Convegno ecclesiale di Verona |
17 ottobre 2006
Là fa abitare gli affamati, ed essi innalzano una città abitabile. ( Sal 107,36 )
Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura. ( Eb 13,14a )
Ai rappresentanti delle nostre Chiese locali toccherà fra poco di impegnarsi attivamente in un'opera di discernimento.
Il compito ha confini che precedono e superano le giornate di Verona, ma sicuramente deve affrontare in questo momento un passaggio decisivo.
In particolare, il quinto degli ambiti in cui il Convegno Ecclesiale Nazionale si articola è chiamato a un'operazione di discernimento ecclesiale focalizzata sulla questione della cittadinanza e orientata dalla coscienza della speranza cristiana.
« Che cosa apporta la speranza cristiana all'impegno di cittadinanza?
Come l'impegno civile può essere modo [ … ] della testimonianza cristiana? », queste alcune delle domande che ci venivano proposte dalla Traccia di riflessione preparatoria ( n. 13 ) e che ci sono ora riproposte.
Al contributo che sto per esporre si chiede di fornire una introduzione ai lavori dei gruppi in cui si suddivide il quinto ambito, e dunque deve prendere forma a partire dalla relazione con il processo cui è riferito.
Credo che San Paolo non pregasse solo per i cristiani di Filippi, ma anche per noi, perché la nostra « carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento » e perché possiamo « distinguere sempre meglio, ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo » ( Fil 1,9 ), con ciò mostrando immediatamente ( e in convergenza con 1 Pt ) anche come la tensione escatologica colleghi discernimento cristiano e speranza ( cuore di questo 4° Convegno Ecclesiale Nazionale ).
Forse meglio degli altri, i meno giovani tra di noi sanno cogliere in qual senso la prassi del discernimento, verso cui ormai da anni i vescovi italiani stanno orientando le nostre Chiese, raccoglie ma anche riforma l'eredità veicolata dal celebre « vedere, giudicare, agire ».
Rispetto a questo metodo, l'antichissima tradizione cristiana del discernimento rivela una maggiore capacità di cogliere la coscienza di una non neutralità della conoscenza teorica rispetto alla prassi, e di un carattere non meramente applicativo di quest'ultima, coscienza che, per strade in parte anche distinte, tanto la teologia cristiana quanto la filosofia e le scienze hanno ormai riconquistato.
Come ogni credente e come ogni generazione cristiana noi siamo oggi di fronte a « cose nuove », e per di più con la piena coscienza - fatta propria dal magistero ( Centesimus annus 3 ) - della radicalità dirompente di queste novità: esse sono cioè ben diverse dalle « cose nuove » che altre generazioni cristiane furono chiamate a vivere.
Come appunto scriveva Giovanni Paolo II, dobbiamo guardarci indietro, ma anche intorno e davanti.
È in mezzo a queste « cose nuove » che siamo chiamati ad ascoltare dal primo salmo della giornata le parole solenni che comandano: « Ascoltate oggi la sua voce: "Non indurite il vostro cuore" » ( Sal 95,7b-8a ).
Il dibattito in corso sulla cittadinanza non manca praticamente mai di sottolineare due processi sociali, ricchi di implicazioni in primo luogo politiche e culturali.
Per un verso, a partire dal secondo quarto del '900, il concetto e le politiche della cittadinanza hanno conosciuto un doppio movimento, una sorta di chiasmo: progressiva estensione della portata del concetto e progressiva concentrazione dell'attribuzione della competenza circa l'offerta e la regolazione del « bene » cittadinanza.
Infatti, dopo aver sommato ai diritti civili i diritti politici, la cultura e la prassi prevalenti hanno preso a considerare come parte integrante della cittadinanza anche i cosiddetti ( da quel momento in poi! ) « diritti sociali » ( lavoro, istruzione, salute, abitazione, informazione ecc. ).
Contemporaneamente, si attribuiva sempre più e solo allo Stato ( organizzazione politica tendenzialmente sovraordinata a qualsiasi altra organizzazione o istituzione sociale ) il diritto e il potere di dare effettività a questa nuova e ben più estesa idea di cittadinanza.
Per altro verso, complessi processi sociali di differenziazione mettono in crisi - in modo probabilmente irreversibile - i capisaldi dell'epoca di culture e di politiche della cittadinanza cui ci siamo appena riferiti: la realtà e l'idea stessa dello Stato come espressione organizzata della egemonia sociale del sistema politico ( il che - di per sé - non implica scomparsa ma ridimensionamento e specializzazione della funzione di quest'ultimo ).
Con ciò si conclude l'epoca se non l'epopea del progetto socialdemocratico - almeno nel suo preciso significato storico originale.
Il medesimo salto qualitativo nel processo di differenziazione sociale accompagna e sostiene la crescita dei livelli di consapevolezza e di autonomia individuale.
L'universalità indifferenziata delle proposte di cittadinanza offerte dallo Stato non soddisfa più una domanda di inclusione sociale espressa da persone che sempre meno tollerano di essere ridotte a individui standardizzati, mentre, giorno dopo giorno, vengono pagati costi sociali ed esistenziali sempre più elevati alle illusioni ( costitutive del progetto novecentesco di cittadinanza ) di poter isolare e anteporre i diritti ai doveri e di poter trascurare la questione delle identità e delle tradizioni.
Falliscono a ripetizione i progetti di cittadinanza fondati sulla logica rousseauiana dell'azzeramento ( violento o meno ) dei legami sociali.
Come falliscono quei progetti che si propongono di ignorare il contributo che alla cittadinanza viene da un sentimento diffuso di identità e di appartenenza civile, oppure degenerano in tirannide quelli che tentano di ricondurre al monopolio dello Stato la produzione e la regolazione dei processi di formazione dell'identità e dell'appartenenza.
Disponiamo ormai di una quantità impressionante di evidenze empiriche, che ci mostrano come nessuna aprioristica certezza di successo sostenga l'intenzione di aumentare il godimento di un'opportunità dando a questa la forma di un diritto positivo, come nessuna aprioristica certezza di successo supporti l'intenzione di ridurre l'iniquità sociale aumentando la « spesa pubblica » ( tanto a sostegno della domanda quanto a sostegno dell'offerta ), come nessuna aprioristica certezza di successo possa essere invocata per l'idea di aumentare il volume di opportunità a disposizione degli individui o di un gruppo di questi ponendo in essere o potenziando a questo scopo un apparato direttamente o indirettamente controllato dallo Stato.
