Questioni sull'Ettateuco |
Che cosa vuol dire che, allorché i figli d'Israele, mossi dal pentimento, parlavano tra loro del proprio fratello Giuseppe dicendo di avere agito male con lui, e veniva reso loro in cambio, per castigo di Dio, di correre il pericolo d'essere accusati?
la Scrittura soggiunge e dice: Essi non sapevano che Giuseppe li ascoltava, poiché tra loro e lui c'era l'interprete.
Si deve, naturalmente, pensare ch'essi credevano che egli non ascoltasse dal momento che vedevano l'interprete che era tra lui e loro non tradurgli nulla di ciò di cui parlavano, e credevano che l'interprete era stato introdotto solo perché Giuseppe non conosceva la loro lingua.
Inoltre all'interprete non stava a cuore riferire a colui, che si serviva di lui, ciò che dicevano non a lui ma tra di loro.
E si avvicinò di nuovo a loro e disse loro. Il testo sacro però non aggiunge che cosa disse loro.
Si capisce, per conseguenza, che disse loro le medesime cose che aveva dette.
E voi farete scendere la mia vecchiaia nell'inferno con dolore. Nell'inferno, perché con dolore?
Oppure, anche se non ci fosse il dolore, parla così come se morendo sarebbe sceso nell'inferno?
In effetti quello relativo all'inferno è un problema difficile e che cosa intenda la Scrittura con questo termine lo si deve considerare in tutti i passi in cui esso per caso è ricordato.
Ciò che i fratelli [ di Giuseppe ] sentono dire dal sovrintendente della casa: Il vostro Dio e Dio dei vostri padri vi ha dato dei tesori nei vostri sacchi: il vostro argento, che è di buona lega, io l'ho ricevuto, sembra una bugia, ma si deve credere che simboleggi qualcosa d'importante.
In effetti l'argento che si dona e non diminuisce, poiché è detto anche di buona lega, è certamente simile a quello di cui in un altro passo si legge: Le parole del Signore sono parole pure, argento raffinato col fuoco, dalla ganga purgata sette volte, ( Sal 12,7 ) cioè in modo perfetto.
Essi bevvero e s'inebriarono con lui. Gli ubriaconi sono soliti ricorrere all'appoggio di questo testo non a motivo dei figli di Israele ma di Giuseppe, che viene elogiato come assai sapiente; ma chi osserva attentamente troverà in molti passi che questo verbo di solito è usato nelle Scritture anche al posto di " abbondanza ".
Da ciò deriva il detto: Hai visitato la terra e l'hai inebriata, l'hai ricolmata di ricchezze. ( Sal 65,10 )
Poiché questa parola è usata per esprimere il merito della benedizione e ricordare il dono di Dio.
È chiaro che questa ebrietà simboleggia l'abbondanza.
Neppure alla terra infatti è utile imbeversi come s'inebriano gli ubriaconi, poiché, a causa dell'umidità maggiore di quanta è sufficiente per la sazietà, si guasta come la vita degli ubriaconi che non si riempiono nella misura sufficiente, ma si affogano sommersi da un'inondazione.
Si suole discutere che cosa significhi ciò che Giuseppe dice ai suoi fratelli: Non sapevate che un uomo come me è capace di praticare la divinazione?
Di questa sua arte di trarre gli auspici aveva dato ordine anche al suo sovrintendente di parlarne [ ai fratelli ]. ( Gen 44,4-6 )
Forse non è da ritenere una menzogna poiché la frase fu pronunciata non sul serio ma per scherzo, come poi mostrò l'esito [ dell'episodio ]?
Le bugie infatti sono dette dai bugiardi seriamente, non per scherzo; quando invece le cose che non sono reali sono dette per scherzo, non sono considerate menzogne.
Si resta però perplessi riguardo a cosa significhi l'azione di Giuseppe con cui tante volte si burlò dei suoi fratelli e li tenne sospesi in sì lunga aspettativa finché non palesò chi egli era.
Sebbene tale comportamento sia tanto più attraente nel leggerlo quanto più inatteso risulta per quelli con i quali è compiuto, tuttavia, data l'elevatezza della sua sapienza, se questo, per così dire, scherzo non avesse simboleggiato qualcosa di importante, non solo non sarebbe stato fatto da lui, ma non sarebbe stato neppure registrato dalla Scrittura, in cui si trova tanta autorevolezza di santità e tanta attenzione nel profetizzare eventi futuri.
Ora però non ci siamo impegnati a darne una spiegazione, ma abbiamo voluto solo ricordare che cosa qui occorra indagare.
Poiché penso che non sia senza un significato il fatto che non sia stato detto: " io traggo auspici " ma: trae gli auspici un uomo quale sono io.
Se invece questo è solo un modo di dire, si deve trovare qualcosa di simile in tutto l'insieme della Scrittura.
Penso che si debba considerare attentamente in qual modo Giuseppe mantenne, per tutto il tempo che volle, l'ansia in questo turbamento dei suoi fratelli e la prolungò per tutto il tempo che ritenne opportuno, pur senza renderli sventurati, dal momento che pensava all'esito di una tanto grande gioia futura e tutto quello che faceva, procrastinando la loro gioia, lo faceva perché aumentasse con il differirla; come se le loro sofferenze lungo tutto il tempo in cui erano turbati non fossero paragonabili alla gloria dell'esultanza futura, che si sarebbe manifestata in essi ( Rm 8,18 ) nel riconoscere il fratello che credevano d'avere perduto.
