Apocalisse
1) Evento conclusivo della storia del mondo segnato dal ritorno di Cristo come giudice
2) ( iniziale maiusc. ) Il libro di san Giovanni che narra la fine del mondo
3) fig. Catastrofe, avvenimento sconvolgente
In greco significa "rivelazione", provenendo da apokalypto, "tolgo la copertura", "sottraggo al nascondimento".
Da prima parola è passata a titolo ( come era già avvenuto per la "Storia" di Erodoto ) del libro che l'apostolo Giovanni compose mentre era relegato nell'isola di Patmos, alla fine dell'impero di Domiziano, verso l'anno 95, come attesta la tradizione antica.
È lo scritto che conclude il NT e che passa, dalla storia del Cristo storico esposta nei Vangeli, a quella del Cristo mistico nella storia: attraverso ad una serie di quadri e visioni a nitido rilievo plastico Giovanni rappresenta la lotta perenne che le potenze del mondo scateneranno nel corso dei secoli contro la Chiesa ed ammonisce i fedeli a non lasciarsene demoralizzare né scandalizzare, perché su tutti gli avversari sfolgorerà definitiva la vittoria di Gesù.
È una profezia che non concerne singoli eventi storici, ma la vicenda unitaria e sovratemporale della fedeltà a Cristo, nonostante ogni genere di tentazione e di persecuzione.
La complessa sceneggiatura simbolica che funge da trama all'opera è esposta in uno stile fortemente originale: le frasi, disposte prevalentemente in parallelismo, conferiscono un'animazione lirico-drammatica, mentre lo sviluppo dell'argomento procede a spirale, in continue riprese e superamenti di quanto affermato.
L'ultimo libro del Nuovo Testamento.
L'Apocalisse ( dal greco apokalypto, rivelo ) si presenta come opera di Giovanni ( Ap 1,1 ), ma molti studiosi ritengono che non sia stata scritta dall'autore del IV Vangelo.
Per la datazione si pensa al periodo che seguì alla persecuzione di Nerone ( 65-70 ) o alla fine del regno di Domiziano ( 91-96 ).
L'Apocalisse si inserisce in un movimento letterario e spirituale sviluppatesi sul finire dell'Antico Testamento e gli inizi del Nuovo.
E una letteratura per un tempo di crisi: i tempi sono bui e la persecuzione incombente, ma alla fine ( e questa fine è prossima ) Dio capovolgerà la situazione.
La spiritualità dell'uomo apocalittico si caratterizza, da una parte, per un profondo pessimismo nei confronti del mondo presente e delle possibilità dell'uomo; dall'altra, per un'assoluta fiducia nelle possibilità di Dio.
Consapevole dello scacco che il Regno di Dio incontra nella storia, l'apocalittico proietta la soluzione alla fine, oltre la storia.
Gli strumenti espressivi della letteratura apocalittica sono le visioni, l'apertura dei cieli, le comunicazioni degli angeli, soprattutto il simbolismo ( numeri, immagini e scene ).
Pur appartenendo al genere descritto, l'Apocalisse di Giovanni si distingue per tratti di grande originalità.
Contrariamente all'opinione popolare,
non è una Rivelazione del futuro minaccioso, anche se non mancano pagine che raccontano le sciagure che accompagnano la storia umana;
ne e una descrizione del giudizio finale e dei cataclismi che lo precedono;
ne è una serie di enigmatiche e curiose predizioni;
ne una sorta di storia universale che descrive, sia pure sommariamente e per simboli, le grandi tappe della storia, sino alla sua conclusione.
È invece una lettura profetica della storia e un messaggio di consolazione.
Si riferisce ai fatti del passato o del presente, dilatandoli e trasfigurandoli, in modo da far emergere le dimensioni nascoste e contrastanti della storia.
Tutto questo nella convinzione di alcune fondamentali certezze: la storia è saldamente nelle mani di Dio; il Cristo morto e risorto è il Signore della vita e trionfa sulla morte; Dio guida il cammino dell'umanità verso un "nuovo" mondo.
* * *
È il libro profetico del Nuovo Testamento che chiude il canone biblico.
Apocalisse ( Ap 1,1 ) = rivelazione; qui vale « manifestazione di Gesù Cristo come sovrano e giudice » ( cf. 1 Cor 1,7; 2 Ts 1,7; egual senso del verbo: Lc 17,30; A. Romeo ).
Quest'ultimo riferimento è notevole; in realtà il tema dell'Apocalisse è molto affine a quello del discorso di N. S. in Lc 17,22-18,8, non per l'annunzio della fine di Gerusalemme, quanto per la predizione delle persecuzioni che si abbatteranno sui fedeli e della perenne vittoria del regno di Dio; per l'esortazione ammonitrice alla preghiera, alla perseveranza.
Allo stesso modo l'Apocalisse riprende l'insegnamento di N. S. nell'altro discorso su la fine di Gerusalemme ( Mt 24 e passi par. ).
« Nella lotta violenta, sanguinosa e senza quartiere, che il giudaismo condurrà contro la Chiesa, non questa soccomberà, ma il primo ».
È un monito che vale per tutti i tempi; monito ripreso e svolto da s. Giovanni nell'Apocalisse: « la persecuzione accompagnerà sempre la Chiesa che ne uscirà vincitrice e purificata » ( F. Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme, 1950, p. XI.62-72 ).
« Lo scopo dell'Apocalisse è essenzialmente pratico.
La persecuzione che verso la fine del regno di Nerone diventò ufficiale, si scatenò certo con violenza anche sull'Asia Minore …
E alle Chiese di quella regione, con le quali si trovava specialmente in contatto, l'Apostolo scrisse perché non venissero meno nell'animo e nella fede.
Con l'affermazione grandiosa e sicura del trionfo finale di Dio e del suo Regno » ( G. Luzzi ).
Il paganesimo dell'impero romano, e particolarmente il culto da tributare all'imperatore ( Ap 13,11-18; Ap 14,9ss; Ap 16,2 ) trovava nel cristianesimo un'opposizione irriducibile.
Dopo la persecuzione di Nerone, la situazione era peggiorata; erano manifesti i segni di un'altra imminente tempesta contro la Chiesa.
E principalmente nell'Asia Minore dove il Cristianesimo aveva avuto un'affermazione superba, ma dove attecchivano tanti altri culti pagani.
Contro la adorazione del Dio unico e trascendente, e di Gesù l'unico Signore e Salvatore, doveva ordirsi pertanto una coalizione formidabile di tutte le forze del panteismo pagano.
Questo era il grande pericolo esterno; e in realtà, si ebbe ben presto la persecuzione di Domiziano.
Pericoli interni erano le incipienti eresie; le defezioni dei pavidi ( Ap 2,3.7.10ss.20ss. ecc. ).
I fedeli che dal Vangelo potevano dedurre che scomparso il giudaismo - primo nemico acerrimo - la Chiesa avrebbe trovato la pace ( cf. Mt 24 ), ora dopo il 70 dovevano constatare che il regno di Dio incontrava dappertutto ostacoli e persecuzioni.
Non erano state sufficienti le persecuzioni precedenti; perché Gesù non manifestava la potenza contro i nemici del suo regno?
Ed ecco la risposta di s. Giovanni.
Il trionfo del Redentore, della sua Chiesa, è sicuro; la Chiesa sarà sempre perseguitata; la lotta delle potenze delle tenebre contro di essa durerà sempre su questa terra; ma essa sarà sempre vittoriosa.
S. Giovanni parte dal nemico allora attuale, l'impero romano ( la Bestia, strumento storico del Dragone, Satana, la prostituta, Babilonia = Roma ) per predirne la sconfitta, la completa rovina ( Ap 12,18-c. 13; Ap 14,9ss; Ap 15-19 ), ed assicurare il trionfo della Chiesa, che sola rimarrà vittoriosa ( Ap 14,1-5.11-20; Ap 19,1-10; Ap 21-22,5 ).
Intorno a questa profezia centrale, s. Giovanni illustra quale è il disegno di Dio circa lo sviluppo della sua Chiesa, dagli eventi già passati ( persecuzione dei Giudei, distruzione di Gerusalemme;
persecuzione di Nerone, violenta, cruenta, ma superata ), dalla storia d'Israele che, dopo l'esilio, esperimentò contro i nemici l'intervento del Signore ( cf. Ez 38-39, Gog e Magog = Ap 20;
il periodo delle persecuzioni: tre anni e mezzo = 42 mesi, dinanzi alla perennità del trionfo di Cristo, è preso dalla durata della persecuzione di Antioco Epifane: Dn 7,25; Dn 8,14; Dn 9,27; Dn 12,7 = Ap 11,2s; Ap 12,6-14; Ap 13,5;
e tutte le altre immagini derivate dai profeti, spec. Zach., e dai vangeli sinottici ).