A volte l'inclusione sociale aumenta se deregoliamo, se riduciamo un capitolo di spesa pubblica, se smantelliamo o privatizziamo.
E a volte no, ovviamente.
Tuttavia, essere alle prese con un compito anche teorico non attenua le responsabilità di fronte ai termini reali del problema dell'inclusione ed esclusione sociale.
Non saper più e non saper ancora interpretare in modo adeguato l'istanza di cittadinanza non ci esime dal ricordare quanto per tante persone sia essa ben lungi dall'essere soddisfatta.
Ciò che in questa introduzione può esser fatto è fornire appena qualche elemento per identificare meglio lo spazio in cui l'istanza della cittadinanza è oggi interpellanza seria e pressante anche per la fede cristiana.
Entro questi limiti, mi pare che trE riferimenti possano un poco aiutarci a individuare la prospettiva del discernimento cui siamo chiamati: uno teologico, uno spirituale e infine uno concernente il rapporto tra religione e politica.
Nel quadro del grande rilievo che la vita sociale ha nell'economia della salvezza ( Gaudium et spes 23-32 ), trova senz'altro adeguata collocazione lo specifico spessore teologico della città, espresso innanzitutto - come si diceva - dal ricco e multiforme riferimento delle Scritture sante a questa realtà, dal libro della Genesi a quello dell'Apocalisse, sino a rappresentare il regno compiuto in forma di città - la Gerusalemme celeste - piuttosto che di tempio ( Ap 21,10ss ).
L'attribuzione di valore teologico alla città, come insieme di condizioni favorevoli allo sviluppo umano in generale ma persino allo sviluppo dell'indole comunitaria dell'umana vocazione nel piano di Dio » ( GS 24 ), non è smentita dall'assenza nelle Scritture di un modello - seppur vago - di città terrena.
Per far solo un esempio, gli autori della versione greca dell'Antico Testamento, alle prese con il Salmo 107, giungono a creare un termine nuovo pur di dire la qualità di abitabilità della città costruita da uomini con la stessa parola con cui in quello stesso versetto è detta una delle tante forme dell'azione liberatrice del Dio di Israele ( v. 36 ).
E, allo stesso tempo, secondo l'autore della Lettera agli Ebrei, la città degli uomini non può vantare una stabilità, agli occhi del credente in cammino verso quella Gerusalemme celeste che sarà donata e non costruita da mani d'uomo.
Ogni città per quanto fortificata resta un accampamento provvisorio.
Sullo sfondo appena accennato forse risulta un poco più comprensibile come la tradizione cristiana ci testimoni tanto di credenti obbedienti alle autorità civili senza riserve, neppure a causa della loro non appartenenza ecclesiale ( At 19,23ss, e anzi invitati a sottomettersi e pregare per queste autorità, ad es. 1 Pt 2,13 o Rm 13,1-3 ), quanto di « ribelli per amore » come coloro che durante la lotta al nazifascismo giunsero a scegliere senza alcuna gioia ma con coraggio l'impegno militare per liberare dalla tirannia le proprie città.
Del resto, dopo aver analizzato il rapporto di Gesù e dei primi cristiani con le istituzioni civili, un biblista e teologo tedesco ne sintetizzò la regola in « né anarchici, né zeloti » ( Cullmann ).
La città degli uomini non è l'orizzonte del bene comune ( Evangelii nuntiandi 32 ), e tanto meno può esserlo la sola politica: ancor meno nel senso moderno - qui adottato - di quel particolare agire sociale connesso all'uso della forza fisica legittima.
È semmai l'inaudita prospettiva di bene comune rivelata nella fede che fornisce un quadro di valutazione delle approssimazioni al bene comune che nella città sempre provvisoriamente si tentano, e cui le istituzioni e le organizzazioni della politica concorrono per parte loro come e non al posto di tutte le altre istituzioni e organizzazioni sociali.
È davvero difficile immaginare spazi di compatibilita tra questa visione teologica della città e ogni forma di tendenza settaria, integrista, oppure opportunista, ma anche per ogni forma di attenzione monotematica: « L'impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente a esaurire la responsabilità per il bene comune » ( Congregazione per la dottrina della fede, I cattolici e la vita politica, n. 4 ).
È ancora proprio in questa prospettiva teologica che meglio si comprende come la responsabilità di ciascun cristiano per la città non sia contraddetta dall'istanza del pluralismo che può manifestarsi tra le forme in cui ciascuno e ciascuna cercano di esercitare questa responsabilità ( ivi ).
Sarebbe riduttivo affermare che questa visione teologica assegna nella città e per la città un ruolo solo ai credenti ( singoli o associati ) e non anche uno - ovviamente differente - alla Chiesa nel suo insieme.
Per intuire lo spazio e il valore dello speciale rapporto tra Chiesa e città ci basta infatti ricordare che «la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo sacramento, ossia il segno e lo strumento - non solo - dell'intima unione con Dio - ma anche - dell'unità di tutto il genere umano » ( Lumen gentium 1 ).
La Chiesa non è una città, né un'altra città.
La Chiesa e i credenti condividono la stessa città degli uomini e delle donne, come contesto favorevole a dialoghi, relazioni, associazioni e interessi comuni e non di meno alle regolazioni di conflitti e competizioni tra interessi.
Non dovrebbe assolutamente sfuggire l'influenza che sulla dottrina sociale della Chiesa ha la coscienza non solo della universale vocazione alla salvezza ( LG 39-42 ), ma anche « l'indole comunitaria » di questa vocazione del genere umano ( GS 24 ) della quale anche la Chiesa è chiamata a essere sacramento.
Ponendo una delle basi prossime cui attinsero i padri conciliari, il 6 dicembre del 1953, commentando Mt 13,30 ( « Lasciate che crescano entrambi insieme fino al tempo della mietitura, e al tempo della mietitura io dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano, invece, riponetelo nel mio granaio » ), Pio XII richiamava ai giuristi cattolici italiani il cosiddetto « principio della pace » o dell'« unione ».
Quando si lotta - come si deve fare - per estirpare un male dalla vita umana e sociale occorre provvedere a non oltrepassare quel limite oltre il quale il male che l'intervento coercitivo produce si manifesta più grande del male che dovrebbe eliminare.
L'umana società - affermava il Pontefice - è un bene di cui l'agire cristiano ed ecclesiale deve tenere gran conto.