Nel racconto di Giuda molti particolari sono riferiti diversamente da come Giuseppe aveva agito con i fratelli, sebbene avesse parlato con lui, sicché non è detto affatto nulla dell'accusa di essere delle spie.
Non è chiaro se ciò fosse taciuto di proposito o se avvenne per una dimenticanza causata dal turbamento.
Infatti quanto a ciò che dissero d'essere stati interrogati dallo stesso Giuseppe sul conto del loro padre e del loro fratello e che essi glielo manifestarono, è sorprendente se questo racconto può arrivare a [ riassumere ] almeno il contenuto, per risultare che è veritiero.
Del resto, sebbene in quel racconto alcune cose siano false, l'autore del racconto poté commettere un errore, dovuto a una dimenticanza, anziché aver la temerità di mentire scientemente, soprattutto trattandosi di uno da lui ricordato nella narrazione non come uno che non conoscesse i fatti, ma aggiungeva al racconto fatti che sapeva essere noti a quello per muoverlo a pietà.
Che cosa vuol dire ciò che dice Giuseppe: Dio infatti mi ha mandato davanti a voi per fare sussistere nel paese il resto che siete voi e nutrire un gran numero di vostri superstiti?
Poiché ciò non concorda completamente per il fatto che intendiamo come il resto o come ciò che resta Giacobbe e i suoi figli, essendo tutti incolumi.
È forse un simbolo ciò che in virtù di un segreto ed insondabile piano divino dice l'Apostolo: Un resto [ d'Israeliti ] è stato salvato perché eletto per grazia, ( Rm 11,5 ) poiché il Profeta aveva predetto: Anche se il numero dei figli di Israele sarà come la sabbia del mare, un resto sarà salvato? ( Is 10,22 )
Ora Cristo fu ucciso dai Giudei e consegnato ai pagani come Giuseppe dai suoi fratelli agli Egiziani, affinché anche il resto d'Israele fosse fatto salvo.
Per questo l'Apostolo dice: Poiché anch'io sono Israelita; e: Affinché l'insieme dei pagani entrasse, e così tutto l'Israele fosse fatto salvo; ( Rm 11,1.25 ) cioè: dal resto d'Israele secondo la carne e dall'insieme dei pagani che per la fede in Cristo sono l'Israele secondo lo spirito.
Oppure se al popolo israelitico resta la pienezza della fede dalla quale proveniva il resto nel quale allora anche gli Apostoli furono fatti salvi, ciò è simboleggiato dalla pienezza della liberazione d'Israele con la quale furono liberati dall'Egitto, per opera di Mosè.
Entrarono in Egitto Giacobbe e tutti i suoi discendenti, i figli e i figli dei suoi figli, le figlie e le figlie delle sue figlie con lui.
Occorre domandarsi come mai si dice: le figlie e le figlie delle sue figlie, sebbene si legga che aveva soltanto una figlia.
Più sopra abbiamo detto che per sua figlia si possono intendere le sue nipoti, allo stesso modo che sono chiamati " figli d'Israele " anche tutti gli appartenenti al popolo discendente da lui.
Ma ora quando la Scrittura dice le figlie delle sue figlie a causa della sola Dina, è usato il plurale per il singolare, così come di solito si usa anche il singolare per il plurale, salvo che uno affermi che si potevano chiamare "sue figlie " le sue nuore.
Quando la Scrittura dice che Lia partorì tante "anime " o che tante e tante " anime " uscirono dai lombi di Giacobbe, si deve vedere che cosa si può rispondere, su questo punto, a coloro che, basandosi su questo testo, cercano di sostenere che dai genitori insieme con i corpi si propagano anche le anime.
Poiché nessuno dubita che sono dette " anime " invece di " uomini " con un modo di dire che indica la parte per il tutto.
Ma come separare la parte, che qui serve ad indicare il tutto, vale a dire l'anima usata come termine per denotare l'uomo tutto intero da coloro che la Scrittura afferma essere stati generati dalle sue ossa? ( Gen 46,26 )
Diremo forse che egli non generò se non i corpi, sebbene la Scrittura parli solo di anime?
[ Per la soluzione del problema ] bisogna esaminare attentamente i modi di esprimersi delle Scritture.
Questi sono i figli che Lia partorì a Giacobbe in Mesopotamia di Siria oltre a Dina sua figlia; tutte le anime, figli e figlie di lui, assommano a trentatré.
Tutte queste trentatré anime nacquero forse da Lia in Mesopotamia di Siria?
Sicuramente nacquero da lei dei figli e una sola figlia, di cui sono stati ricordati i nipoti.
Se dunque era sorto il problema riguardo al solo Beniamino, quando la Scrittura dopo aver contato e nominato i dodici figli di Giacobbe, dice: Questi sono i figli di Giacobbe natigli in Mesopotamia di Siria, ( Gen 35,26 ) con quanto più forte ragione possiamo porci adesso la domanda in che modo gli nacquero trentatré anime in Mesopotamia di Siria; salvo che qui si abbia una conferma della locuzione già esaminata, che presenta come se fossero nati lì tutti coloro dei quali vi erano nati i genitori.