Quello che è necessario per i fedeli è la perseveranza ( cf. Lc 17,26-37; Mt 24,13; 1 Ts 5,1-11 ); essi devono comprendere che ogni flagello è mandato da Dio come pena vendicativa per gli empi, medicinale per tutti, e purificatrice per gli eletti ( Ap 6-9 ).
Guai a chi perde la fede, a chi decade dal primo fervore.
La venuta del Cristo per ciascuno di noi è vicina: « Io vengo come un ladro, beato colui che vigila » ( Ap 16,15 = Lc 12,37s; Mt 24,42s ); come non tarda nei suoi interventi a favore della Chiesa ( Ap 1,7; Ap 2,25; Ap 3,3 ecc.; cf. Lc 18,7s ).
Il premio, la felicità piena è in cielo ( Ap 2,3-7 ).
« Sii fedele anche a costo di morire e io ti darò la corona della vita.
Il vincitore non soffrirà danno veruno dalla morte seconda » ( Ap 2,10s ).
« Tenete fermamente quello che avete, finché io non venga » ( Ap 2,25 ecc.
« Ecco io vengo tosto, e porto meco la ricompensa per assegnarla a ciascuno secondo il suo operare » ( Ap 22,12 ).
Il tema è espresso varie volte, cf. ad es. « Essi ( i re della terra, le potenze di Satana ) moveran guerra all'Agnello; ma l'Agnello li vincerà, perché è Signore dei Signori e Re dei re; e li vinceranno pure quelli che stanno con lui, i chiamati, eletti e fedeli » ( Ap 17,14 ).
Eco della promessa di Gesù ai suoi discepoli: « Nel mondo avrete da soffrire; ma fatevi animo, io ho vinto il mondo » ( Gv 16,33; e Lc 18,7s ).
S. Giovanni procede a quadri, che spesso si corrispondono; ripigliando e sviluppando nelle visioni posteriori i temi abbozzati nelle precedenti.
L'Apocalisse si articola in una serie di visioni profetiche, spesso di difficile interpretazione, a causa del linguaggio criptico tipico del genere apocalittico, della fitta rete di simboli e immagini, dei numerosissimi riferimenti all'Antico Testamento.
Dopo la dedica e il saluto, Giovanni riferisce di aver ricevuto una visione ( Ap 1,10-20 ) in cui Cristo, apparsogli in vesti sacerdotali e regali, Principio e Fine di tutte le cose, risorto dai morti, gli aveva ordinato di trascrivere le sue visioni e inviarle alle sette Chiese d'Asia.
Ogni lettera è costruita seguendo lo stesso schema: Cristo entra in scena con il contrassegno di uno dei simboli presentati nella visione iniziale; giudica la comunità sulla sua fedeltà o i suoi cedimenti e termina con la promessa della vittoria finale.
Dopo le lettere, lo scenario passa dalla terra alla visione del trono di Dio onnipotente.
Attorno ad esso stanno ventriquattro vegliardi e quattro esseri viventi.
Giovanni scorge nella mano di Dio un rotolo sigillato, contenente il destino del mondo.
Nessuno è degno di sciogliere i suoi sette sigilli: solo l'Agnello immolato, simbolo del Cristo risorto, può aprirlo e svelarne i segreti.
All'apertura dei primi quattro sigilli, compaiono quattro cavalieri, portatori di guerra, carestia e morte.
Al quinto sigillo i martiri invocano il Signore chiedendo giustizia.
L'apertura del sesto sigillo sconvolge l'universo.
I segni cosmici descritti sono tipici della letteratura profetica per illustrare il giorno di Jahvè, ovvero il manifestarsi dell'ira divina.
Tuttavia, una folla di 144.000 persone sono segnate sulla fronte per essere preservati dai cataclismi, in vista della vita eterna ( Ap 7,9-17 ).
Dopo l'apertura del settimo sigillo, vengono consegnate sette trombe ad altrettanti angeli, che si accingono a suonarle.
Le sette trombe hanno la stessa funzione dei sette sigilli, ma i giudizi che esse annunciano sono più severi.
Essi, tuttavia, per quanto rigorosi, non sono totali, ma mirano a convertire gli uomini e ricondurli a Dio.
Risultano però inutili ( Ap 9,20-21 ).
Dopo la sesta tromba c'è una pausa: due testimoni di Cristo, compiono il loro ministero profetico per tre anni e mezzo, prima di essere martirizzati a Gerusalemme, che per questo motivo è distrutta da un terremoto.
Al suono della settima tromba compare nel cielo l'Arca dell'Alleanza: la sua apparizione rivela lo scadere degli ultimi tempi.
Entra ora in scena il contrasto tra l'Impero romano e il popolo di Dio: nel cielo appare il segno grandioso di una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle.
La mulier amicta solis è stata identificata da sempre con la Vergine Maria, anche se in essa gli esegeti moderni preferiscono vedere il simbolo della Chiesa perseguitata dalle forze del male: la donna è infatti insidiata da un enorme drago rosso, simbolo del diavolo che tenta di eliminare la donna e la sua stirpe ( Ap 12,1-18 ).
A sostegno del drago sorge dal mare una bestia, simbolo del potere politico avverso a Dio.
Essa riceve il proprio potere dal maligno ed è in apparenza indistruttibile: seduce il mondo, ma non i cristiani ( Ap 13,1-10 ).
Una seconda bestia sorge dalla terra, simile all'Agnello nell'aspetto, ma al drago nella sostanza: simboleggia la falsa religione pagana.
Questa bestia, indicata con il numero seicentossantasei, simbolo della limitatezza umana, inganna le genti e le spinge al culto dello Stato ( Ap 13,11-18 ).
Ma ecco giungere un angelo annunciante l'imminente caduta di Babilonia, divenuta, nell'Antico Testamento, simbolo di ogni impero politico opposto al popolo di Dio.
Subito dopo il Figlio dell'uomo appare sulle nubi, pronto a giudicare l'umanità.
Sette angeli versano sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio, annunciando l'imminente Giudizio universale.
L'ultimo di questim angeli mostra a Giovanni il crollo della Roma pagana, la nuova Babilonia, promotrice dell'idolatria e persecutrice dei cristiani.
Sorge spontaneo il canto di trionfo dei martiri, inneggianti alle nozze dell'Agnello: si sta per compiere la mistica unione tra Dio e la Chiesa sua sposa ( Ap 19,6-9 ).
Cristo, il Verbo di Dio, seguito dalle schiere celesti, getta nell'Inferno le due bestie e rinchiude in catene il drago.
egue la resurrezione dei martiri e il ritorno di Cristo sulla terra in vista di un suo regno di mille anni in compagnia di essi.
L'interpretazione letterale di questo passo ( Ap 20,4-6 ), sostenuta dalle sette millenariste, è stata rigettata dalla Chiesa cattolica.
Al termine dei mille anni, il drago è liberato per la sua sconfitta definitiva e il suo annientamento all'Inferno con le due bestie e i loro seguaci.
Al termine della lotta tra il bene e il male, Giovanni ammira l'Universo rinnovato e la città santa, la nuova Gerusalemme, discendere dal cielo: si realizza la perfetta allenza tra Dio e l'umanità e l'Emmanuele prende dimora tra gli uomini.
Questo passo ( Ap 21,1-8 ) racchiude tutto il messaggio dell'Apocalisse.
* * *
Si tratta di concezioni teologiche che vanno decodificate e applicate alla vita.
Accingersi a leggere il libro dell'Apocalisse non è impresa facile; infatti, ci si imbatterà in ardue difficoltà interpretative; una di queste riguarda certamente il linguaggio simbolico che veicola il messaggio del libro.
Questa difficoltà, seppur a livelli diversi, accomuna i non addetti ai lavori come gli studiosi, prova ne è la molteplicità di interpretazioni che nella storia dell'esegesi sono state date a determinate immagini simboliche.
Quest'ampia gamma interpretativa se da una parte è inevitabile, dall'altra è però rivelatrice di un mancato approfondimento delle caratteristiche peculiari del linguaggio simbolico di questo libro così misterioso e affascinante.
Un contributo notevole in questa direzione è stato apportato dal noto specialista, padre U. Vanni; vi faremo perciò ampio riferimento in questo breve articolo.
Il linguaggio simbolico non è un fenomeno nuovo per la Bibbia, le visioni simboliche di memoria profetica ( cf. Am 7-9, Zc 1-6 ), come alcuni capitoli del libro profetico-apocalittico di Daniele ( cf. Dn 2, Dn 4, Dn 7, Dn 8, Dn 10 ) hanno certamente ispirato l'autore dell'Apocalisse che vi ha fatto riferimento in modo originale.
Il dato inedito del nostro libro consiste nel fatto che il linguaggio simbolico diviene costitutivo della teologia dell'Apocalisse.
Non si può pertanto giungere ad una buona interpretazione teologica senza prima aver chiaro quale ruolo gioca tale espediente letterario nell'economia globale dello scritto.
Dobbiamo porci previamente una domanda fondamentale: perché il genere letterario apocalittico usa un linguaggio simbolico anziché quello realistico?