Questo principio, insieme a quello del male minore, si inserisce tra i fondamenti più solidi, non cinici, non relativisti, del realismo cristiano.
Insomma, dover fare i conti con la crisi della cittadinanza « statalista » novecentesca e con una grave emergenza locale e globale dei livelli di cittadinanza non ci condanna ad alcuna nostalgia.
In una città non priva di politica, ma non dominata dalla politica-in-forma-di-Stato, ci sono infatti ai nostri occhi - e per molte ragioni - maggiori possibilità di cittadinanza e non minori.
Questo, ovviamente, non ci assicura che saremo in grado di individuare queste possibilità e di coglierle, ma ci consente di affrontare l'opera.
Mi auguro che sarà sempre più difficile sottrarre i nostri desideri e i nostri pensieri al forte richiamo postgiubilare di Giovanni Paolo II alla santità come nostra prospettiva esclusiva ( Novo millennio ineunte 30 ).
« Occorre - scriveva - riscoprire, in tutto il suo valore programmatico, il capitolo V della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, dedicato alla "vocazione universale alla santità"».
Ma accogliere un tale invito significa però anche lasciar emergere un interrogativo radicale, quello che si manifesta a partire dalla coscienza della tensione polemica che corre tra santità e mondanità.
Cosa può mai avere a che fare con la città e la cittadinanza un santo, lasciato nel mondo ma per mezzo del battesimo separato dal mondo, contrapposto al principe di questo ( innanzitutto Gv 17 ), e chiamato a mantenere e perfezionare una tale condizione ( Fil 1,1; 1 Pt 1,15-16; LG 40 )?
Un santo può anche attraversare la città come Giona, ma perché mai un santo, chiamato a fuggire, combattere e anche a partecipare della vittoria sul mondo, dovrebbe impegnare le proprie energie in una qualsiasi impresa civile, di norma non fatta di gesti di carità come quelli del samaritano ( Lc 10,30 ) pur a tutti comandati, e impegnarsi come San Bernardino da Siena - per esempio - a orientare e sostenere la riforma del mercato finanziario?
Uno spunto per la comprensione di questo apparente dilemma può venire dall'attenzione a un'importante differenza tra quanto le Scritture, e in particolare il Nuovo Testamento, chiamano città e quello che spesso chiamano mondo.
In questa introduzione non è necessario esporre la pur cruciale varietà di significati biblici del termine « mondo » ( Ratzinger ).
Qui basta richiamare semplicemente con quale forza e con quale precisione in molti passi evangelici ( non solo giovannei ) si mette in guardia contro la tendenza immanente ai poteri di ogni tipo ad autofondarsi e ad assoggettare l'individuo, attraverso dinamiche che per altro ormai la filosofia e le scienze umane ben conoscono.
Purtroppo, il fascino perverso e maligno del potere assoluto e di un ordine sociale autofondato non ha mancato e ancora non manca di mietere vittime e di reclutare adulatori anche tra le fila dei cristiani, evidentemente ancora inclini all'adozione del più comodo e più semplice « animo da schiavi ».
In questo senso parziale ma non trascurabile il mondo ha uno spirito anche « oggettivo » contro cui lotta lo spirito di Dio ( 1 Cor 2,12 ), sino al punto che, a volte, in qualche micromondo religioso può prevalere un « prender gloria gli uni dagli altri » ( Gv 5,44 ) che non lascia più spazio alla fede.
Questa prospettiva biblica ci aiuta a comprendere che la condizione umana, anche nella sua dimensione sociale, sino alla fine dei tempi resterà segnata tanto da una tendenza alla disgregazione - che ad peccatum inclinai ma non costituisce di per sé colpa - quanto da una maligna tentazione ad autoprodurre un'integrazione in ogni caso falsa e oppressiva.
Nel suo sperare, il cristiano è chiamato a riconoscere e sostenere la condizione umana presente come insuperabilmente « caratterizzata dalla lotta e minacciata dalla colpa » ( K. Rahner ) di cedere a una tentazione di mondanità e di falsa integrazione, che resta tale, cioè colpa, anche quando si nasconde sotto vessilli cristiani o insegne ecclesiastiche.
Ma, da cristiani, possiamo e dobbiamo riconoscere che contro la pretesa autofondativa e oppressiva di ogni mondo, anche religioso ( Benedetto XVI ), si muove pure la fatica sempre nuova e mai compiuta delle imprese civili, e in particolare di quelle che arricchiscono e allargano la cittadinanza.
In misura maggiore o minore, anche se mai sufficiente, ogni città è sempre una messa in crisi del mondo.
In quanto la cittadinanza riconosce, sostiene, da modo di espressione in diritti e doveri alla libertà e alla differenza delle persone, in tanto libera queste ultime da gradi di dipendenza biologica, culturale, economica, affettiva, di clan, religiosa, e via di seguito.
Il santo ( il battezzato ) è chiamato a fare quanto nelle sue possibilità per la città perché è amico delle donne e degli uomini e della loro libertà, consapevole che essi «possono volgersi al bene soltanto nella libertà » ( GS 17 ), libertà per cui il mondo - in quel senso preciso - è una minaccia e la città una tutela.
Non possiamo chiudere gli occhi di fronte a un interrogativo con il quale invece il nostro discernimento è chiamato a fare i conti.
Affermare che la speranza della Chiesa e dei credenti reca un contributo all'opera eminentemente pubblica di edificazione e mantenimento della città non equivale a mettere in discussione e forse a violare il principio di laicità?
Anzi: affermare l'intenzione di una testimonianza pubblica della speranza cristiana e del suo aperto coinvolgimento in imprese civili non ci pone già tra coloro che in questo momento attivamente operano contro i valori della laicità?
A questa domanda non è possibile dare una risposta immediata, indipendente da altre premesse.
All'interno della modernità vi sono infatti almeno due grandi famiglie di soluzioni all'istanza, dalle profonde radici cristiane, di separazione tra i poteri religiosi e tutti gli altri poteri civili ( aspetto della più generale istanza della separazione dei poteri e della differenziazione delle istituzioni ).
Nella soluzione offerta dal paradigma della laicité trova un culmine ( esemplarmente realizzato dalla Francia giacobina e poi dalla legislazione novecentesca di questo stesso paese ), con riguardo alla religione, una variante del processo di egemonia della politica su ogni istituzione sociale avviatesi con l'esito della guerra dei Trent'anni ( 1618-1648 ).