Di conseguenza è fuori dubbio che qui, usando il plurale per il singolare, si parla di figlie mentre è ricordata per nome una sola figlia.
Quando si legge che entrarono con Giacobbe in Egitto sessantasei anime, ( Es 1,5 ) eccetto evidentemente i figli di Giuseppe, e la Scrittura, dopo averli contati, soggiunge: Il numero della anime con le quali Giacobbe entrò in Egitto era di settantacinque, ( Gen 46,27 sec. LXX ) si deve intendere tutti coloro che erano nella casa di Giacobbe quando entrò in Egitto.
Poiché certamente non entrò con quelli che vi trovò.
Ma, esaminando più attentamente la Scrittura, si trova che al suo arrivo Efraim e Manasse erano già nati ambedue ( Gen 41,50 ) non solo come dicono i manoscritti ebraici in questo passo, ma anche come dichiara nell'Esodo la versione dei Settanta ( Es 1,5 ) e non mi pare che i Settanta si siano sbagliati su questo punto quando, a causa del suo significato simbolico, hanno voluto completare questo numero con una sorta di licenza profetica, se quelli furono generati dai due figli Efraim e Manasse essendo ancora vivo Giacobbe e che credettero giusto di annoverarli tra i componenti della casa di Giacobbe.
Ma poiché si trova scritto che Giacobbe visse in Egitto diciassette anni, ( Gen 47,28 ) non si trova però in che modo i figli di Giuseppe poterono avere anche dei nipoti durante la sua vita.
Giacobbe infatti entrò in Egitto nel secondo anno della carestia; ( Gen 45,6 ) i figli di Giuseppe invece nacquero negli anni dell'abbondanza. ( Gen 41,50 )
Quali che siano gli anni dell'abbondanza in cui si pensa che nascessero, dal primo anno dell'abbondanza al secondo anno della carestia, in cui Giacobbe entrò nell'Egitto, sono nove anni; aggiungendovene diciassette, in cui Giacobbe visse lì, si constata che furono ventisei anni.
In che modo quindi giovani di età inferiore ai ventisei anni poterono avere anche dei nipoti?
La questione non si risolve neppure in base ad alcun passo del testo autentico della Scrittura.
In qual modo infatti poté avvenire che Giacobbe prima di entrare in Egitto avesse tanti nipoti anche da Beniamino, che in quel periodo andò dal fratello [ in Egitto ]?
In effetti la Scrittura ricorda che egli ebbe non solo dei figli ma anche nipoti e pronipoti, i quali sono messi tutti nel numero delle sessantasei persone con le quali siamo informati che Giacobbe entrò nell'Egitto anche dal testo ebraico della Scrittura. ( Gen 46,26 )
Si deve pure esaminare che cosa significhi il fatto che, sebbene Giuseppe e i suoi figli vengano ricordati in un numero non superiore a otto ( Gen 46,20 sec. LXX ) e, al contrario, si trovi scritto che Beniamino e i suoi figli erano tutti insieme undici, ( Gen 46,21 sec. LXX ) ne vengono contati in totale non diciannove, quanti assommano otto più undici, ma solo diciotto, ( Gen 46,22 sec. LXX ) e poi si dice che Giuseppe e i suoi figli furono non otto anime ma nove, sebbene si trovi scritto ch'erano otto. ( Gen 46,21-22.27 )
Tutti questi dati contrastanti, che sembrano insolubili, contengono senza dubbio una grande ragion d'essere; ma non so se tutto può intendersi alla lettera, soprattutto quando si tratta di numeri che, a giudicare da alcuni di essi da noi esaminati attentamente, nelle Scritture sono lo crediamo con tutta ragione pieni di significati simbolici.
A proposito dei Patriarchi viene messo in rilievo che erano allevatori di bestiame fin dalla loro infanzia, come lo erano stati i loro genitori.
E a ragione: poiché senza dubbio giusta servitù e giusto dominio si ha quando le bestie sono sottomesse all'uomo e l'uomo ha il dominio sulle bestie.
Così infatti fu detto quando l'uomo fu creato: Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza; e abbia il potere sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie che sono sulla terra. ( Gen 1,26 )
Con ciò si fa vedere che la ragione deve avere il dominio su gli esseri privi di ragione.
Ma a far sì che una persona divenisse schiava di un'altra persona è stato il peccato o l'avversità: il peccato, come è detto: Sia maledetto Canaan! Schiavo sarà dei suoi fratelli; ( Gen 9,25 ) l'avversità, al contrario, come accadde allo stesso Giuseppe di diventare schiavo di uno straniero dopo essere stato venduto dai suoi fratelli. ( Gen 37,28.36 )
Pertanto furono le guerre a creare schiavi coloro ai quali nella lingua latina fu posto questo nome.
Infatti un uomo che fosse stato vinto da un altro uomo e che per diritto di guerra poteva essere ucciso, poiché veniva invece salvato, fu chiamato servus [ schiavo ]; per lo stesso motivo si chiamano anche mancipia [ schiavi ] perché sono stati manu capta [ presi con la mano ].
Tra gli uomini vige anche l'ordine della natura per cui le donne siano soggette ai mariti e i figli ai genitori, poiché anche in questo caso è giusto che la ragione più debole sia soggetta alla più forte. ( Col 3,18.20 )
Riguardo perciò al comandare e al servire è evidentemente giusto che coloro i quali sono superiori quanto alla ragione siano superiori anche quanto al comando.