Pensiamo che gli elementi in gioco siano almeno tre:
1) Per la realtà trascendente di cui si parla.
L'Apocalisse presenta una teologia della storia caratterizzata dalla lotta tra la santa Trinità e le varie manifestazioni storiche del demoniaco.
Il linguaggio simbolico, avendo una valenza spiccatamente evocativa rispetto a quella propriamente descrittiva del linguaggio realistico, si rivela così propriamente adeguato per esprimere una realtà trascendente, sia essa di segno positivo che negativo, che sfugge di per sé, in qualche misura, alle capacità umane.
L'autore dell'Apocalisse per parlare della presenza e dell'azione di Dio, dell'Agnello e dello Spirito nella storia degli uomini, offre così delle suggestioni fortemente evocative veicolate, appunto, mediante la forza dell'immagine.
Lo stesso, come già detto, vale per il demoniaco organizzato nella triade satanica – il dragone ( il demonio ) e i due mostri ( le sue manifestazioni storiche ) – che tenta, grottescamente, di scimmiottare la santa Trinità.
2) Per il modo precipuo di presentare ciò che caratterizza la storia degli uomini.
La teologia della storia proposta dall'Apocalisse è, chiaramente, una delle teologie presenti nel NT, non deve perciò essere assolutizzata ma semplicemente giustapposta alle altre.
Tuttavia, non è forse azzardato affermare che è il libro neotestamentario che più di ogni altro si occupa della concretezza della storia offrendone chiavi di lettura particolarmente suggestive ( cf. per esempio, il settenario dei sigilli: Ap 6,1-17 ).
L'Apocalisse fa, infatti, esplicito riferimento alle strutture socio-politico-economiche che determinano in gran parte il destino degli uomini.
Queste strutture sono viste dall'Apocalisse in modo radicalmente negativo: rappresentano, infatti, lo strumento privilegiato dell'orditura intessuta dalla triade satanica per distogliere gli uomini dall'adorazione dell'unico vero Dio e dell'Agnello e illuderli che la vita consiste essenzialmente nel godimento dei beni transeunti.
L'uso del linguaggio simbolico, grazie alla sua frangia di indeterminatezza, permette così una « ri-lettura » continua del senso dell'immagine simbolica, rilettura esigita proprio dal mutare del processo storico; in altre parole il simbolo offre la possibilità di una perenne « attualizzazione » del messaggio apocalittico riguardo al ruolo che tali strutture giocano nel decorso della storia.
La presentazione della « città di Babilonia » ( cf. Ap 17-18 ) – simbolo sintetico del « sistema terrestre », chiuso alla trascendenza – offre alcune feconde « categorie » per una lettura profonda della realtà sociale in cui la Chiesa è chiamata a vivere in un'epoca qualsiasi.
Anzi, proprio il processo storico costituisce la condizione di possibilità per esplicitare incessantemente la fecondità dell'immagine simbolica.
In ogni epoca la comunità di fede riempirà questa sorta di « contenitore vuoto » che è l'immagine simbolica dando un nome a quelle strutture politico-economiche che « ora e qui » incarnano la triade satanica.
3) Per il coinvolgimento del destinatario.
Mentre il linguaggio realistico appella direttamente l'intelligenza del destinatario, il linguaggio simbolico sprigiona una sua forza propria che tende a coinvolgere tutta la persona: intelligenza, fantasia, emotività.
Questa « reattività » richiesta dall'immagine simbolica al destinatario viene collocata dal libro nell'ambito liturgico ( cf. Ap 1,3 ).
È un aspetto tipico della liturgia quello di stimolare i partecipanti a vivere da protagonisti quello che si sta celebrando.
Il linguaggio simbolico non fa che enfatizzare questo tratto proprio dell'esperienza liturgica: chi ascolta deve prestare attenzione, meditare, fermarsi in silenzio, comprendere, prendere una decisione che ne orienti la prassi, custodire quanto raccolto per continuare a riflettere in vista del discernimento da operare nella realtà quotidiana.
Questo coinvolgimento è stimolato dall'autore rendendo partecipe l'assemblea liturgica delle visioni di cui egli è stato gratificato ( cf. Ap 1,10 ).
Si tratta di una vera e propria esperienza « transitiva » ( cf. l'iterato passaggio dal « e vidi » … « ed ecco » = lett. « e vedi »: Ap 4,1-2 ) che permette, da una parte, all'assemblea di rivivere quel rapporto vivo e coinvolgente col Cristo risorto sperimentato in prima persona da Giovanni ( cf. Ap 1,11.19 ); dall'altra, la stimola a leggere in profondità, con un acume spirituale – con sapienza -, il senso della storia presente mediante la decodificazione delle immagini simboliche e l'applicazione delle loro « equivalenze realistiche » alla realtà in cui la comunità è immersa.
Il messaggio simbolico dell'Apocalisse esige dunque un destinatario che voglia lasciarsi coinvolgere dal messaggio che riceve, attivo, pronto, sveglio; solo a questa condizione l'esperienza apocalittica sortirà l'effetto desiderato.
La simbolica dell'Apocalisse presenta alcune costanti che, una volta individuate, permettono al lettore di operare la decodificazione del simbolo con una certa disinvoltura.
Li evidenziamo brevemente.
Questo simbolismo trova ampia applicazione nel libro, si parla ripetutamente di stelle, sole, luna, cielo, ecc.
In modo abbastanza generale possiamo affermare che esso tende a evocare una dimensione di trascendenza comune, anche se in modo diverso, alla sfera del divino come a quella del demoniaco.
Il « cielo » esprime così la zona ideale propria di Dio ( cf. Ap 3,12 ); « stella » può indicare l'angelo della Chiesa ( cf. Ap 1,20 ) come una realtà demoniaca ( cf. Ap 9,1 ) o Cristo stesso ( Ap 2,28; Ap 22,16 ).
In sintesi, il simbolismo cosmico mira a evidenziare l'incidenza determinante della trascendenza nell'esperienza storica degli uomini.
La presenza, oseremo dire strategica, di determinati fenomeni atmosferici mira a evocare un fermento di novità che, mediante l'azione trascendente di Dio, preme nella storia e la spinge verso un compimento definitivo.
È appunto il caso del riferimento alla formula quasi stereotipa: « Folgori, clamori, tuoni e terremoto » ( Ap 4,5; Ap 8,5; Ap 11,19; Ap 16,18 ).
Questo tipo di simbolismo è particolarmente importante per la teologia dell'Apocalisse, basti pensare che il Signore Gesù viene rappresentato con la figura dell'« Agnello immolato ritto in piedi » ( Ap 5,6 ) e il demoniaco come un « drago » ( Ap 12,3 ) al cui seguito si pongono due « mostri » che escono dal mare ( Ap 13,1.11 ) – il potere politico-economico e la propaganda di stato a servizio dell'ideologia -.
Caratteristica tipica del simbolismo teriomorfo è di indicare una realtà trascendente che sfugge a un tentativo di comprensione chiara e distinta da parte dell'uomo: il bene promosso dalla santa Trinità come il male ordito dalla triade satanica sono sottoposti ineludibilmente a una certa opacità.
Ciò che l'autore vuole comunicare con forza alla sua Chiesa è che nonostante questi « vuoti » di comprensibilità da parte dell'uomo il corso della storia avrà un esito positivo per la vittoria conseguita, paradossalmente, dall'« Agnello immolato » ( Ap 19,11.16 ), anche se nel frattempo le forze del male, condannate alla sconfitta ( Ap 12,11 ), possono apparire vincenti ( Ap 11,10 ).
Anche i colori svolgono una funzione particolare all'interno della trama simbolica del libro.
In questo caso il colore, anche se come gli altri simboli rimanda ad altro da se, svolge la sua funzione proprio in quanto colore, premendo cioè sulla sensibilità visiva del destinatario.
In primo luogo il « bianco »: indica la trascendenza divina ( Dn 7,9 ) realtà propria del Risorto ( Ap 1,14.18 ) partecipata ora ai credenti ( Ap 3,4; Ap 4,4; Ap 6,11 ).
Gli altri colori, rosso, nero, verdastro, ecc., possono essere compresi nella loro specificità solo grazie al contesto immediato.
Come esempio basti richiamare il colore dei cavalli che appaiono nello scioglimento dei primi quattro sigilli:
il cavallo « rosso fuoco » ( cf. Ap 6,4 ) evoca una situazione di scontro tra gli uomini tipico della guerra;
quello « nero » ( cf. Ap 6,5 ) una dimensione « oscura » qual è l'ingiustizia sociale;
infine, quello « verdastro » ( cf. Ap 6,7 ) fa riferimento esplicitamente, ma più in generale rispetto agli altri colori, alla morte, l'esperienza di radicale caducità propria di ogni uomo.
L'autore dell'Apocalisse si serve anche dei numeri per veicolare il suo messaggio.