La ragione dello Stato sacralizza i propri principi e i propri testi, elabora e impone la propria etica, da forma all'unico e uniforme spazio pubblico dallo Stato stesso completamente controllato.
Diversamente, la soluzione offerta dal paradigma della religious freedom, il cui originario riferimento storico è il primo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d'America ( 1791 ), esprime, con riguardo alla religione, un orientamento alternativo a quello anzidetto, guidato dall'idea di una società aperta e plurale, articolata in numerose istituzioni - incluse quelle religiose - reciprocamente capaci di controllo e di riequilibrio, di una società non senza politica ma senza Stato ( stateless society ).
Come è noto, questo emendamento fissa una coppia di principi: nessuna integrazione di un'organizzazione religiosa nel sistema politico - disestablishment of church - e affermazione del valore essenziale del contributo ( dunque tendenzialmente incoercibile ) della religione alla vita pubblica - free excercise, a modernità è istanza anche cristiana di separazione tra politica e religione, i due paradigmi di modernità appena ricordati ci si offrono attraverso due variegate famiglie di concrete istituzionalizzazioni di questa separazione.
In un caso - quello della laicité - di separazione con subordinazione ( della religione alla politica ) e nell'altro - quello della religious freedom - di separazione senza subordinazione.
Evidentemente, ciascuno di questi due orientamenti generali fornisce una risposta molto diversa al quesito sulla legittimità del concorso pubblico che la speranza cristiana può dare all'impresa civile.
Tale concorso è nella prospettiva della laicité, nel migliore dei casi, accessorio e sempre sub judice, nella prospettiva della religious freedom è essenziale e rimesso al regime del pubblico confronto.
Non possiamo dimenticare che non è mancato chi nella sottolineatura di un ruolo pubblico per la Chiesa e il cristianesimo ha trovato motivi per temere una riduzione di questo a religione civile.
Di nuovo conviene tornare all'alternativa tra laicité e religious freedom.
Mentre nella prospettiva della laicité religione di Chiesa e religione civile sono fenomeni dello stesso genere, e quest'ultima si propone di soppiantare quella ( almeno in pubblico ), nella prospettiva della religious freedom religione di Chiesa e religione civile sono fenomeni distinti che svolgono funzioni diverse, ed è la religione civile a essere vincolata ( tra l'altro ) alla religione di Chiesa, e senza alcuna reciprocità.
In generale, non mancano ragioni di fatto e di principio perché i cattolici, e più in generale tutte le confessioni provenienti dalla tradizione ebraico - cristiana, si impegnino ancora per la difesa e il rinnovamento di assetti istituzionali e culturali nei quali le istituzioni, le organizzazioni e le culture religiose concorrono in varie forme a sostenere e orientare un regime di separazione tra politica e religione.
Come ricordato in principio, non possiamo dimenticare che la celebrazione del Convegno ecclesiale è già cominciata, e con essa quel lavoro di discernimento cui noi ora siamo chiamati a contribuire.
È dunque utile all'avvio e allo sviluppo dei nostri lavori ricordare almeno alcuni dei risultati ottenuti.
Di seguito mi limiterò a richiamare alla vostra attenzione cinque aree problematiche.
In molte occasioni e in molti modi, rappresentanti delle Chiese del Mezzogiorno d'Italia ci hanno ricordato che molte aree del nostro paese, e non solo al sud, non godono di un accettabile livello di certezza dei diritti appartenenti al nucleo più antico della cittadinanza: i diritti civili.
I poteri della mafia, della camorra, della 'ndrangheta costituiscono i primi responsabili di questa intollerabile situazione di deficit civile, ma non gli unici.
Sarebbe davvero incredibile che in un Convegno ecclesiale come il nostro, e proprio laddove si riflette sulla cittadinanza, venissero dimenticate - tra le altre - parole come quelle fortissime e inequivoche pronunciate da Giovanni Paolo II nella valle dei templi di Agrigento, o testimonianze come quelle offerte da don Puglisi.
Credo si debba semplicemente farle del tutto nostre, ancora oggi, con il coraggio, la determinazione e l'intelligenza che esigono.
Ancor più in generale è diffusa nel nostro paese una tendenza alla corruzione e alla concussione che minaccia e a volte persino perverte l'istanza e le istituzioni della cittadinanza, sino a generare appartenenze sociali alternative a quella civile.
Sino a sfumare, al sud ma anche al centro e al nord, e in diversi settori della vita sociale, in egimi di tale pervasività da parte di organizzazioni politiche e di gruppi di potere loro collegati da rendere difficile comprendere, anche per i più scrupolosi analisti, se il largo consenso elettorale di cui godono alcune inamovibili maggioranze amministrative locali sia causa oppure effetto dello strapotere di un ceto politico.
In questi contesti qual'è la qualità civile della testimonianza cristiana?
Quanto seria e intensa è la denuncia? Sono attive forme di collusione?
E ancora: quale attenzione presta la comunità ecclesiale alle forme di amministrazione della giustizia?
Siamo davvero certi che vadano ancora conservate alcune specificità sempre più quasi esclusivamente italiane, come l'obbligatorietà dell'azione penale, un grado piuttosto modesto di separazione di carriera e di funzioni tra giudici e inquirenti, la quasi assenza di imputabilità dell'agire ( fisiologicamente ) discrezionale di questi ultimi, e altro ancora?
Ciò basti a significare come non sarebbe opportuno che il nostro discernimento si concentrasse esclusivamente sulla crisi e la trasformazione della cittadinanza con riguardo all'area dei cosiddetti « diritti sociali ».
Credo invece che adeguata attenzione meriti sia lo stato dei diritti civili nel nostro paese, che quello dei diritti politici.
Siamo infatti in un paese nel quale, pressoché a tutti i livelli, il peso attribuito al voto popolare e lo spazio concesso all'esercizio dell'elettorato passivo scendono a gradi minimi rispetto a quelli garantiti dalle democrazie occidentali, e per la verità ormai non solo da queste.
Infine, il carattere forse non sempre impeccabile che al nord e al sud hanno assunto istanze di rafforzamento dei poteri e dei doveri delle comunità locali e delle loro istituzioni politiche, costituiscono, comunque si autoetichettino o vengano etichettate, tentativi oggettivi di interpretazione meno vaga di un aspetto dell'istanza di sussidiarietà difficilmente ignorabile da parte nostra.
Credo che queste esperienze meritino finalmente un discernimento più sereno e coraggioso.