Quando quest'ordine di cose viene sconvolto nel nostro mondo dall'iniquità degli uomini o dalla diversità delle nature carnali, i giusti sopportano il pervertimento temporale per possedere alla fine la felicità eterna assolutamente conforme all'ordine.
Poiché ogni pastore di greggi è un'abominazione per gli Egiziani.
A giusta ragione per gli Egiziani, che rappresentano un simbolo della vita presente, in cui abbonda il peccato, è un'abominazione ogni pastore di greggi, poiché il giusto è un abominio per l'empio.
Giacobbe e i suoi figli vennero in Egitto da Giuseppe; e il Faraone, re dell'Egitto, ne fu informato e parlò a Giuseppe in questi termini: " Tuo padre e i tuoi fratelli sono venuti qua da te.
Ecco, il paese d'Egitto è davanti a te. Stabilisci tuo padre e i tuoi fratelli nella parte migliore del paese ".
Questa ripetizione di una vicenda non tralasciata, della quale si torna a parlare spesso confusamente, sotto forma di ricapitolazione, è tuttavia assolutamente chiara, poiché la Scrittura aveva già detto come fossero venuti dal Faraone i fratelli di Giuseppe e che cosa quello dicesse loro o sentisse dire da essi. ( Gen 45,16-20 )
Adesso però questi fatti sono raccontati di nuovo dall'inizio per collegare il racconto che segue con le parole che il Faraone disse solo a Giuseppe.
Di tutte queste cose nei manoscritti greci, compilati da amanuensi più attenti, alcune hanno un obelo e indicano quelle che non si trovano nell'ebraico, ma si trovano nei Settanta, altre hanno un asterisco per indicare che si trovano nei manoscritti ebraici ma non sono riportate dai Settanta.
Che significa ciò che disse Giacobbe al Faraone: I giorni degli anni della mia vita, nei quali soggiorno come un residente di passaggio?
Così in effetti portano i manoscritti greci, mentre quelli latini hanno ago, oppure habeo o qualche altro verbo.
Disse dunque nei quali soggiorno come un residente di passaggio, poiché era nato sulla terra che il popolo [ d'Israele ] non aveva ancora ricevuto in eredità come Dio aveva promesso e vivendo lì era certamente in una terra straniera non solo quando era esule, come in Mesopotamia, ma anche quando era là dove era nato?
O piuttosto lo si deve intendere nel senso che ha l'espressione di Paolo: Finché siamo nel corpo siamo come esuli lontano dal Signore? ( 2 Cor 5,6 )
In questo senso s'intende anche l'espressione del Salmo: Io sono abitante della terra, ospite come tutti i miei padri. ( Sal 39,13 )
Di nuovo infatti, a proposito dei suoi giorni egli dice: essi non hanno raggiunto i giorni degli anni dei miei padri, i giorni in cui abitarono come stranieri.
Poiché qui non volle far intendere altro se non ciò che portano i manoscritti latini, cioè " vissero " e perciò volle far vedere che la vita è solo un soggiorno passeggero sulla terra, cioè una residenza in paese straniero.
Io penso dunque che ciò si confaccia ai fedeli servi di Dio, ai quali il Signore promette un'altra patria: quella eterna.
Per conseguenza occorre vedere in che senso è detto agli empi: Essi abiteranno e si nasconderanno, spiano il mio calcagno. ( Sal 56,7 )
Più convenientemente ciò s'intende di coloro che abitano come stranieri per nascondersi, cioè al fine di tendere agguati ai figli, non restano mai in casa.
E diede loro una proprietà nella parte migliore del paese, nel territorio di Ramses, come aveva ordinato il Faraone.
Si deve ricercare se il territorio di Ramses sia quello stesso di Gessen, poiché gli Israeliti avevano chiesto proprio quello e il Faraone aveva ordinato che quello fosse dato loro. ( Gen 47,4.6 )
E Giuseppe assicurava a suo padre la distribuzione del grano; ciononostante suo padre non si prosternò davanti a lui né quando lo vide, né quando ricevette il grano da lui. ( Gen 37,9 )
In che modo dunque penseremo ora che si adempì il sogno di Giuseppe e non piuttosto che conteneva la profezia di un evento più importante?
E Giuseppe portò tutto il denaro nella casa del Faraone.
La Scrittura si è preoccupata di mettere in risalto la fedeltà del servo di Dio anche con questo fatto.
Giuseppe allora disse loro: Conducete il vostro bestiame e in cambio del vostro bestiame vi darò del pane se non c'è più denaro.
Si può porre il quesito poiché Giuseppe aveva fatto l'ammasso del frumento con cui potessero vivere gli uomini di che cosa potevano vivere i greggi data la grave carestia che regnava, soprattutto perché i fratelli di Giuseppe avevano detto al Faraone: Poiché non c'è più pascolo per le greggi dei tuoi servi; infatti grave è la carestia nella terra di Canaan, ( Gen 47,4 ) e avevano ricordato d'essere andati là anche a causa della carestia.
Se quindi a causa di quella carestia difettavano i pascoli nel paese di Canaan, perché essi non erano venuti a mancare nell'Egitto, sebbene dappertutto infierisse la carestia?