Caratteristica di questa costante simbolica è il passaggio che il lettore deve fare dalla valenza « quantitativa » del numero a quella « qualitativa ».
Per esempio, quando si vuole indicare l'identità del popolo di Dio si usa la cifra 144.000 ( Ap 14,1-5 ): essa è, con buone probabilità, il risultato della moltiplicazione di 12x12x1000.
Il 12, richiamato due volte, evoca l'unità storico-salvifica tra le dodici tribù d'Israele e i dodici apostoli, mentre il numero 1000 è il segnale tipico del tempo proprio di Dio e del Cristo che si fa già presente nella storia ( Ap 20,1-6 ).
Un altro esempio ci viene dalla ripetizione quasi ossessiva del numero 7 e della sua metà 3 e ½.
Il primo è un indicatore di totalità - sette Chiese, sette sigilli, sette trombe, sette coppe -, mentre il secondo segnala una parzialità; quando si riferisce al tempo viene espressa anche attraverso i giorni [ 1260 ] o in mesi [ 42 ].
L'indicazione di un tempo parziale può avere sia una valenza positiva, indicando un tempo definito ( cf. Ap 11,3; Ap 12,6 ), che negativa, indicando l'ineluttabile fallimento cui sono destinate le forze del male ( Ap 6,11; Ap 20,3 ).
Abbiamo lasciato per ultimo questo tipo di simbolismo per accennarvi appena data la grande quantità di elementi che troviamo in questo ambito specifico: il vestiario, l'atteggiamento del corpo ( in piedi, seduto, ecc. ), la relazione tra gli uomini ( la città ) e quella degli uomini con Dio ( il culto ), sono solo alcune delle costanti simboliche antropologiche presenti nel libro.
Basti, quindi, un esempio: quello delle vesti.
L'autore fa indossare sia a Cristo sia ai credenti delle vesti bianche per rivelarne l'identità profonda; la veste rende così esplicito ciò che non appare.
Sia Cristo che i credenti possono e devono essere compresi nella loro identità e dunque nella loro missione a partire dalla loro veste.
Lo stesso abito ( himàtion ), per esempio, viene indossato da Cristo ( Ap 19,16 ) e dai cristiani ( Ap 3,4; Ap 16,15 ) a indicare la compartecipazione della vita divina propria della resurrezione, e, di conseguenza, l'impegno che li accomuna nella missione-testimonianza.
Se Cristo ha scritto sulla sua veste il titolo: « Re dei re e Signore dei signori » ( Ap 19,16 ), i credenti sono chiamati ad apportare il loro contributo all'instaurarsi della signoria dell'Agnello grazie alla loro vigile testimonianza: « Beato chi veglia e custodisce le sue vesti » ( Ap 16,15 ).
L'analisi delle immagini simboliche conduce all'individuazione di una triplice « struttura simbolica » che deve essere accuratamente « smontata », elemento per elemento, se si vuol raggiungere l'autentico messaggio dell'autore.
Li presentiamo con tre esempi:
I quattro cavalli del settenario dei sigilli ( Ap 6,1-8 ).
I tre « elementi » della « struttura simbolica » sono i tre diversi tipi di simbolismo: ( a ) teriomorfo: cavallo; ( b ) cromatico: bianco; ( c ) antropologico: cavaliere, arco, corona, vittoria.
L'interpretazione conduce alla seguente equivalenza realistica: la forza della trascendenza divina, non pienamente verificabile per mezzo delle facoltà umane – simbolismo teriomorfo -, immette nella storia il dinamismo proprio dell'energia della risurrezione – simbolismo cromatico – conducendola verso un esito positivo – simbolismo antropologico della vittoria ( cf. Ap 19,16 ).
La presentazione di Cristo risorto ( Ap 1,12-16 ).
Vi sono dei « vuoti » tra i vari elementi simbolici che devono essere « riempiti » dall'impegno interpretativo del destinatario.
Quando, ad esempio, si dice che il « Figlio dell'uomo sta in mezzo ai candelabri » ( Ap 1,13 ) si deve fare uno sforzo interpretativo tendente a colmare la lacuna descrittiva: si dovranno disporre i sette candelabri come in cerchio e il Figlio dell'uomo ne occuperà il centro; l'equivalenza realistica indica la presenza di Cristo risorto in mezzo alla sua Chiesa, soprattutto durante l'azione liturgica.
Dopo questa pausa integrativa si potranno disporre le altre equivalenze realistiche senza sforzi interpretativi particolari.
Al v. 16 c'è di nuovo un « vuoto » da colmare: « Avente sette stelle nella mano »; questa miscela di simbolismo cosmico-aritmentico e antropologico appare eterogenea e non è accolta subito nella mente.
Occorre una nuova pausa.
I singoli elementi devono essere elaborati nelle loro equivalenze: il quadro che ne risulta è intellettuale-teologico: il Cristo risorto garantisce con la sua energia ( tiene nella destra ) tutta ( sette ) la dimensione trascendente della Chiesa ( stelle ).
Così è della « spada affilata che esce dalla bocca »; la difficoltà che presenta tale rappresentazione fantastica spinge a una elaborazione intellettuale dei singoli elementi simbolici: Cristo indirizza continuamente la sua parola alla Chiesa, una parola che ha un'incisività tutta particolare ( spada ).
Anche la frase che segue, la « faccia di Cristo risplendente come il sole », non è facilmente componibile con la spada che esce dalla bocca.
Si ha, quindi, un'evidente frattura con ciò che precede: la spada che esce dalla bocca deve essere come « cancellata », lasciando la fantasia sgombra per accogliere la nuova immagine con tutta la sua forza espressiva.
E questo il modo più comune con cui l'autore costruisce i suoi simboli: ogni singolo elemento ci si presenta allo « stato grezzo », deve essere decodificato ed elaborato; tra l'uno e l'altro abbiamo una discontinuità fantastica che presenta dei « vuoti » che esigono un'interpretazione.
Ogni elemento, dopo essere stato interpretato deve essere messo da parte, e così via.
In questo caso l'interpretazione eccede sull'espressione simbolica.
L'uva gettata nel tino dell'ira di Dio ( Ap 14,19-20 ).
Il sangue che esce dal tino non è un'immagine conseguente – la continuità fantastica è interrotta -: tra il vino, il tino dell'ira e il sangue ci sono degli spazi vuoti da colmare ( simbolismo spezzato ).
Il simbolismo antropologico dell'uva si riferisce alla maturazione del male nell'umanità; il tino si riferisce, sempre nell'orizzonte del simbolismo antropologico, al coinvolgimento di Dio nella vicenda umana; e il sangue, ulteriore elemento del simbolismo antropologico, riguarda l'annientamento di tutto il male, dei nemici.
Ciò che segue è però refrattario a un'interpretazione: « Ne uscì sangue dal tino fino all'altezza dei morsi dei cavalli per uno spazio di 1600 stadi » ( Ap 14,20b ).
L'autore ha voluto, mediante questa ridondanza, solo accentuare quanto detto prima, dando un'impressione della potenza spaventosa di Dio, com'è espressa dalla quantità del sangue.
Così in Ap 9,16 la ridondanza iperbolica del numero crea solo un'impressione, non esprime un significato.
Anche in Ap 21,19-20 l'indicazione delle diverse pietre preziose con cui è costruita la città santa ripetuta per ben dodici volte indica il « valore » di Dio che comunica la sua gloria alla città.
La ridondanza, anche qui, moltiplica il significato di fondo.
Troviamo, al contrario del secondo caso, un eccesso della simbolizzazione sull'interpretazione.
Il simbolismo dell'Apocalisse determina soprattutto il suo tipo di teologia.
Se è possibile elaborare formulazioni concettuali per esprimerla, è pur vero che esse per l'Apocalisse sono astrazioni, sia pure legittime.
Lo specifico dell'Apocalisse consiste nel fatto che le sue concezioni teologiche sono espresse creativamente mediante il simbolo da decodificare e applicare alla vita.
Siccome l'interpretazione del simbolo esige un coinvolgimento di tutta la persona, con una creatività interpretativa che la sintonizza con quella dell'autore e con tutto il peso della concretezza della storia, la teologia specifica dell'Apocalisse sarà quella che prenderà corpo nel soggetto decodificante e ne recherà l'impronta.
Simbolo forgiato creativamente dall'autore, decodificazione operata dal destinatario per applicarne l'equivalenza realistica al contesto storico, sono i tre aspetti che compongono il triangolo ermeneutico che segna la specificità della teologia dell'Apocalisse.
* * *
Un primo sguardo alla mistica dell'Apocalisse rischia di risultare deludente.
La bibliografia sull'Apocalisse, oggi particolarmente copiosa riguardante sia l'insieme, sia settori specifici di ricerca - come la storia, gli aspetti letterari e linguistici, la teologia, ecc. - dedica al tema della mistica solo un'attenzione sporadica, dando così l'impressione che la dimensione propriamente mistica sia assente o quanto meno marginale.