Nella nostra operazione di discernimento non dovremmo mai mancare di aver presente in modo critico che noi siamo qui, in questo luogo e in questo tempo, nella « provincia » dell'Europa continentale occidentale.
Ciò ci mette a disposizione preziose risorse culturali e storiche, ma inevitabilmente ci grava anche di limiti e di difficoltà.
La coscienza critica di tutto ciò deve restare o divenire particolarmente sveglia quando all'ordine del giorno è proprio la crisi del modello di cittadinanza, che in questa storia e in questa cultura ha trovato la sua origine.
Non dovremmo dimenticare che l'Europa non è solo la Francia ( e magari la Germania ) e che può essere fuorviante dimenticare che il presunto « modello sociale europeo » è qualcosa da cui sono e si mantengono ben distanti mondo britannico ( Gran Bretagna e Irlanda ), paesi scandinavi, molto est Europa postsovietico e per alcuni versi anche Paesi Bassi e Spagna.
Un « antiamericanismo » superficiale nasce anche dal misconoscimento delle molteplicità interne alla stessa modernità europea.
È proprio recuperando uno sguardo più ampio e più critico che si manifesta come alcune gravissime preoccupazioni circa la pretesa di una illimitata disponibilità della vita e di un pieno controllo su tutte le fasi e le forme del suo corso, circa il valore specifico dell'istituzione familiare, circa il ruolo insostituibile dell'offerta formativa non statale e del suo diritto a competere in condizioni di parità, circa il declino demografico, manifestano una razionalità e una legittimità tutt'altro che circoscritte al perimetro di una prospettiva religiosa.
Non dovremmo neppure dimenticare di mettere a frutto con libertà i vantaggi che ci derivano, anche in termini semplicemente culturali, dall'essere parte di una Chiesa realmente « cattolica ».
La nostra cultura civile di europeo - continentali e di cattolici europeo - continentali tende spesso semplicemente a rispecchiare, quando non a difendere con accanimento, riferimenti ideali e soluzioni politiche senza neppure darsi la briga di reperire adeguati sostegni empirici.
Senza che neppure i cattolici ne risultino esenti, diviene senso comune che il « diritto alla salute » del cittadino giustifichi la non licenziabilità di un dipendente della sanità « pubblica », o che il « diritto alla formazione » giustifichi la non licenziabilità di un insegnante statale e persino il divieto di raccogliere informazioni sull'efficienza delle singole scuole.
L'influenza di questa cultura sociopolitica è evidente a molti propositi, e in particolare quando si riflette sul modo di intendere i rapporti tra politica ed economia.
Un solo esempio: nel nostro paese, il 70% dei cattolici « praticanti regolari » ( Valori 2004, Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica della CEI, a cura di A. Trettel e dello scrivente ), il 55% dei seminaristi per il clero diocesano, il 49% dei sacerdoti diocesani ( L'idea di ministero presso il clero diocesano e i seminaristi per il clero diocesano in Italia. 2005, Servizio nazionale per il progetto culturale, a cura di L. Bressan e dello scrivente ), ritengono che sia lo Stato a dover garantire a tutti e a ciascuno un posto di lavoro.
Si può ragionevolmente ritenere che per questi sia piuttosto difficile condividere che « non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l'intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli »; … e che gli interventi dello Stato in economia con « funzioni di supplenza » debbano limitarsi a « situazioni eccezionali » e debbano essere « limitati nel tempo ».
Il problema è che affermazioni come queste, per mezzo della Centesimus annus ( n. 48 ) di Giovanni Paolo II, fanno ormai parte delle fonti più elevate del magistero sociale della Chiesa cattolica, al pari della valorizzazione delle istituzioni dell'« economia libera »: « l'impresa » e « il mercato » ( n. 42 ).
Secondo questi orientamenti è più probabile - anche se mai sicuro a priori - che sia più funzionale al bene comune un'istituzione antitrust che non la creazione di un'azienda statale.
In una Europa divisa tra pochi innovatori - spesso timidi - e molti conservatori - spesso insaziabili -, non appagati neppure dalla bozza di Trattato costituzionale europeo, già una volta cattolici italiani come Aloide De Gasperi, uniti a credenti come Schuman e Adenauer, proposero di superare e chiudere l'era degli Stati nazionali costruendo istituzioni non statali che gestissero poteri a quelli sottratti.
Sui loro successi ( come nel caso della Comunità europea del carbone e dell'acciaio ) è stato possibile costruire tantissimo.
Delle loro sconfitte ( come nel caso della Comunità europea di difesa ) paghiamo un prezzo ogni giorno più alto.
Loro hanno per tempo indicato la strada di una Europa come « superpower - tra altri superpowers - but not superstate » ( Blair ).
Oggi, con i vescovi della ComECE, possiamo ben dire che intuizioni quale quella della CECA vanno riconosciute come un vero e proprio « gesto spirituale », testimonianza attiva ed efficace nella città e per la cittadinanza.
Mi pare necessario riprendere da pochi ma particolarmente qualificati contributi un avvertimento relativo all'insufficiente frequenza con la quale nel confronto civile e anche ecclesiale nel nostro paese si trascura la questione economica nel suo significato primario.
Infatti, che senso ha parlare di difesa ed estensione della cittadinanza e non prestare adeguata attenzione al fatto di trovarsi in una comunità azionale sempre meno capace di produrre beni e servizi, nella quale la quasi totalità delle aree locali conosce una sostanziale stasi o addirittura una contrazione del prodotto interno lordo?
Che senso ha parlare di cittadinanza quando si riduce la produzione di beni e servizi dal contenuto tecnologico richiesto e sempre più diffuso nel resto del mondo, e ormai anche oltre la sua porzione più ricca?
Questo « nodo » ha nessi evidenti con il precedente.
Ad essere in crisi maggiore sono le economie più fedeli al « modello sociale europeo » e alle sue versioni più accentuatamente assistenzialistiche e dirigiste.
Non si cresce se non si produce quanto serve alla cittadinanza con imprese e istituzioni di mercato poco dinamiche, deboli e costantemente minacciate dalla politica e da gruppi di potere protetti.
Non si cresce se si lavora così poco e in così pochi, come avviene in Italia.
Non si cresce se si studia e si fa ricerca così poco e male come avviene in Italia e nel nostro pezzo di Europa.
È onesto, pur di evitare questo nodo, darsi a illusioni pauperiste, per poi tornare a essere acquisitivi o magari meticolosamente casual quando consumiamo: liberisti per stili di vita e statalisti per ideologia politica?