O forse come affermano coloro che conoscono quei luoghi in molte paludi dell'Egitto potevano non mancare pascoli, sebbene ci fosse carestia di cereali che di solito prosperano con lo straripamento del fiume Nilo?
Si dice infatti che quelle paludi producono pascoli più rigogliosi quando l'acqua del Nilo straripa di meno.
Giacobbe sul punto di morire dice a suo figlio Giuseppe: Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, metti la tua mano sotto la mia coscia e compirai verso di me un atto di bontà e di verità.
Egli vincola [ così ] il figlio con il giuramento con cui Abramo aveva vincolato il servo: ( Gen 24,2 ) Abramo quando ordinò da quale casato doveva prendere la moglie per suo figlio, Giacobbe raccomandando la sepoltura del proprio corpo.
In ambedue i casi sono tuttavia nominate le qualità morali che sono da ritenere importanti e da stimare assai in tutti i libri della Scrittura, in tutti i passi dovunque si leggono, cioè: la misericordia e la giustizia o la misericordia e il giudizio oppure la misericordia e la verità, dal momento che in un passo sta scritto: Tutte le vie del Signore sono misericordia e verità. ( Sal 25,10 )
Pertanto, queste due qualità morali, molto lodate, devono essere considerate importanti.
Ora il servo di Abramo aveva detto: Se userete benevolenza e lealtà verso il mio signore, ( Gen 24,49 ) come dice anche questi al proprio figlio: affinché tu usi benevolenza e fedeltà verso di me.
Ma che cosa significhi da parte di un sì gran personaggio una raccomandazione tanto sollecita per il suo corpo, perché non venga sepolto in Egitto ma nel paese di Canaan presso i suoi padri ( Gen 47,30 ) sembra strano e quasi illogico né conforme a una sì grande superiorità di spirito profetico, se lo giudichiamo in base all'usanza umana.
Se invece in tutto ciò si cercheranno degli insegnamenti di fede, a chi li avrà trovati ne verrà la gioia di una maggiore ammirazione.
Poiché senza dubbio nella Legge antica nei cadaveri dei morti erano simboleggiati i peccati, dal momento che si prescrive che dopo averli toccati o dopo un qualsiasi contatto con essi le persone si dovevano purificare come se si trattasse d'una impurità. ( Nm 19,3-12 )
Inoltre di qui è derivata la seguente massima: Se uno si lava per aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, a che cosa gli giova essersi lavato?
Lo stesso capita a chi digiuna per [ cancellare ] i propri peccati, ma poi torna a commetterli di nuovo. ( Sir 34,26 )
La sepoltura dei morti è dunque simbolo della remissione dei peccati in relazione all'affermazione della Scrittura: Beati coloro le cui colpe sono state rimesse e coperti i peccati. ( Sal 32,1 )
Dove dunque sarebbero dovuti essere seppelliti i cadaveri dei Patriarchi, che avevano questo simbolismo, se non nel paese in cui fu crocifisso colui, con il sangue del quale fu compiuta la remissione dei peccati? ( Col 1,14 )
Poiché nella morte dei Patriarchi sono simboleggiati i peccati degli uomini.
Si dice infatti che il luogo ove fu crocifisso il Signore dista circa trenta miglia dal luogo chiamato " Abrahamio", ove sono quei corpi, ( Gen 50,13 ) affinché s'intenda che anche lo stesso numero è simbolo di colui che si manifestò all'età di circa trent'anni nel battesimo.
Ammissibile è anche qualunque altra ipotesi che si possa intendere o in questo senso o in un altro più sublime, purché tuttavia non si pensi che personaggi così grandi e uomini di Dio tanto qualificati, si prendessero senza ragione tanta cura per la sepoltura dei loro corpi, sebbene i fedeli siano o piuttosto debbano essere sicuri che, dovunque i loro corpi vengano seppelliti o lasciati insepolti anche a causa della ferocia dei nemici, o fatti a brani per la brama della loro passione e dispersi, non per questo la loro risurrezione futura sarà meno perfetta o meno gloriosa.
La frase che i manoscritti latini riportano così: E si prosternò [ appoggiandosi ] sulla punta del bastone di lui, alcuni la riportano corretta così: e si prosternò [ appoggiandosi ] sulla punta del proprio bastone, o: nella punta del proprio bastone, oppure: sull'estremità superiore [ in cacumen o super cacumen ].
Essi sono stati ingannati dalla parola greca, in quanto sia eius [ = di lui ] che suae [ = della propria verga ] si scrivono con le stesse lettere ma gli spiriti delle due parole sono diversi e dai competenti in questa materia sono tenuti in grande considerazione nei manoscritti, poiché sono di molto aiuto per distinguere la diversità di significato [ delle parole ].
Tuttavia, nel caso che fosse suae [ = della propria ], il pronome potrebbe avere una lettera in più, sì da risultare scritta non αύτοϋ [ di lui ], ma: έαυτοϋ [ di se stesso = proprio ].
Ecco perché giustamente ci chiediamo che cosa significhi la frase citata.
Si potrebbe intendere senz'altro che il vecchio che portava il bastone, come di solito si porta in quella età, quando s'inchinò per prosternarsi a Dio, lo fece naturalmente sopra l'estremità del proprio bastone, che portava in modo da potersi prostrare davanti a Dio, chinando su di esso la testa.