Questa impressione si fa più acuta quando si rilevano nel testo degli elementi che, almeno a una prima lettura, fanno pensare a una situazione di misticismo.
Si parla di esperienze straordinarie vissute dall'autore che alcune traduzioni interpretano come estasi e il contenuto che egli esprime appare, sempre a una prima lettura, collocato nella cornice di una visione protratta.
Ma è proprio il misticismo degli stati estatici e delle visioni quello da ricercare nell'Apocalisse?
Un esame più ravvicinato porta ad un approfondimento.
Lo stato estatico di cui si è parlato è, di per sé, un contatto in profondità con lo Spirito, i cui effetti esigono di essere ulteriormente precisati.
Le visioni sono anzitutto un espediente letterario tramite il quale l'apocalittico veicola il suo messaggio in termini simbolici.
Non c'è nell'Apocalisse un misticismo scontato, di prima mano.
Ma proprio il contatto con lo Spirito e il linguaggio simbolico usato introducono a quella che è una esperienza mistica vera e propria, tipica dell'Apocalisse
La potremmo formulare, come punto di partenza, quasi come ipotesi di lavoro, in questi termini: sotto l'influsso dello Spirito si parte dal livello usuale di una vita di fede, si raggiunge un contatto diretto - ultra razionale e ultra concettuale - con Cristo, con Dio e con la trascendenza.
Si forma quindi, sotto un influsso particolare dello Spirito, un'espressione di ritorno che, tramite il simbolismo, tende a coinvolgere il lettore e l'ascoltatore nello stesso giro.
Questa formulazione articolata, suggerita da un esame del testo, dovrà essere riportata a contatto diretto col testo stesso e verificata, sia nella prima che nella seconda parte del libro.
La prima parte dell'Apocalisse ( Ap 1,4-3,22 ) presenta uno sviluppo letterario ascendente.
L'autore, come è noto, non ci dà un messaggio astratto, ma propone un'esperienza, di cui l'assemblea liturgica è protagonista.
L'assemblea in una prima fase si concentra mediante un dialogo liturgico con il lettore che l'accoglie ( cf Ap 1,4-8 ); quindi si incontra col Cristo risorto ( cf Ap 1,9-20 ); in una terza fase conclusiva, sottomettendosi al giudizio e all'azione di Cristo risorto, viene tonificata e posta in grado di cooperare alla vittoria di Cristo e di prestare ascolto al messaggio dello Spirito ( cf Ap 2-3 ).
E all'inizio della seconda fase che avviene il passaggio dal livello usuale dell'esperienza cristiana a quello propriamente mistico.
L'autore, parlando in prima persona secondo lo stile apocalittico, fa un quadro della sua situazione secondo le coordinate spazio temporali: si trova relegato « nell'isola di Patmos » ( Ap 1,9 ) fisicamente diviso dalla sua comunità, con la quale, tuttavia, si sente in una comunione quanto mai stretta.
La coordinata temporale è particolarmente importante: riguarda il « giorno del Signore » ( Ap 1,10 ), la domenica, nel quale già al tempo dell'Apocalisse si riuniva l'assemblea cristiana per commemorare e rivivere la risurrezione.
In questa situazione accade un fatto rilevante: Giovanni « diviene », è trasformato nello Spirito.
L'effetto di questa trasformazione non è una situazione extracorporea che si determina, ma una capacità nuova di rapportarsi a Cristo risorto, già creduto presente in mezzo all'assemblea liturgica, a un livello che supera le apparizioni di Gesù risorto sia dei sinottici sia di Giovanni.
Il Cristo risorto viene contattato in maniera diretta e immediata, ma a un livello che va oltre la percezione visiva e uditiva normale.
Nelle apparizioni dei Vangeli, i discepoli, con tutta la gamma delle reazioni umane, vedono, ascoltano, toccano il Risorto, si rallegrano con lui.
Qui il rapporto è ad un altro livello.
Giovanni qui percepisce una voce la quale esprime per lui un messaggio comprensibile in termini umani ( cf Ap 1,11 ), che viene ascoltata, ma è « come di tromba che parla ».
La combinazione, impossibile nel linguaggio umano corrente, della « tromba » e del « parlare » fa scattare l'ineffabile: Giovanni percepisce nella voce che lo interpella la presenza immediata di Dio che nelle teofanie veterotestamentarie era annunciata a suono di tromba.
Un altro tratto di ineffabilità emerge quando Giovanni si volta indietro « per vedere la voce ».
L'espresssione combina di nuovo due aspetti - il « vedere » e « la voce » - in una sintesi meta concettuale che, ancora più esplicitamente della tromba, punta verso la trascendenza.
Nella letteratura rabbinica troviamo un'identificazione, giustamente richiamata da Charlesworth a proposito di questo testo, tra la voce, la parola e Dio stesso.
Qui il vedere la « voce che stava parlando con me » ( Ap 1,12 ) comporta un contatto diretto, dialogico, tra Giovanni e Cristo che parla, ma situato e avvertito a livello di trascendenza.
La « voce veduta », che mette in un rapporto immediato e di reciprocità dialogica con la trascendenza, viene esplicitata.
Riprendendo lo stesso verbo con cui Giovanni affermava di essersi « voltato per vedere la voce » ( Ap 1,12a ), egli ci dice che, « voltatosi » ( Ap 1,12b ) vede « sette candelabri d'oro e in mezzo ai candelabri un corrispondente figlio di uomo, vestito di una veste lunga fino ai piedi e cinto al petto di una fascia d'oro » ( Ap 1,12b-13 ).
Anche se, a prima lettura, si tratta di un quadro ricostruibile, in realtà l'autore si esprime in termini che oltrepassano il giro visivo.
Giovanni percepisce di più, va e trascina il gruppo di ascolto oltre il livello usuale e concettuale: quello che avverte e vuole trasfondere è il senso incomunicabile a parole del rapporto tra Cristo risorto e la sua Chiesa.
Questa è vista come un insieme in atto liturgico « sette candelabri d'oro »; il Cristo risorto, realizzando l'intuizione di Dn 7,13 su un « figlio di uomo », è presente in mezzo ad essa e svolge la sua funzione sacerdotale.
Ma non basta.
Nei versetti seguenti vengono sottolineati alcuni punti di contatto caratteristici, l'autore li introduce con un « come »: la particella non ha nell'Apocalisse un semplice valore comparativo, ma fa pressione sul soggetto interpretante portandolo a interpretare la realtà che gli viene presentata - si tratta costantemente di una realtà trascendente - alla luce di una realtà percettibile a livello umano, che viene trasformata creativamente, diventando un simbolo.
E un modo con cui Giovanni introduce nella meta concettualità.
Questi versetti indicano alcuni aspetti dell'impatto con il Cristo risorto: la sua testa e i suoi capelli bianchi, e di un bianco particolarmente accentuato ( « come lana bianca, come neve », Ap 1,14 ), da una parte riprendono alla lettera Dn 7,13, ma - con sorpresa - non sono più i tratti caratteristici del Figlio dell'uomo, già identificato con Cristo, ma addirittura quelli dell'« anziano dei giorni » ( Dn 7,13 ), di Dio.
Cristo risorto è percepito, in continuità con la « voce veduta » a livello della trascendenza divina, tutto compenetrato da essa.
L'insistenza accentuata sul bianco, nell'Apocalisse costantemente rapportato alla risurrezione, ci dice che Giovanni sente il Cristo presente nell'assemblea come risorto.
Questa qualifica penetra in lui, lo avvince, lo riempie: tutto in Cristo è una risurrezione che si irradia.
Seguono dei tratti caratteristici, tutti espressivi dello stesso livello nel quale Cristo risorto è situato e della intensità con la quale è sentito costantemente, introdotti da « come » si riferiscono al rapporto col fuoco, ripetutamente affermato - « i suoi occhi come fiamma di fuoco », Ap 1,14; « i suoi piedi come bronzo incandescente », Ap 1,15 - che indica, sulla scorta del simbolismo del fuoco riferito alla trascendenza, l'amore scottante di Cristo Dio.
Giovanni ne prende coscienza, ma non può esprimerlo che in questi termini meta concettuali.
Tale amore supera ogni logica umana.
E ci sono ulteriori dettagli di questa esperienza di Cristo risorto, Dio, veicolata dallo Spirito.
Si insiste sulla voce percepita « come voce di molte acque » ( Ap 1,15 ): la ripresa letterale di Ezechiele ( cf Ez 1,24 ) esplicita che si tratta della voce stessa di Dio.
Notiamo che Cristo ha già parlato ( cf Ap 1,11 ) e che riprenderà a parlare in seguito ( cf Ap 2,1ss ).
Ciò rende il richiamo ancora più rilevante: la sua è e sarà parola di Dio, con tutta l'efficacia che le è tipica, e come tale produrrà degli effetti che superano l'impatto della parola umana: è quanto viene suggerito con una combinazione di elementi simbolici che, impossibile a livello di esperienza umana, spinge decisamente verso l'alto: « E dalla sua bocca stava uscendo una spada a due tagli, affilata » ( Ap 1,16b ).
