento dell'assoluzione, sia assegnata ai penitenti una penitenza determinata, il cui soddisfacimento è appunto chiamato soddisfazione.
Col medesimo nome è pure indicato ogni genere di penalità, che spontaneamente e deliberatamente affrontiamo a sconto dei nostri peccati, anche senza l'imposizione del sacerdote.
Quest'ultima soddisfazione non spetta alla natura del sacramento, di cui invece fa parte quella imposta per i peccati dal sacerdote di Dio, con unito il fermo proposito di evitare in avvenire ogni peccato.
Perciò alcuni proposero questa definizione: " Soddisfare significa tributare a Dio l'onore dovuto.
Ma è evidente che nessuno può tributare a Dio l'onore dovutogli, se non si proponga di evitare assolutamente ogni colpa.
Quindi soddisfare è anche un recidere le cause dei peccati, non lasciare varco alla loro suggestione.
Per questo altri preferiscono definire la soddisfazione come la purificazione dell'anima da ogni bruttura di peccato e l'affrancamento dalle pene temporali stabilite, i cui vincoli la stringevano.
Ciò posto, non sarà difficile persuadere i fedeli della necessità, in cui si trovano i penitenti, di esercitarsi nella pratica della soddisfazione.
Si deve loro insegnare che dal peccato scaturiscono due conseguenze: la macchia e la pena.
Poiché perdonata la colpa, risparmiato il supplizio della morte eterna nell'inferno, non sempre accade, secondo la definizione del Tridentino, che il Signore condoni i residui dei peccati e la pena temporanea loro dovuta.
Esempi significativi di questa verità si riscontrano nella sacra Scrittura.
Nel terzo capitolo della Genesi, nei capi duodecimo e ventesimo dei Numeri, e altrove.
Ma l'esempio più insigne è offerto da Davide, il quale, sebbene avesse udito dal profeta Nathan le parole rassicuratrici: Il Signore ha cancellato il tuo peccato e tu non morrai ( 1 Sam 12,13 ); pure dovette sottostare a pene gravissime, implorando notte e giorno la misericordia divina: Lavami abbondantemente dalla mia iniquità; mondami dal mio peccato; riconosco la mia colpa; ho sempre dinanzi a me il mio peccato ( Sal 51,4 ).
Cosi chiedeva al Signore di condonargli non solamente il delitto, ma anche la pena ad esso dovuta; e che lo volesse reintegrare nel primitivo stato di decoro, purgandolo da ogni residuo peccaminoso.
Eppure il Signore, nonostante le sue incessanti preci, colpì Davide col tradimento e la morte del figlio adulterino e di Assalonne, il prediletto, e con altre punizioni, in antecedenza annunciate.
Anche nell'Esodo leggiamo che, sebbene il Signore, placato dalle preghiere di Mosè, avesse perdonato al popolo idolatra, pure minacciò di chiedere conto con gravi pene di cosi grande colpa; e lo stesso Mosè previde che il Signore ne avrebbe tratto severissima vendetta fino alla terza e quarta generazione ( Es 32,14-34 ).
L'autorità dei santi Padri attesta come questi ammaestramenti siano stati sempre vivi nella Chiesa Cattolica.
Il santo concilio Tridentino spiega luminosamente la ragione, per cui non tutta la pena viene condonata nel sacramento della Penitenza, come invece accade nel Battesimo, con queste parole: L'essenza della giustizia divina esige che in modo diverso siano ricevuti in grazia coloro che per ignoranza peccarono prima del Battesimo, e coloro che, una volta affrancati dalla schiavitù del peccato e del demonio, insigniti del dono dello Spirito Santo, non esitano a violare consapevolmente il tempio di Dio e a contristare lo Spirito Santo.
In questo caso conviene alla divina clemenza che non siano condonati i peccati senza alcuna soddisfazione, perché alla prima occasione, reputando poca cosa la colpa, disprezzando lo Spirito Santo, non cadiamo in misfatti più gravi, accumulando l'ira divina per il giorno della vendetta.