Ci siamo reciprocamente ricordati che la stessa comunità ecclesiale gioca un ruolo attivo per la città, propositivo e critico, anche sulla base di quel concreto tessuto di valori e di comportamenti che la Chiesa genera ed è.
Ma, se questo è vero, non possiamo fare discernimento cristiano del contributo reale che le nostre Chiese danno sotto questo profilo.
Mi limito qui a richiamarne due nodi tipici.
- Noi dobbiamo interrogarci su quanto le nostre comunità ecclesiali reali siano luogo di accoglienza non paternalistica di bambini e anziani, stranieri e diversamente credenti ecc., dobbiamo chiederci quanto queste Chiese reali e i loro cristiani siano partner attivi e non occasionali di queste persone in cerca di una nuova e adeguata cittadinanza ( fatta di diritti e di doveri ).
Ma se vogliamo fare un serio esame di coscienza, guardando in faccia le mancanze più ricorrenti e profonde e non solo quelle occasionali, se vogliamo chiederci quale dignità si vedono riconosciute effettivamente le persone con le loro differenze nelle nostre Chiese oggi, credo che il punto da cui partire, la vera cartina di tornasole, sia costituito ancora dalla condizione delle donne nelle Chiese che sono in Italia, a un livello molto più essenziale di quello che riguarda compiti e mansioni.
Nelle nostre Chiese, quale dignità è riconosciuta a e quale responsabilità è esercitata da cristiane battezzate magari con poche risorse economiche, culturali o caratteriali?
O forse sono proprio le meno sprovvedute, le più istruite, le più volitive e magari le più belle a incontrare maggiori difficoltà nelle nostre Chiese, perché in maggiori difficoltà mettono noi battezzati maschi?
E pensare che siamo una Chiesa composta in maggioranza da donne …
- Come gli analisti sociali ci insegnano, uno dei possibili indicatori di cittadinanza è quello che rileva la disponibilità degli individui a investire risorse ( tempo e denaro, per esempio ) per partecipare alla produzione di beni e di servizi dei cui vantaggi poi non si avvarranno in esclusiva questi stessi individui.
Essere cittadini, insomma, significa anche partecipare attivamente alla produzione di beni pubblici.
Le nostre Chiese reali educano alla produzione di beni pubblici?
Ora, su 1000 italiani adulti ogni anno almeno 5/600 fanno un'offerta in denaro a qualche istituzione od organizzazione ecclesiastica.
( In proporzione più del doppio rispetto ai « praticanti regolari ». )
Quella cospicua disponibilità a donare cala invece drasticamente non quando lo scopo si fa religiosamente meno rilevante, ma quando si allarga significativamente il raggio dei fruitori del bene o del servizio in questione.
Un esempio emblematico è fornito dalle offerte deducibili per il sostentamento del clero: che sono un'offerta non solo per il « proprio prete », ma per tutti i sacerdoti delle Chiese che sono in Italia.
In questo caso si scende a valori pari a poche unità, mostrando come la radicata disponibilità a donare a istituzioni dal volto familiare non sia accompagnata da una stessa disponibilità a contribuire a processi sì - apparentemente almeno - più impersonali, ma dal valore morale e pastorale non certo inferiore.
Sarà forse che le nostre Chiese, già attraverso le loro quotidiane dinamiche interne, educano a un esercizio un po' particolaristico della responsabilità piuttosto che alla coscienza di una responsabilità più ampia, che sappia portare anche - non solo, ovviamente - il peso della produzione di beni e servizi ecclesiali pubblici?
Infine, è stata chiesta una grande attenzione a una serie di problemi che la cittadinanza incontra, la cui comune radice sta nel processo di globalizzazione.
In questa, che resta solo una introduzione ai lavori di gruppo, non credo sia necessario spendere del tempo per ricordare come la globalizzazione sia una grande opportunità e come, analogamente a tutte le grandi opportunità, non sia priva di rischi.
Piuttosto mi sembra ora il caso di sottolineare un'attenzione generale e previa.
Le trasformazioni prodotte dalla globalizzazione, un aspetto delle quali può essere visto proprio nella crisi dello Stato, della sua cittadinanza e del suo « mondo », sono tali, profonde e insieme di portata generale, da richiedere una particolare cura già in sede analitica.
Vorrei portare un solo esempio.
La globalizzazione mette in crisi lo Stato e dunque il suo modo, per lungo tempo piuttosto efficace, di rendere riconoscibile la forza fisica legittima, quanto all'essenza identica alla forza protagonista di ogni atto di violenza, e dunque di renderla distinguibile dal mero sopruso.
Ora, la globalizzazione non mette in crisi in alcun modo la politica, e dunque innanzitutto l'utilità di disporre di una forza fisica legittima da utilizzare per minacciare chi intende violare le norme condivise e per coercire l'eventuale effettiva violazione di queste.
Però, nell'era degli Stati ( per definizione territoriali ) il confine spaziale evidenziava anche un importante limite tra un uso legittimo della forza fisica legittima (ad es. quella di un'azione di polizia ) e un uso illegittimo della forza fisica legittima ( come nel caso di una guerra di aggressione da parte di uno Stato a un altro Stato ).
Ora, la fine degli Stati, e di gran parte se non di tutto il significato dei loro confini, ci crea enormi problemi già in sede analitica.
Evidentemente, a parte il caso della difesa da un'aggressione, non è più qualificabile come « guerra » ogni uso della forza fisica al di fuori degli ( ex ) confini di un ( ex ) Stato.
Certo non abbiamo ancora idee e istituzioni per dar forma certa, modalità proporzionata ed esecuzione imputabile a questo e ad altri aspetti della politica globale, ma non per questo dobbiamo restar preda di nostalgie o nasconderei cinicamente dietro fantasmi.
Ciò anzi vuoi dire che è in questa direzione che dobbiamo concentrare i nostri sforzi per promuovere sempre e quanto più possibile la pace e la regolazione non bellica dei conflitti.
La situazione è così nuova che non possiamo neppure affidarci a sperimentate e comode analogie.
Se è vero che la città, anche globale, ha bisogno di poteri limitati e bilanciati, anche in accordo con l'insegnamento sociale della Chiesa, ogni progetto di « Stato globale » diventa qualcosa da temere e da contrastare con fermezza.
Come contrastare altrimenti gli eventuali abusi di un monopolio globale della forza fisica legittima?