E la parola di Cristo risorto che possiede una sua capacità di penetrazione al di là di ogni supposizione umana.
Cristo - un ultimo dettaglio di questa esperienza di lui che Giovanni sta facendo e proponendo - si occupa della sua Chiesa e vi impegna il meglio delle sue risorse: la dimensione trascendente, « stellare », che compete alla Chiesa è tenuta saldamente dalla « sua destra » ( Ap 1,16a ).
L'autore avverte per la Chiesa in tutto il suo complesso una presenza forte, proteggente, in cui si può confidare senza paura e senza limiti, una forza impegnata e a disposizione.
La forza, appunto, di Cristo.
Il contatto meta concettuale con Cristo risorto viene riassunto in un'espressione conclusiva: « E il suo aspetto come il sole splende nella sua potenza » ( Ap 1,16c ).
La frase in corrispondenza con quanto ritroviamo nella trasfigurazione ( cf Mt 17,2 ), fa sentire il fascino irresistibile e la forza penetrante di Cristo risorto.
L'esperienza iniziale di Cristo risorto si protrae per tutta la prima parte del libro ed emerge in modo particolare nelle « lettere » alle chiese ( cf Ap 2-3 ).
In ciascuna di esse il Cristo risorto, parlando in prima persona, fa una presentazione di se stesso, introdotta dall'espressione « così dice » ( táde léghei ) che riprende una frase usuale nell'AT dove viene attribuita a Dio.
In Cristo risorto che parla, di conseguenza, si esprime Dio stesso.
E la « voce veduta » di Ap 1,12 che si protrae e si fa sentire per tutta la prima parte dell'Apocalisse
Tutta la prima parte ha questa dimensione mistica come sua struttura portante.
Ne sono una conferma due fatti.
Nel corpo delle singole « lettere » emergono elementi di un rapporto con Cristo risorto che oltrepassano la soglia del concettuale.
Alla chiesa di Pergamo viene promessa da Cristo una « pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno comprende all'infuori di chi lo riceve » ( Ap 2,17 ).
C'è una comprensione del « nome nuovo » di Cristo - il nome che implica la risurrezione - la quale scatta solo a livello di reciprocità intersoggettiva, quando il nome viene donato e ricevuto.
L'estremismo proprio del linguaggio dei fidanzati con cui Cristo parla alla chiesa di Laodicea trova una chiave di comprensibilità non nel gioco dei concetti, ma nell'esperienza tormentosa dell'amore ( cf Ap 3,14-22 ).
Un secondo aspetto mistico di questa prima parte è dato dall'efficacia che la parola di Cristo è capace di esplicare.
Gli imperativi che Cristo rivolge alla chiesa ( « convertiti »: Ap 2,5.16; Ap 3,3.19; « mantieni con forza ciò che hai » ecc. ) tendono a produrre in essa ciò che esprimono.
Le chiese, tutte diverse come punto di partenza nella loro posizione morale, sono, alla fine, tutte ugualmente, nella forma ottimale per ascoltare il linguaggio dello Spirito e collaborare con la vittoria di Cristo.
Qualcosa è accaduto durante lo sviluppo della lettera: ha avuto luogo una trasformazione ultraconcettuale, mistica, analoga a quella strettamente sacramentale.
All'inizio della seconda parte dell'Apocalisse viene sottolineato un passaggio dal livello terrestre a quello della trascendenza: Giovanni vede « una porta già aperta nel cielo » ( Ap 4,1 ), una comunicazione stabilita in virtù di Cristo risorto e asceso al cielo tra la trascendenza e l'immanenza.
E proprio la voce di Cristo invita Giovanni - e con lui tutto il gruppo di ascolto che sta compiendo la seconda grande fase dell'esperienza apocalittica - a salire al cielo per mettersi dal punto di vista proprio di Cristo risorto, quasi a condividere, per usare un'espressione paolina ( cf 1 Cor 2,16 ), l'intelletto di Cristo stesso per una valutazione sapienziale della storia.
A questo punto si verifica un nuovo contatto con lo Spirito: « Subito divenni nello Spirito » ( Ap 4,2 ).
Il « divenire », che anche qui comporta una trasformazione, è rapportato all'esperienza che segue immediatamente ed ha per oggetto Dio.
Ritroviamo lo schema indicato all'inizio, ma espresso in una forma ancora più articolata.
Partendo da una situazione pienamente positiva - quella realizzata nel gruppo di ascolto dall'azione di Cristo risorto in Ap 2-3 - si ha prima l'invito a compiere il passaggio verso la trascendenza; l'invito si realizza sotto l'influsso dello Spirito e si stabilisce, quindi, un rapporto diretto con la trascendenza stessa - simboleggiata dal « cielo » - che rimarrà costante, fino a quando, con l'apertura totale del cielo, quelle che sono attualmente la trascendenza e l'immanenza tenderanno a coincidere.
Abbiamo, quindi, un livello mistico, nel senso indicato, che si mantiene costante e si esprime in un linguaggio simbolico proprio dello Spirito confermato dal fatto che l'autore interrompe, talvolta, il filo espositivo, quasi ritornando sulla terra, per rivolgersi direttamente all'assemblea liturgica e tradurre in termini concettuali usuali il contenuto espresso nel simbolo.
Esaminiamo alcune punte emergenti di questo livello mistico, seguendo la struttura del libro.
La prima esperienza di contatto con la trascendenza è espressa in maniera caratteristica e vale la pena guardarla da vicino: « Ed ecco un trono era posto nel cielo e sul trono un personaggio seduto e il personaggio seduto corrispondeva a guardarlo al diaspro e alla cornalina e l'arcobaleno era intorno al trono e corrispondeva allo smeraldo » ( Ap 4,3 ).
Il trono è simbolo dell'impatto attivo che Dio ha sulla storia.
Tale impatto non viene né specificato in dettaglio, né espresso mediante categorie concettuali: tutto questo non sarebbe possibile, trattandosi di un'azione propria di Dio.
Esso viene fatto avvertire e percepire mediante il riferimento alla categoria umana del trono e della sua funzione.
Sul trono c'è « un personaggio seduto ».
L'autore lo percepisce e lo vuol far percepire nella sua identità personale e a questo scopo si rifà ad un'esperienza che, pur partendo dall'AT, egli elabora in proprio.
Ha una predilezione per le perle preziose, ma non gli interessa il loro valore commerciale.
Gli piace guardarle: come spiegherà più dettagliatamente in Ap 21,11 - ci dovremo occupare dettagliatamente in seguito di questo brano - la pietra preziosa che, colpita dalla luce, emette un bagliore caratteristico che affascina: questo bagliore risveglia in Giovanni l'esperienza di Dio.
Infatti, il « personaggio seduto » sul trono è, indubbiamente, Dio stesso.
Giovanni volge il suo sguardo verso di lui, ma non ne descrive le fattezze e neppure il vestito come fa Isaia, ma si limita a dire, con una certa ridondanza, che proprio guardando il personaggio, la sensazione che se ne ha corrisponde a quel senso di gioia che viene comunicato dallo splendore delle pietre preziose.
L'autore qui ne enumera tre, tutte con lo stesso effetto di fondo: la bellezza ineffabile del loro riflesso quando sono colpite dalla luce suscita ripetutamente un'esperienza viva di Dio, ovviamente intraducibile in concetti.
Tutto ciò acquista ancora più rilievo per il fatto che l'esperienza delle pietre preziose è intramezzata da una indicazione simbolica che, invece, è concettualizzabile: si tratta dell'arcobaleno, segno chiaro ed inequivocabile dell'alleanza ( cf Gen 9,13 ), che si trova intorno al trono di Dio.
E intorno al trono, in connessione col trono, troviamo i ventiquattro anziani, i quattro viventi, il mare di cristallo, i lampi e i tuoni: questo fatto comunica loro un'impronta di trascendenza.
L'esperienza immediata di Dio, percepito come il « personaggio seduto sul trono », lascia una traccia indelebile nell'autore: parlando di Dio, per ben quarantaquattro volte egli la rievocherà indicandolo semplicemente come « il personaggio seduto », a cominciare da Ap 4,2-3.
Anche nei riguardi di Cristo non meno che nei riguardi di Dio troviamo, nella seconda parte dell'Apocalisse, un'esperienza tipica che supera il livello concettuale ed è fondamentale: si tratta di Cristo presentato come agnello in Ap 5,6.
E una seconda punta di misticismo emergente: « Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro viventi e dai vegliardi un Agnello come immolato.
Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette Spiriti di Dio mandati su tutta la terra » ( Ap 5,6 ).