Che cosa vuol dire dunque: Si prosternò sull'estremità del bastone di lui, cioè di suo figlio Giuseppe?
Aveva forse preso da lui il bastone quando suo figlio gli prestava giuramento e, continuando a tenerlo, si prosternò davanti a Dio avendolo ancora in mano subito dopo [ che Giuseppe aveva pronunciato ] la formula del giuramento?
Non si vergognava infatti di portare per un po' di tempo il distintivo del potere del proprio figlio, in cui era prefigurata un'importante realtà futura.
Si dice tuttavia che sia assai facile la soluzione di questo problema, stando al testo ebraico ove si afferma che sta scritto: E Israele s'inchinò profondamente sulla testata del suo letto, in cui naturalmente giaceva, e ce l'aveva disposta in modo che vi potesse pregare senza fatica qualora l'avesse voluto.
Ma non per questo tuttavia si deve pensare che la traduzione dei Settanta non abbia nessun senso o ne abbia uno senza importanza.
Anche qui, quando Giacobbe ricorda le promesse fattegli da Dio, afferma che gli fu detto: Io ti farò diventare radunanze di nazioni.
Con queste parole si simboleggia piuttosto la chiamata dei pagani [ alla fede ] che non la propagazione della stirpe carnale.
Così sta scritto riguardo a ciò che dice Giacobbe a proposito di Efraim e di Manasse: Ora dunque i tuoi figli che ti sono nati nel paese d'Egitto prima che io arrivassi da te in Egitto, Efraim e Manasse, sono miei, saranno miei come Ruben e Simeone; quelli che invece genererai in seguito saranno tuoi saranno chiamati con il nome dei loro fratelli nella loro eredità.
Questo passo inganna talora i lettori e li porta a pensare che la Scrittura ha detto così come se Giuseppe avesse generato altri figli.
Giacobbe avrebbe ordinato di chiamarli con i nomi di quei due, ma non è così.
Poiché l'ordinata costruzione della frase risulta così: Ora dunque i due tuoi figli che ti sono nati nel paese d'Egitto, prima che io venissi da te in Egitto, e cioè Efraim e Manasse, sono miei; saranno miei come Ruben e Simeone e saranno chiamati con il nome dei loro fratelli nella loro eredità, cioè avranno l'eredità insieme con i loro fratelli, e di conseguenza saranno chiamati figli d'Israele.
Quelle due tribù infatti furono aggiunte in modo che, ad eccezione della tribù di Levi ch'era di condizione sacerdotale, fossero dodici quelle che si sarebbero divise il territorio e avrebbero offerto le decime.
In mezzo a quelle parole è stato inserito ciò che è detto a proposito degli altri figli di Giuseppe qualora fossero nati.
Che cosa spinse Giacobbe a dire adesso ciò che volle indicare a suo figlio Giuseppe, come se non lo sapesse, dove e quando seppellì la madre di lui, sebbene fosse presente anche lui insieme ai suoi fratelli, anche se era tanto piccolo d'età che non poteva curarsi di quel fatto e ricordarsene?
Ma forse era utile ricordare allora che la madre di Giuseppe era stata sepolta dove sarebbe nato il Cristo.
Quanto al fatto che Israele [ Giacobbe ] benedice i nipoti ponendo la mano destra sul più piccolo e invece la sinistra sul più grande, e a suo figlio Giuseppe che lo voleva correggere, come se sbagliasse e non sapesse [ che quello non era il suo primogenito ] così risponde: Lo so, figlio mio, lo so; anch'egli diverrà un popolo e sarà grande anche lui, ma suo fratello minore sarà più grande di lui e la sua discendenza sarà una moltitudine di popoli, si deve intendere riferito a Cristo in quanto anche a proposito dello stesso Giacobbe e di suo fratello la Scrittura dice: Il maggiore sarà servo del minore. ( Gen 25,23 )
In effetti, facendo così Israele compì un gesto simbolico contenente la profezia che il popolo futuro, il quale sarebbe venuto per mezzo di Cristo, con una generazione spirituale, sarebbe stato superiore al popolo precedente che si vantava della generazione carnale dei Patriarchi.
Possiamo domandarci in qual modo possa corrispondere alla lettera quello che dice Giacobbe, di dare, come parte principale [ dell'eredità ] Sikima al proprio figlio Giuseppe e aggiunge di averla conquistata con la sua spada e con il suo arco.
Egli infatti aveva comprato quel possedimento con cento agnelle, ( Gen 33,19 ) non l'aveva conquistato per diritto d'una vittoria riportata in guerra.
O perché i suoi figli avevano preso in battaglia Salem, ( Gen 34,25 ) città dei Sichemiti, e in virtù del diritto di guerra poté diventare sua e per conseguenza sembra essere stata combattuta una giusta guerra contro coloro che prima avevano arrecato una sì grande offesa con il violare la sua figliuola?
Perché dunque non diede quel territorio a coloro che avevano compiuto quell'impresa, cioè ai suoi figli maggiori?
In secondo luogo se ora, vantandosi di quella vittoria, dà quel territorio a suo figlio Giuseppe, perché gli dispiacquero allora i figli che avevano compiuto quel fatto?
Perché, infine, anche adesso, benedicendoli, ricordò questo misfatto tra le loro azioni biasimandolo?