Senza dubbio le pene soddisfattorie trattengono efficamente dal peccato e ci stringono con un freno potente, rendendoci più cauti e vigili per l'avvenire ( Sess. 14, e. 8 ).
Esse inoltre sono come prove documentarie del dolore concepito per i peccati commessi: sono riparazione data alla Chiesa, gravemente lesa nel suo decoro dalle nostre colpe.
Scrive sant'Agostino: Dio non ripudia un cuore contrito ed umiliato; ma perché spesso il dolore di un cuore è ignorato da un altro, e non giunge a cognizione altrui con parole o con altri segni, opportunamente sono stati fissati dalla Chiesa i periodi della penitenza, affinché sia data soddisfazione alla Chiesa stessa, nel cui grembo i peccati vengono rimessi ( Ench. LXV ).
Si aggiunga che gli esempi della nostra penitenza insegnano agli altri come essi stessi debbano regolare la loro vita e battere la via della pietà.
Scorgendo le pene imposteci per i nostri peccati, gli altri comprendono come siano necessarie nella vita speciali cautele, e come i costumi vadano corretti.
Per questo la Chiesa ha saggiamente stabilito che chi ha pubblicamente peccato, sottostia a una penitenza parimente pubblica; cosi gli altri, intimoriti, sappiano più diligentemente evitare in seguito la colpa.
Del resto anche per i peccati occulti s'imponeva talvolta la penitenza pubblica, quando fossero molto gravi.
La regola però non ammetteva eccezione per i peccati pubblici, che non venivano assolti prima della pubblica penitenza.
Frattanto i pastori pregavano Dio per il peccatore, e nel medesimo tempo lo esortavano a fare altrettanto.
Va ricordata in proposito la premura di sant'Ambrogio, le cui lacrime, a quanto è narrato, riuscirono più volte a infondere autentico dolore in anime che si erano avvicinate con molta freddezza al sacramento della Penitenza ( Paolino, Vita, 39 ).
Più tardi, purtroppo, si è abbandonata la severità dell'antica disciplina, essendosi raffreddata la carità; sicché molti fedeli hanno finito col non ritenere necessari, per impetrare il perdono dei peccati, alcun dolore intimo dell'animo, né gemito del cuore; credendo sufficiente la semplice parvenza del dolore.
Infine sottostando alle debite pene, noi riproduciamo l'immagine del nostro capo Gesù Cristo, che ha affrontato la passione e la prova ( Eb 2,18 ).
Come ha detto san Bernardo, che cosa si potrebbe concepire di più deforme che un membro delicato, unito a un capo coronato di spine? ( Serm. 5, Di tutti i Santi, 9 ).
Scrive infatti l'Apostolo che saremo coeredi con Cristo, se soffriremo con lui ( Rm 8,17 ); vivremo con lui, se saremo morti insieme; regneremo con lui, se con lui avremo sofferto ( 2 Tm 2,11 ).
Anche san Bernardo ha affermato che nel peccato si riscontrano la macchia e la piaga; la prima è cancellata dalla misericordia divina, ma a sanare la seconda è indispensabile la cura, che consiste nel rimedio della penitenza.
Come nella ferita rimarginata rimangono cicatrici, che esigono esse stesse una cura, cosi nell'anima, assolta dalla colpa, rimangono tracce bisognose ancora di rimedio.
Una sentenza del Crisostomo conferma questa verità, quando osserva che non basta estrarre dal corpo la freccia, ma bisogna risanarne la ferita; cosi appunto nell'anima, dopo conseguito il perdono della colpa, deve curarsi con la penitenza la piaga rimasta.
Ripetutamente insegna sant'Agostino che nella Penitenza è necessario distinguere la misericordia dalla giustizia di Dio; la prima rimette le colpe e le pene eterne meritate; la seconda infligge al peccatore pene temporali ( Sul Salmo 51,7 ).
Del resto la pena penitenziale, volenterosamente accettata, previene i supplizi stabiliti da Dio, come insegna l'Apostolo.
Se ci giudicassimo da noi stessi non saremmo giudicati; ma giudicati, dal Signore siamo castigati per non essere condannati con questo mondo. ( 1 Cor 11,31 ).