La preparazione della presentazione di Cristo agnello che inizia e si sviluppa in crescendo ( cf da Ap 5,1 a Ap 5,5 ) e la dossologia solennissima che segue ( cf Ap 5,8-14 ) sottolineano l'importanza della « visione » dell'agnello, intesa come un'esperienza multipla di Cristo che supera la soglia della concettualità, entrando esplicitamente nell'ambito della mistica.
Ce lo dice l'ingombro che si determina nella mente quando si tenta, a una prima lettura, di costruire un quadro coerente di insieme: i tratti simbolici indicati, a cominciare dalla posizione dell'agnello fino alle sue caratteristiche individuali, tendono a respingersi a vicenda.
Siamo di fronte a un messaggio meta concettuale.
Il simbolismo che lo esprime, data la sua struttura discontinua, esige di essere decodificato in una maniera caratteristica: i singoli tratti simbolici devono essere elaborati.
Ciò ne comporta un'assimilazione vitale, quasi una ri-creazione interiore la quale, una volta realizzata, elimina il tratto simbolico iniziale lasciando nella mente lo spazio per quello che segue.
Per specificare maggiormente questo punto importante, il primo tratto simbolico, « e vidi in mezzo al trono circondato dai quattro viventi », fa pressione sul soggetto interpretante il quale, meditando sul ruolo di Cristo nella storia, ne avverte la centralità insostituibile.
A questo punto potrà passare ai tratti successivi, rinnovando lo stesso procedimento.
Il soggetto interpretante, di conseguenza - qui il gruppo di ascolto - assimila così, assorbendola a più riprese, ricreandola in se stesso, l'esperienza di Cristo agnello che Giovanni gli comunica.
Ma c'è un aspetto che supera ancora più decisamente la soglia della concettualità fino ad esprimere una contraddizione: Cristo agnello è visto « in piedi come immolato ».
Un agnello ucciso non può stare ritto: in più la particella « come », secondo l'uso tipico che ne fa l'Apocalisse rilevato più sopra, mette in un rapporto stretto di una corrispondenza da scoprire i due elementi che unisce.
Cristo agnello « in piedi » - col valore trasparente di risorto - viene messo nel rapporto di una corrispondenza da interpretare con Cristo protagonista della passione e soprattutto della morte ( « come ucciso » ).
Tale rapporto, che esprime una simultaneità tra la risurrezione e la morte, sfugge a una collocazione logica: viene avvertito e sperimentato nell'ambito dell'assemblea liturgica dove il Cristo, presente e attivo come Signore, partecipa le virtualità della sua morte e della sua risurrezione.
Cristo agnello, di conseguenza, è simultaneamente morto e risorto in senso applicativo: nello stesso contesto dell'assemblea liturgica si comunicano e vengono partecipate la sua morte e la sua risurrezione.
Ma si tratta di un contatto, quasi di una osmosi vitale, che, come tale, supera il rapporto dei concetti.
Questa esperienza è talmente radicata nell'autore da portarlo a fare dell'« agnello » un simbolo cristologico permanente in tutta la seconda parte del libro.
Come la « visione » mistica di Cristo di Ap 1,9-20 si prolunga in tutta la prima parte, così la figura di Cristo agnello ritornerà altre ventotto volte nell'arco della seconda.
E come un filo di misticismo che l'attraversa tutta in diagonale, al punto che sarà impossibile comprendere adeguatamente i singoli contesti in cui ricorrerà il termine senza un richiamo esplicito di tutto il quadro presentato in Ap 5,6.
Tutto questo, poi, è accentuato dal fatto che l'« agnello » appartiene alla categoria del simbolismo teriomorfo: ciò comporta una fascia al di sotto della trascendenza di Dio, ma al disopra della possibilità di verifica da parte dell'uomo.
La figura dell'agnello, le sue attribuzioni, la sua attività non potranno essere comprese ed espresse adeguatamente a livello umano.
C'è un di più, una qualche trascendenza rispetto alle leggi comuni e note: tutto questo conferma il quadro mistico nel quale troviamo situata la figura di Cristo agnello.
L'Apocalisse presenta, sotto il profilo letterario, un asse di sviluppo che, partendo dalla situazione concreta del presente per sfociare in quella escatologica, comprende anche l'esperienza meta concettuale, mistica, delle realtà trascendenti.
E si ha uno schema in crescendo: si parte dall'esperienza di Cristo risorto che avviene sulla terra, « nell'isola di Patmos » ( Ap 1,9 ); si passa poi all'esperienza di Cristo e di Dio non più situata sulla terra, ma nella zona della trascendenza di Dio, il cielo, nel quale però c'è solo una « porta aperta » ( Ap 4,1 ); nella sezione conclusiva troviamo tutto il « cielo aperto » ( Ap 19,11 ) in permanenza, permettendo così un contatto pieno e continuato con la trascendenza.
Questo movimento confluisce, dopo la piena disattivazione del male, nella Gerusalemme nuova: ed è a questo punto che anche l'esperienza mistica dell'Apocalisse raggiunge il suo culmine.
Ce lo dice anzitutto il simbolismo a « struttura ridondante », che viene usato qui con particolare insistenza: l'autore avverte la difficoltà di comunicare adeguatamente la realtà trascendente con cui sta a contatto e moltiplica, ripetendolo, il referente simbolico: l'oro e le pietre preziose.
Venendo al contenuto, l'autore dell'Apocalisse, con un'audacia senza precedenti, presenta e vuol far condividere nella Gerusalemme nuova di Ap 1,1-22,5 la sua intuizione geniale di un superamento di quella barriera che, nell'esperienza umana usuale, è interposta tra il livello dell'uomo e quello di Dio: siamo al culmine della sua mistica.
Vale la pena seguirlo da vicino.
La presentazione della Gerusalemme nuova, avviene in due fasi che si succedono con ritmo ascendente.
Proprio perchè il cielo è aperto, quindi, c'è una comunicazione illimitata con Dio e il mondo suo proprio, il linguaggio umano che la veicola sarà necessariamente simbolico, con quelle pressioni dal di dentro che abbiamo già rilevato e che tendono a far rivivere nel soggetto interpretante ciò che esprime.
E quanto troviamo già nella prima fase ( cf Ap 21,1-8 ).
Giovanni « vede » un cielo nuovo, una terra nuova e constata l'assenza del mare: tutte immagini simboliche per dire e inculcare che la realizzazione finale dell'opera creatrice di Dio comporterà da una parte il superamento di tutto il male attuato nella storia sotto l'influsso del demoniaco e, dall'altra, una realtà tutta pervasa dalla novità propria di Cristo risorto.
Un passo ulteriore si ha quando, sempre nell'ambito della prima presentazione della Gerusalemme nuova, si dice di quest'ultima che scende dal cielo, da Dio già preparata, corrispondente a una fidanzata ornata per il suo uomo ( cf Ap 21,2b ).
La città indica la vita condotta insieme dal popolo di Dio, la convivenza: ma quando alla convivenza viene attribuita la situazione di un fidanzamento che sta per concludersi, si crea una tensione all'interno del linguaggio: una città non è raffigurabile neppure simbolicamente come una fidanzata.
Questa divaricazione espressiva trova la sua radice in un'esperienza che Giovanni vuole comunicare.
Tale esperienza riguarda da una parte il popolo di Dio: Giovanni lo sente, più che pensarlo, talmente unito e legato da un vincolo di amore a livello orizzontale da farne una sola persona; nello stesso tempo avverte con particolare intensità l'amore paritetico tra due sposi e lo proietta su Cristo agnello e sul nuovo popolo di Dio.
In un ultimo passo della prima presentazione, l'autore qualifica la Gerusalemme nuova come « la dimora di Dio con gli uomini » ( Ap 21,3a ), ribadendo esplicitamente che Dio abiterà nella tenda insieme a loro ( cf Ap 21,3b ).
La convivenza paritetica, affermata ma non descritta, comporta una realizzazione ottimale dell'alleanza e la scomparsa di ogni forma di dolore.
Giovanni suggerisce tutto questo comunicando al gruppo di ascolto a cui costantemente è indirizzato il messaggio, il senso acuto di Dio che lo porta ad affermare: « Lui stesso, Dio con loro, sarà il loro Dio ».
Dio, secondo quello che Giovanni sente e vuole partecipare, non solo non è indifferente alle vicende degli uomini ma, personalmente, « tergerà ogni lacrima dai loro occhi » ( Ap 21,4 ).
La presentazione si conclude con un richiamo all'esperienza di Dio « seduto sul trono », di Ap 4,2-3, - è l'ultima ricorrenza di kathémenos che incontriamo nella quale l'autore vuole coinvolgere il gruppo di ascolto.
E Dio « seduto sul trono » parla qui esplicitamente, interpretando in prospettiva cristologica la sua attività creatrice: « E colui che siede sul trono disse: « Ecco, io faccio nuove tutte le cose» » ( Ap 21,5 ).
Quanto l'autore suggerisce nella prima presentazione della Gerusalemme nuova lo esplicita dettagliatamente nella seconda ( Ap 21,9-22,5 ).