Senza dubbio, dunque, si cela qui una prefigurazione profetica, poiché anche Giuseppe prefigurò con una simbologia singolare il Cristo e gli viene dato quel territorio in cui Giacobbe aveva eliminato gli dèi stranieri seppellendoli, ( Gen 35,4 ) per farci intendere che Cristo avrebbe avuto in possesso i popoli che, rinunciando agli dèi dei loro padri, avrebbero creduto in lui.
È da vedere in che senso le Scritture dicono quanto dicono ripetutamente: E si riunì ai suoi antenati, oppure: Si riunì al suo popolo.
Ecco, di Giacobbe è detto così quando era già morto, ma non ancora sepolto; non è tuttavia facile vedere a qual popolo si riunisse.
Da lui infatti trae origine il primo popolo, che fu chiamato " popolo d'Israele "; di coloro che, al contrario, lo precedettero sono chiamati giusti tanto pochi che esitiamo a chiamarli " popolo ".
Poiché, se la Scrittura dicesse: " Si riunì ai suoi antenati ", non ci sarebbe alcun problema.
Oppure è forse popolo non solo quello dei fedeli servi di Dio ma anche il popolo degli angeli della città di Dio, di cui nella Lettera agli Ebrei è detto: Voi invece vi siete accostati al monte Sion e alla città di Dio, a Gerusalemme, e a miriadi d'angeli esultanti. ( Eb 12,22 )
A questo popolo si riuniranno coloro che terminano questa vita nella grazia di Dio.
Si dice infatti che vengono uniti quando non resta più alcuna ansietà causata dalle tentazioni e alcun pericolo di commettere peccati.
Tenendo presente ciò che la Scrittura dice: Prima della morte non lodare nessuno. ( Sir 11,28 )
I quaranta giorni della sepoltura ricordati dalla Scrittura sono forse simbolo della penitenza per mezzo della quale si seppelliscono i peccati.
Poiché non senza una ragione sono stati registrati anche quaranta giorni in cui digiunò Mosè ( Es 34,28 ) e Elia ( 1 Re 19,8 ) e lo stesso Signore. ( Mt 4,2 )
Anche la Chiesa chiama " Quaresima " la più solenne pratica religiosa del digiuno.
Ecco perché dicono che anche nel testo ebraico del profeta Giona si trova scritto, a proposito degli abitanti di Ninive: Tra quaranta giorni Ninive sarà distrutta, ( Gn 3,4 ) perché s'intendesse che durante tanti giorni, disposti naturalmente per la mortificazione di coloro che si pentivano, deplorarono i loro peccati con il digiuno e ottennero misericordia da Dio.
Ma non si deve tuttavia pensare che quel numero si addice solo al dolore di coloro che si pentono; altrimenti il Signore non avrebbe trascorso quaranta giorni con i suoi discepoli dopo la risurrezione vivendo, mangiando e bevendo con loro; ( At 1,3-5 ) giorni che furono certamente di gran gioia.
Non si deve credere neppure che i Settanta traduttori, che la Chiesa è solita leggere, avessero sbagliato dicendo non: " tra quaranta giorni ", ma: fra tre giorni Ninive sarà distrutta.
Essi infatti erano dotati di un'autorità superiore a quella che compete alla funzione di traduttori, grazie allo spirito profetico, per cui si afferma che andarono d'accordo anche nelle loro traduzioni, come parlando all'unisono, ciò che fu un gran miracolo; scrissero quindi tre giorni, sebbene non ignorassero che nei manoscritti ebraici si leggeva quaranta giorni, affinché s'intendesse che in virtù della glorificazione del Signore Gesù Cristo vengono soppressi e distrutti i peccati, in quanto di lui è detto: Il quale fu consegnato per i nostri peccati, e risuscitò per la nostra giustificazione. ( Rm 4,25 )
La glorificazione del Signore poi si riconosce nella sua risurrezione e ascensione in cielo.
Ecco perché egli diede anche lo Spirito Santo due volte numericamente, sebbene fosse l'unico e medesimo: la prima volta dopo la sua risurrezione, ( Gv 20,22 ) la seconda volta dopo l'ascensione in cielo. ( At 2,2-4 )
E poiché risuscitò dopo tre giorni e ascese in cielo dopo quaranta giorni, i manoscritti ebraici simboleggiano il primo fatto, avvenuto dopo, con il numero dei giorni, mentre i Settanta vollero ricordare l'altro fatto dei tre giorni relativo al medesimo argomento non attenendosi servilmente alla lettera bensì all'autorità propria del senso profetico.
Non dobbiamo dunque affermare che una di queste varianti sia falsa e non litighiamo a favore di alcuni traduttori contro altri in quanto non solo i traduttori dall'ebraico ci dimostrano che sta scritto così, ma anche l'autorità dei Settanta, messa in risalto anche da un miracolo così grande compiuto da Dio, viene confermata dall'antichità in cui è stata usata dalle Chiese.
Giuseppe diede incarico ai potenti d'Egitto che a nome suo dicessero al Faraone: Mio padre mi ha fatto giurare dicendo: " Tu devi seppellirmi nel sepolcro che mi sono scavato nella terra di Canaan ".
Ci possiamo chiedere in che modo ciò sia vero, poiché queste parole di suo padre non si leggono quando diede disposizioni per la sua sepoltura.