Chiaramente la soluzione, che per ora nessuno ha, dobbiamo cercarla nella direzione di qualcosa che somigli piuttosto a un ordine policentrico, in cui i poli caratterizzati da democrazia, economia di mercato, libertà religiosa, libertà scientifica ecc. sappiano controllare i poli meno liberali tenendoli dentro - finché possibile -, mantenendoli in minoranza e stimolandone la positiva evoluzione, piuttosto che escludendoli.
Nessuna delle istituzioni internazionali di cui disponiamo deve essere considerata perfetta o idolatrata, ma, per la prospettiva appena accennata, esse appaiono come risorse non uniche ma dalle quali è difficile prescindere.
Una credibile minaccia a sostegno di leggi e trattati ma anche di alcuni diritti individuali, una certa efficace coercizione di chi li viola, il rifiuto di considerare ancora imperseguibili su scala internazionale tiranni che si trovassero anche a essere formalmente « governanti legittimi di Stati sovrani », e altro ancora, è oggi divenuto meno infrequente perché non consideriamo « guerra » e abbiamo praticato un certo uso della forza fisica legittima in parte almeno a prescindere dal vecchio modo di intendere i confini statuali.
Senza aver presente questo insieme di novità fattuali, sarebbe difficile capire, ad esempio, come mai Giovanni Paolo II, proprio mentre spendeva tutta la sua autorità e tutte le sue residue umane energie per scongiurare sviluppi militari a una recente gravissima crisi politica globale, con forza continuasse a sottolineare che la Chiesa è « pacifìcatrice, non pacifista ».
Davvero, in tempi di trasformazioni come quelle di cui ci dobbiamo occupare, l'operazione del discernimento va affrontata come qualcosa che potrebbe imporci una grande ascesi e un grande esodo, anche intellettuale.
Non siamo qui a ripetere parole e slogan, non siamo qui per mettere gli accenti dove li mettiamo di solito.
Siamo qui a cercare la volontà di Dio dentro « cose nuove » ( CA 3 ), una volontà che molto probabilmente ci chiederà ancora una volta di fare altre cose nuove, mai chieste ad altri prima di noi.
È dal manifestarsi del declino dell'era dello Stato, per lo meno a partire dalla metà degli anni '70, che sono aperti a tutti i livelli, nelle comunità locali, nazionali, continentali, globali, processi di riforma e di reistituzionalizzazione dei patti civili.
Quei processi sono i luoghi in cui noi abbiamo la responsabilità e il diritto di esercitare la speranza cristiana, di portarli in evidenza, di promuoverli, di farli progredire, certo più attenti all'istanza della libertà e dell'amore che non a quella del politically correct ( o a quella ancor più infantile del politically incorrect a ogni costo ).
Non di rado, il declino può manifestarsi contesto ancora aperto a possibilità di transizione ad assetti nuovi e nuovamente dinamici.
Per il fatto di essere cristiani non siamo certo protetti dall'influenza negativa dei retaggi della storia.
Dobbiamo sapere che su ciascuno di noi e su noi tutti « gravano » rendite di posizione ormai ingiustificabili alle quali però siamo abituati, modi di vedere le cose ormai inadeguati ( se non magari a giustificare quelle rendite), ambizioni individuali frustrate o aspettative vanificatesi troppo in fretta.
Di fronte a queste come a tutte le altre cattive inclinazioni la risposta giusta non è quella dello scandalo o dell'indulgenza, ma quella dell'umiltà e dell'ascesi.
Non saranno infatti ambizioni e privilegi, ne alcuna forma di religious pride, a mostrarci la strada e le forme migliori per l'esercizio del cristianesimo nella città e per la cittadinanza: esse somigliano troppo alla nostalgia per le cipolle d'Egitto ( Nm 11,5 ).
Può capitare che un cambiamento di legge elettorale o di sistema di governo metta in difficoltà o ponga fine a certe esperienze di cattolicesimo politico.
Ma la questione di fondo che ci deve interrogare è se per caso una riduzione dei poteri di un esecutivo e una loro maggiore imputabilità da parte dei cittadini non sia un passo nella direzione indicata dalla dottrina sociale della Chiesa attraverso i principi di sussidiarietà e di responsabilità, o se per caso una maggiore imputabilità personale dell'agire politico di un deputato o di un senatore non sia un passo nella direziono indicata dalla dottrina sociale della Chiesa attraverso il principio di responsabilità, o se ancora non sia conforme al principio di sussidiarietà percorrere a qualsiasi livello e in modo sistematico la via del contrasto a ogni « conflitto d'interessi » ( più o meno famoso che sia: inclusi quelli che volta per volta coinvolgono in esiziali « cortocircuiti » amministrazioni « pubbliche », partiti politici, sindacati, industria, finanza, cooperazione od operatori dell'informazione ).
E si tratta di domande cui la risposta non può venir data in astratto o in generale.
Se guardiamo alla nostra comunità nazionale non possiamo non concordare con quanti la vedono pressoché prigioniera di gruppi di interesse, disinteressati al cambiamento e appagati dalla gestione degli ultimi vantaggi ancora consentiti da una decadenza sempre meno improbabile.
Se guardiamo alla comunità nazionale vediamo un circolo vizioso forse non irreversibile, ma di certo già avviato.
La qualità della vita non declina altrettanto velocemente solo perché il costo di questo risparmio sul futuro è ancora per la maggior parte sopportato dal crollo demografico, dalla marginalizzazione di tanti, dalla non piena inclusione dei nuovi venuti, dall'esilio imposto a tanti dei migliori ( soprattutto giovani ).
Non illudiamoci, molti di noi non sono liberi da legami con quei ceti che si oppongono alla riforma e traggono profitto dal declino.
Ma noi abbiamo una risorsa, non solo nostra ma certo sempre più scarsa.
Ciascuno e ciascuna - legittimamente - ha interessi.
Poi può avere anche valori.
A volte i valori assecondano gli interessi, altre volte valori e interessi entrano in conflitto.
In questo caso gli interessi possono autoprodurre valori, oppure i valori possono rendere visibili altri interessi e riorientare le scelte.
In un panorama di crescente laicismo, non si può certo dire che altre solidarietà valoriali se la passino meglio di come oggi, in Italia, se la passa il tessuto etico e la trama di morale generati dall'esperienza ecclesiale.
Si pensi alla fine ormai avvenuta di tante culture politiche laiche o allo stato di salute di quelle basate sull'esperienza della solidarietà tra lavoratori.