Il passaggio a questo nuovo livello viene accentuato dalla premessa dell'angelo: « Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell'Agnello » ( Ap 21,9 ).
La fidanzata, già preparata e ornata per l'incontro nuziale è, adesso, la « sposa ».
Siamo al livello più alto della pariteticità nuziale di amore tra Cristo agnello e il suo popolo.
Inoltre, ha luogo un incontro rinnovato con lo Spirito, talmente intenso da determinare anche uno spostamento spaziale simbolico: « E mi trasportò, in Spirito, su di un monte grande ed alto, e mi mostrò la città santa Gerusalemme » ( Ap 21,10 ).
La Gerusalemme nuova si presenta, a questo livello altissimo di trascendenza pura, con una nota caratteristica fondamentale: « Aveva la gloria di Dio, e il suo splendore corrispondeva a una pietra preziosissima corrispondente al diaspro quando emette il suo riflesso ( Ap 21,11 ) ».
La Gerusalemme nuova possiede la « realtà valore » di Dio che si manifesta, la « gloria » in forma di luce.
La illuminazione che così si realizza è messa in rapporto di corrispondenza con il riflesso di una pietra preziosa, della quale vengono sottolineate la qualità ottimale « preziosissima » e la capacità di riflesso.
La gloria - intesa come manifestazione ed espressione della realtà valore di Dio - diventa splendore: percepita a livello dell'uomo, di Giovanni e del suo gruppo, corrisponde al brillare delle pietre più preziose.
L'autore insiste su questa corrispondenza, riprendendo ed esplicitando quanto aveva già detto in Ap 4,1.
Si ha, di conseguenza, un contatto a tutto campo con Dio.
Questo contatto costituisce come un filtro ottico, una categoria interpretativa attraverso la quale si può guardare e gustare adeguatamente la Gerusalemme nuova con la possibilità di comprenderla: essa, allora, appare come il popolo di Dio ugualmente dell'AT e del NT, proveniente da tutta la terra e da tutta la storia ( cf Ap 21,12-14 ).
La Gerusalemme nuova ha raggiunto il suo massimo.
Lo dicono il simbolismo delle misure e la forma cubica ( cf Ap 21,15-17 ).
Soprattutto s'insiste sulla situazione trascendente, davvero al livello di Dio, in cui si trova: le misure, espresse in termini umani, sono in realtà misure « di angelo » ( Ap 21,17 ).
Soprattutto, ciò che c'è di meglio e di più prezioso a livello dell'esperienza umana come l'oro e le pietre preziose, è presente in una profusione che impressiona e in una situazione tutta particolare: l'oro, che copre tutta la città e, in particolare, la piazza, è « corrispondente a cristallo puro » ( Ap 21,18 ), « a cristallo trasparente » ( Ap 21,21 ).
Ha qualcosa delle pietre preziose.
A proposito di pietre preziose troviamo nei dodici fondamenti della città qui menzionati, i quali coincidono ciascuno proprio con una pietra preziosa ( cf Ap 21,19-20 ), l'elenco più lungo di tutta la letteratura greca.
E le pietre preziose, qui come sopra, indicano un contatto a tutto campo tra l'uomo e Dio.
Il testo è insostituibile: « Le fondamenta delle mura della città sono adornate di ogni specie di pietra preziosa.
Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedonio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardonice, il sesto di cornalina, il settimo di crisolito, l'ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l'undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista.
E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta formata da una sola perla.
E la piazza della città è di oro puro, corrispondente a cristallo trasparente ».
L'abbondanza e la ripetizione, secondo la struttura ridondante del simbolismo propria di questo brano rilevata più sopra, inculcano ripetutamente e fanno gustare, al di sopra di ogni formulazione logica, la massima compenetrazione tra Dio, Cristo agnello e il suo popolo.
Non sorprende, di conseguenza, l'assenza di un tempio ( cf Ap 21,22 ) dato che Dio e l'agnello ne svolgono la funzione, stando in comunione immediata e diretta con tutti.
La luce di questa terra - il sole e la luna - è superata da questa nuova realtà: Dio stesso illumina la città e la « lucerna di essa è l'agnello » ( Ap 21,23 ).
Infine, un unico flusso di vita pervade la città: è il « fiume di acqua di vita, brillante come un cristallo, che esce in continuazione dal trono di Dio e dell'agnello » ( Ap 22,1 ).
Si parla ancora di trono, ma non si ha più il personaggio seduto su di esso: il trono - il primo elemento che Giovanni ha notato in cielo ( cf Ap 4,2 ) - a questo punto non è più simbolo degli impulsi che determinano lo sviluppo della storia.
Detto per la prima volta « trono di Dio e dell'agnello » ( Ap 22,1 ) simboleggia il dono dello Spirito che, procedendo dal Padre e dal Figlio, pervade tutto e tutti della sua vitalità.
Il gruppo di ascolto, che già possiede una comunione di base con la vita trinitaria e lo sa ( Ap 1,3-4 ), a questa presentazione sente attivare dentro di sé il codice del suo « non ancora », del suo punto di arrivo, avverte un risucchio che lo spinge verso di esso.
È davvero il culmine dell'esperienza mistica dell'Apocalisse
In uno sguardo d'insieme a quello che è tutto il cammino che viene proposto al gruppo di ascolto nell'Apocalisse, troviamo l'aspetto mistico - inteso come un contatto ultra concettuale con la trascendenza e, più specificamente, con Cristo e con Dio - costantemente presente.
Questo contatto mistico ha una sua formula: si parte dal livello dell'assemblea liturgica in un suo momento forte, la domenica, si realizza in un contatto con lo Spirito, che porta a raggiungere in maniera diretta Cristo e Dio.
Lo sviluppo di questo aspetto mistico è distribuito secondo la struttura letteraria del libro: il suo punto di partenza è il contatto con il Cristo risorto della prima parte ( cf Ap 1,4-3,22 ), quello di arrivo è il livello di nuzialità proprio della Gerusalemme nuova ( cf Ap 21,1-8; Ap 21,9-22,5 ) che viene raggiunto gradualmente nella seconda parte ( cf Ap 4,1-22,5 ).
Guardando più da vicino le modalità del contatto mistico, che così si realizza, notiamo che esso comporta un aspetto conoscitivo e un aspetto esistenziale.
L'aspetto conoscitivo si ha quando l'esperienza mistica permette di raggiungere un livello nuovo di intesa con la trascendenza, quello esistenziale si ha quando, nel vivo dell'esperienza liturgica che si sta svolgendo, si realizza una trasformazione all'interno del soggetto interpretante, il gruppo di ascolto.
I due aspetti s'intrecciano tra loro, condizionandosi a vicenda: la nuova esperienza conoscitiva tende a trasformare e la trasformazione apre a una nuova esperienza.
L'espressione più suggestiva di questa interazione in crescendo tra la dimensione conoscitiva e quella esistenziale si trova nel « dialogo liturgico » conclusivo ( cf Ap 22,6-21 ), dove il gruppo di ascolto appare come la fidanzata che si sta avvicinando al livello della nuzialità, che si realizzerà con la presenza totale di Cristo.
Tra il traguardo finale della nuzialità piena e la situazione di adesso si colloca la venuta, che l'Apocalisse interpreta come una crescita progressiva dei valori, della « novità » di Cristo nella storia.
La chiesa « fidanzata » ha già una sua esperienza e conoscenza di Cristo; aspirando alla venuta completa, si trasforma e si perfeziona, confezionando il suo abito da sposa ( cf Ap 19,7-8 ).
La venuta di Cristo fa sentire la sua capacità di risucchio: per due volte, nel dialogo idealizzato, egli dice « Guarda, vengo presto! » richiamando così l'attenzione sulla venuta che si sta attuando.
La chiesa fidanzata accetta e questo la porta a una conoscenza sempre più esplicita di Cristo che appare così come colui « che è l'alfa e l'omega » ( Ap 22,13 ) « stella luminosa del mattino » ( Ap 22,16 ).
Apprezzando adeguatamente la venuta di Cristo, la chiesa fidanzata prendendo l'iniziativa, la invoca in sintonia con lo Spirito: « Lo Spirito e la sposa dicono: « Vieni » » ( Ap 22,17 ).
Gesù prende atto di tutto questo e risponde facendo sua l'invocazione della Chiesa: « Sì, vengo presto! » ( Ap 22,20 ).
Si è stabilita tra Cristo e la Chiesa un'intesa e una reciprocità a tutto campo che porterà alla nuzialità piena.
La mistica dell'Apocalisse, con questo sfondo nuziale giustamente messo in risalto da Feuillet, coinvolge tutto l'uomo cristiano e lo spinge verso la piena « cristificazione » - potremmo dire l'Incarnazione con tutto il suo sviluppo - che si realizzerà per lui e per tutti insieme nello splendore della Gerusalemme nuova.
Apocalisse | Introduzione |
Contro Gog, re di Magòg | Ez 38,1 |