Noi però dobbiamo rapportare le parole al senso, come abbiamo avvertito più sopra a proposito di altre frasi o racconti similmente ripetuti.
Le parole infatti devono servire ad esprimere la volontà e a portarla a conoscenza.
Ora in nessun passo precedente delle Scritture si legge che Giacobbe si era scavato la tomba.
Ma se ciò non fosse accaduto quando si trovava in quelle medesime terre, adesso non verrebbe detto.
Che cosa vuol dire ciò che la Scrittura dice della comitiva in viaggio per andare a seppellire Giacobbe: E arrivarono all'aia di Atad che si trova di là dal Giordano?
In effetti essi avevano oltrepassato di più di cinquanta miglia come riferiscono gli esperti il luogo in cui doveva essere sepolto il morto, poiché tanto più o meno era lo spazio dal luogo ove furono sepolti i Patriarchi, tra cui anche Giacobbe, fino al luogo ove si narra che quelli erano arrivati.
Poiché, dopo aver fatto lì il compianto e il lamento solenne, tornarono al luogo verso cui erano diretti ripassando attraverso il Giordano.
Salvo che uno non dica che, per evitare alcuni nemici, arrivassero col cadavere attraverso il deserto, per il quale anche il popolo d'Israele fu condotto da Mosè dopo essere stato liberato dall'Egitto.
In effetti percorrendo quella via non solo si fa un enorme giro ma anche attraversando il Giordano si giunge fino al sepolcro di Abramo, ove sono i corpi dei Patriarchi, cioè al paese di Canaan. ( Gen 50,13 )
Qualunque sia il modo in cui avvenne che solo attraverso quei luoghi si andò verso l'Oriente e di lì, attraverso il Giordano, si giunse al luogo, si deve credere che avvenne per prefigurare che Israele sarebbe giunto in seguito in quelle terre con i suoi discendenti attraverso il Giordano.
E Giuseppe tenne per suo padre il lutto per sette giorni.
Non so se nelle Scritture si trovi che per qualcuno dei fedeli servi di Dio, il lutto fu celebrato per un periodo di nove giorni, che presso i latini si chiama " novendiale ".
A me quindi pare che si debba proibire questa consuetudine e debbano esserne allontanati quei cristiani che per i loro morti praticano il lutto per un tal numero [ di giorni ], com'è nella consuetudine dei pagani.
Il settimo giorno, al contrario, ha la sua legittimità risultante dalle Scritture.
Ecco perché in un altro passo sta scritto: Il lutto per un morto dura sette giorni, ma quello dello stolto dura tutti i giorni della sua vita. ( Sir 22,12 )
Il numero sette poi, soprattutto a causa del significato simbolico e profondo del sabato, è simbolo del riposo; giustamente quindi lo si osserva per i morti poiché sono come entrati nel loro riposo.
Gli Egiziani tuttavia decuplicarono questo numero nel manifestare il loro cordoglio per Giacobbe, poiché lo piansero per settanta giorni.
E Giuseppe visse centodieci anni. E Giuseppe vide i figli di Efraim fino alla terza generazione; e i figli di Machir, figlio di Manasse, nacquero sulle ginocchia di Giuseppe.
Poiché la Scrittura dice che Giuseppe nella sua vita vide questi figli dei figli o nipoti dei figli, in che modo li unisce alle settantacinque persone con cui dice che Giacobbe era entrato in Egitto, dal momento che Giuseppe li vide nascere nella sua vecchiaia, mentre, quando Giacobbe entrò in Egitto, Giuseppe era giovane e il padre alla sua morte lo lasciò all'età di circa cinquantasei anni? ( Gen 46,27 )
È quindi chiaro che la Scrittura ha voluto sottolineare quel numero, cioè il settantacinque, per indicare ch'esso era il simbolo di un'altra realtà.
Se uno però ricerca in che modo, anche rispetto alla fedeltà storica, sia vero che Giacobbe sia entrato in Egitto con settantacinque anime, si deve intendere che il suo ingresso in Egitto non ebbe luogo in quell'unico giorno in cui entrò in Egitto ma, poiché per lo più Giacobbe è chiamato in relazione ai suoi figli, ossia ai suoi posteri, ed è noto ch'egli entrò in Egitto grazie a Giuseppe, il suo ingresso in Egitto si deve intendere per tutto il tempo che visse Giuseppe, grazie al quale avvenne ch'egli vi entrasse.
In tutto quel tempo dunque poterono nascere e vivere tutti coloro che sono ricordati, in modo che fino ai nipoti di Beniamino si giunge alla somma di settantacinque anime.
La Scrittura infatti dice: Questi sono i figli di Lia, ch'essa partorì a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, ( Gen 46,15 ) parlando anche di quelli che non erano [ ancora ] nati, poiché là essa aveva partorito i genitori dai quali quelli nacquero, presentandoli come se fossero nati lì, poiché lì era nata la causa per cui [ poi ] sarebbero nati, vale a dire i loro genitori partoriti colà da Lia; così, allo stesso modo, siccome la causa dell'ingresso in Egitto Giacobbe l'aveva avuta tramite Giuseppe, per tutto il tempo che Giuseppe visse in Egitto avveniva l'ingresso di Giacobbe in Egitto per via della sua progenie che veniva propagata durante la vita di colui, per mezzo del quale era avvenuto ch'egli vi entrasse.
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