In queste condizioni non è presunzione affermare che i cattolici italiani hanno oggi a disposizione una quantità non trascurabile di un tipo di risorse sempre più scarso, un tipo di risorsa che potrebbe generare seppur senza alcun determinismo una importante svolta civile, che potrebbe contrastare il circolo vizioso del declino.
La coscienza di questa dotazione è una delle forme iniziali che può assumere una rinnovata responsabilità per la città da parte dei cattolici italiani, una responsabilità che non autorizza ad alcun disegno egemonico ( per altro improbabile ), che non cancella la possibilità del pluralismo, e soprattutto una responsabilità che ci giudica - come un talento ( Mt 25,14ss ).
Questa responsabilità non potrà essere vissuta a fondo rimanendo confinata all'ambito puramente pastorale, per di più se ridotto a mera « preparazione » ( di cosa? ).
Richiede di tentare anche nuove vie, caso per caso, di cooperazione tra associazionismo e personalità di matrice religiosa ( si pensi tra l'altro all'esperimento del Forum delle Associazioni familiari o a quello di RetInOpera ) o tra queste realtà ed esponenti di diversa matrice ( si pensi all'esperimento di Scienza e vita ).
Questa responsabilità non potrà essere vissuta solo nel « sociale », ridotto a residuo subalterno del « politico ».
Questa responsabilità è per tutta la città.
Va vissuta dove le « cose nuove » lo richiedono e dunque anche nelle vicende propriamente politiche.
Se durante gli anni '90 qualche esperienza di impegno civile dei cattolici si è per qualche ragione fermata allo stadio della cooptazione, è ora evidente che questa non può essere la meta finale e spesso neppure la meta intermedia.
Le trasformazioni sociali e la responsabilità credente richiedono di più e d'altro, svelano l'equivoco.
Chi è preda dell'ideologia sa sempre dove andrà a parare e si mantiene in allenamento ripetendo sempre le stesse parole.
Chi si mette nell'obbedienza di un discernimento non sa mai come andrà esattamente a finire e dovrebbe essere disposto a finire con i piedi, con il cuore e con la testa laddove non avrebbe mai pensato di finire.
Questo spirito di discernimento non si assume per volontà, ma per umiltà e spesso attraverso umiliazioni.
E allora è forse bene che, avviandoci al cuore dei lavori di questi giorni, non dimentichiamo il richiamo penitenziale di Giovanni Paolo II ( Tertio millennio adveniente 36 ) in preparazione al grande giubileo del 2000.
Quel richiamo penitenziale ci suggeriva e ci suggerisce un esame di coscienza sulla ricezione del concilio « grande dono dello Spirito alla Chiesa sul finire del secondo millennio » - e proprio questo era già il senso primario che portò all'avviarsi della storia dei convegni ecclesiali nazionali nel 1976 - e in particolare delle sue costituzioni, tra cui la Gaudium et spes dedicata alle relazioni tra Chiesa e mondo contemporaneo.
Facendo discernimento non possiamo dimenticare che neppure nel loro doveroso e strenuo impegno civile i cristiani sono autorizzati a sottrarsi alla prospettiva della croce.
Scriveva von Balthasar: Entrambi, il regno del mondo e il regno di Dio, natura e grazia, conservano la loro dignità soltanto se conservano le loro leggi e la libertà d'azione che sono loro proprie: l'uomo non può realizzare la convergenza dei due campi ( in un punto omega ) finché Dio conserva la sua libertà di venire come un ladro nella notte e di conservare nella propria amministrazione la forza della croce.
Perciò al cristiano è vietata anche quella forma di sintesi che abbiamo chiamato « integralismo » [ … ].
L'intenzione può essere genuina, ma è spuria l'identità ingenuamente presupposta tra regno di Dio e influsso politico-culturale della Chiesa, che poi in pratica viene identifica con l'influsso di potere di un gruppo di mammalucchi cristiani, che aspirano a conquistare il mondo ( H.U. von Balthasar ).
Più ci lasciamo sostenere ogni volta di nuovo dall'Amore capace di croce più siamo messi in guardia e resi forti di fronte alla tentazione di Babele ( Gen 11,1ss ), fosse anche di una Babele confessionale.
Anche nelle imprese civili è questo l'Amore che resta fonte e culmine della speranza.
Questo Amore ci fa sperare e ci impegna ad attendere.
Ad attendere « irreprensibili e integri [ … ] il giorno di Cristo » ( Fil 2,15 ).
Ad attendere alle opere della carità, e tra esse a quelle della carità civile attraverso cui possiamo testimoniare la fede in un Dio che ha voluto la libertà umana, l'ha voluta come differenza in relazione, e che nell'incarnazione del Figlio ha mostrato che anche dopo il peccato per questa libertà lui porta non solo rispetto ma anche vera amicizia ( Gv 15,13-15; Fil 2,7 ), e in questa economia ci ha insegnato a vedere nell'opera della città un aiuto fragile e provvisorio, ma reale, per la sempre fragile ma incalpestabile libertà umana.
E che di vera carità si tratti tanti credenti l'hanno mostrato sino al grado sommo, anche di recente, giungendo a dover donare la vita per il loro impegno a servizio di una città più civile: da Vittorio Bachelet a Roberto Ruffilli a Ezio Tarantelli, da Paolo Borsellino a Rosario Livatino, a tanti e tante altre.
Cos'è la libertà rispetto alla Grazia?
Allo stesso tempo, nulla e tanto.
Nulla perché la libertà non produce la Grazia, tanto perché « la coscienza non può volgersi al bene se non nella libertà » ( GS 17 ).
E del resto cos'è la città terrena rispetto alla Gerusalemme celeste? Nulla e tanto.
Nulla perché quella Gerusalemme è e resta un dono, tanto perché l'indole della vocazione umana alla salvezza è comunitaria, fatta cioè di relazioni per le quali la libertà personale è una soglia ineludibile che una città civile può concorrere a presidiare e sostenere.
Così anche speriamo: mentre attendiamo e invochiamo la seconda Venuta possiamo attendere alla città e alla sua abitabilità, alla città come forma civile - per quanto mai perfetta e definitiva - di quella « tavola della vita » ( Conferenza episcopale USA, Faithfiil Citizenship 2004 ) cui siamo stati ammessi e dalla quale il Signore ci chiede che sin d'ora nessuno sia escluso.
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