Nell'apprendere tutto ciò, i fedeli si sentiranno necessariamente stimolati ad opere di penitenza.
Quanto grande sia l'efficacia della soddisfazione risulta dal fatto che essa scaturisce tutta dai meriti della passione di nostro Signore Gesù Cristo.
In virtù della quale noi conseguiamo con le azioni virtuose i due massimi beni: il premio della gloria immortale, poiché è scritto che neppure un bicchiere d'acqua fresca dato nel suo nome mancherà di congrua mercede ( Mt 10,42 ); e il soddisfacimento che facciamo per i nostri peccati.
Non è oscurata per questo la perfetta e sovrabbondante soddisfazione, offerta da nostro Signore Gesù Cristo.
Al contrario, è resa più insigne e più luminosa.
Risulta infatti più copiosa la grazia di G. Cristo per il fatto che ci vengono comunicati non solo i suoi meriti personali, ma anche quelli che, come capo, egli attua nei santi e nei giusti, che sono sue membra.
Infatti solo di là le azioni giuste e oneste dei pii ricevono tanto valore e tanta importanza.
Come la testa in rapporto a tutto il corpo e la vite in rapporto ai tralci ( Gv 15,4; Ef 4,15 ), G. Cristo non cessa di diffondere la sua grazia in coloro che gli sono uniti nella carità.
E questa grazia previene sempre le nostre buone azioni, le accompagna e le segue, rendendoci possibili il merito e la soddisfazione da darsi a Dio.
Ne segue che nulla manca ai giusti.
Mediante le opere compiute col soccorso di Dio, essi possono soddisfare alla legge divina secondo la capacità della natura umana e mortale; e possono meritare la vita eterna, che conseguiranno se escono da questa vita ornati della grazia divina.
É nota la sentenza del Salvatore: Chi avrà bevuto l'acqua che io darò, non avrà sete in eterno; e l'acqua che gli avrò dato, si trasformerà in lui in una sorgente d'acqua che sale all'eterna vita ( Gv 4,13 ).
La soddisfazione però deve possedere due requisiti.
Innanzi tutto, chi soddisfa deve essere giusto e amico di Dio.
Le opere compiute senza fede e senza carità non possono essere in nessun modo gradite a Dio.
In secondo luogo le opere intraprese siano tali da recare dolore e disagio; perché dovendo esse riuscire compensatrici di passati peccati, e quasi, secondo le parole di san Cipriano, redentrici del male fatto ( Lett. LV ), occorre assolutamente che racchiudano qualcosa di amaro, sebbene non sempre sia vero che chi si esercita in azioni onerose, per questo stesso ne senta dolore.
Spesso l'abitudine del soffrire o l'ardente amore di Dio fanno si che anche pene gravissime siano appena percepite.
Ciò non toglie a tali opere la capacità di soddisfazione, poiché è proprio dei figli di Dio l'essere cosi infiammati dall'amore divino, da non provare incomodo in mezzo ai più acerbi dolori, sopportando tutto con animo invitto.
I Parroci insegneranno che le opere capaci di valore soddisfattorio possono ridursi a tre categorie: orazioni, digiuni, elemosine, in corrispondenza al triplice ordine di beni, spirituali, corporali, ed esteriori, che abbiamo ricevuto da Dio.
Si trovano qui i mezzi più atti ed efficaci a recidere le radici del peccato.
Poiché infatti il mondo è impastato di cupidigia carnale, di cupidigia degli occhi, di superbia della vita, è chiaro che a queste tre cause di male vanno contrapposte tre medicine: il digiuno, l'elemosina, la preghiera.
Tale classificazione appare ragionevole anche se si considerano le persone offese dai nostri peccati e che sono Dio, il prossimo, noi stessi.
Ora noi plachiamo Dio con la preghiera; diamo soddisfazione al prossimo con l'elemosina; dominiamo noi stessi col digiuno.
Ma poiché fatalmente la vita è accompagnata da innumerevoli angoscie e disgrazie, ai fedeli si deve con ogni cura ricordare che tollerando pazientemente quanto a Dio piaccia di mandarci, si accumula buon materiale di meriti e di soddisfazione; mentre recalcitrando e ripugnando alla sofferenza, si perde ogni frutto di soddisfazione, esponendosi alla diretta punizione di Dio, giusto vendicatore della colpa.
Veramente degna di ogni lode e di ogni ringraziamento è la bontà clemente di Dio, il quale concesse all'umana debolezza che uno potesse soddisfare per un altro; cosa che è in modo speciale propria di questa parte della Penitenza.
Se nessuno può pentirsi o fare la confessione delle colpe al posto di altri, può però, chi è in grazia, sciogliere per altri il debito contratto verso Dio; in altre parole, portare in qualche modo il carico altrui.
Il fedele non può in alcun modo dubitarne, poiché nel Simbolo degli apostoli professiamo di credere nella comunione dei santi.
Infatti se tutti, lavati nel medesimo Battesimo, rinasciamo a Cristo, partecipiamo ai medesimi sacramenti, e principalmente ci alimentiamo e ci dissetiamo col medesimo corpo e sangue di nostro Signore Gesù Cristo, siamo evidentemente membra del medesimo corpo.
Orbene, come il piede adempie la sua funzione per il vantaggio, non solamente proprio, ma anche, per es., degli occhi; e a sua volta la vista giova agli occhi e insieme a tutte le membra; cosi dobbiamo reputare comuni fra tutti noi le opere della soddisfazione.
Vi sono però delle eccezioni, per quanto riguarda i vantaggi che da esse scaturiscono.
Le opere soddisfattone infatti sono come medicine e metodi di cura, prescritti al penitente per risanare le cattive inclinazioni del suo spirito: perciò non possono partecipare della loro virtù risanatrice coloro che personalmente nulla fanno per soddisfare.
Le tre parti della Penitenza: dolore, confessione, soddisfazione, devono essere abbondantemente spiegate.
I sacerdoti però, ascoltata la confessione dei peccati e prima di assolvere il penitente, vedano bene se questi sia veramente reo di avere sottratto qualcosa alla sostanza o alla fama del prossimo.
In tal caso dovrà riparare il danno e non potrà essere assolto, se non promette di affrettarsi a restituire.
E poiché molti si dilungano nel promettere la riparazione, ma non si decidono mai ad assolvere la promessa, devono esservi assolutamente costretti, ripetendo l'ammonimento dell'Apostolo: Chi ha rubato, ormai non rubi più; lavori piuttosto con le sue mani per venire incontro alle necessità di chi soffre ( Ef 4,28 ).
Nell'assegnare la pena soddisfattoria, i sacerdoti ricordino di non fissarla a capriccio, bensì con giustizia, prudenza, e pietà.
E affinché i peccati risultino valutati secondo una regola, e i penitenti riconoscano più agevolmente la gravita dei loro misfatti, sarà bene dir loro talvolta quali pene fossero decretate dai vecchi canoni, detti penitenziali, per determinati peccati.
In generale la misura della soddisfazione sarà data dalla natura della colpa.
Tra tutte le forme di soddisfazione è bene specialmente imporre ai penitenti di pregare in determinati giorni per tutti, ma in modo particolare per coloro che hanno lasciato questa vita nel nome del Signore.
I sacerdoti li esorteranno a ripetere spesso le medesime opere soddisfattone; a foggiare i loro costumi in modo che, pur avendo coscienziosamente compiuti tutti gli atti pertinenti al sacramento della confessione, non tralascino per questo la pratica della virtù della penitenza.
Che se talora, a causa del pubblico scandalo, sarà necessario imporre una penitenza pubblica, anche se il penitente cerchi di evitarla, e per questo preghi, non gli si presti facilmente ascolto; ma è necessario convincerlo a sottostare con animo pronto a quanto riesce salutare a lui e agli altri.
Quanto siamo venuti esponendo relativamente al sacramento della Penitenza e alle sue parti, sia spiegato in modo che non solo i fedeli l'intendano perfettamente, ma anche, con l'aiuto del Signore, si sentano indotti a eseguirlo piamente e religiosamente.
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