Summa Teologica - II-II

Indice

Carismi e stati di perfezione

( II-II qq. 171-189 )

( 1-4 omissis )

I L'estasi e il rapimento in S. Tommaso.

5 - In un diffusissimo Compendio di Teologia ascetica e mistica si legge: « il ratto [ o rapimento ] s'impossessa dell'anima con impetuosità e violenza, onde non vi si può resistere.

È come se un'aquila gagliarda ti rapisse sulle sue ali senza saper dove si vada.

Nonostante il diletto che si prova, la umana debolezza risente le prime volte un brivido di terrore » ( TANQUEREY A., op. cit., n. 1459 ).

E il Card. P. Parente nel Dizionario di Teologia Dogmatica: « Una forma più elevata di estasi è il rapimento o volo dello spirito, in cui l'anima è trasportata e quasi assorbita in Dio Con rapidità » ( Ed. 1957, p. 148 ).

Lo stesso ripete il P. Royo Marin nella sua opera fondamentale, Teologia de la Perfeccion Cristiana ( Madrid, 1953, n. 462 ).

F. Jaegen nel suo libro sulla vita mistica porta in campo direttamente l'autorità dell'Aquinate: « S. Tommaso stesso non ammette che una differenza di grado tra l'estasi e il rapimento.

L'estasi è una sospensione dello stato abituale dell'attività del corpo, e il rapimento anche, ma questo si produce bruscamente » ( La Vie mistique, trad. fr., Parigi, 1936, pp. 89 ).

Potremmo citare altri autori che ripetono lo stesso concetto in sostanza si mira a fare del ratto, o rapimento, una sottospecie dell'estasi; e si crede di trovare consenziente S. Tommaso in questa operazione.

6 - Fermiamoci dunque a considerare quanto c'è di vero in questa attribuzione.

Per uno studio approfondito sull'argomento è necessario rifarsi all'opera del P. J. Maréchal, S. J., Etudes sur la psychologie des Mystiques ( Parigi, 1937 ), t. 2, c. IX, 7.

A primavista pare che l'illustre gesuita voglia allinearsi con i soliti divulgatori: « Noi passiamo adesso a scrutare più da vicino la nozione tomista del rapimento.

Questo, il raptus, non aggiunge all'estasi che un elemento di violenza: "Raptus violentiam quandam importat" [ II-II, q. 175, a. 1 ]; "raptus addit aliquid supra extasim: nam extasis importat simpliciter excessum a seipso…, sed raptus super hoc addit violentiam quandam" [ II-II. q. 175, a 2, ad 1 ] ».

Ma egli si affretta a spiegare, sia pure sommariamente, il significato del termine violenza.

« Il termine violenza non ha qui un significato descrittivo ma filosofico: designa cioè l'effetto di un'azione esterna che è imposta all'inclinazione del paziente, sia sorpassandola nel senso cui tende, sia al contrario portandole un impedimento » ( p. 241 ).

In queste parole piuttosto generiche, e quindi oscure, c'è in sintesi quanto siamo per dire nella nostra precisazione.

Cominciamo subito col ricordare che in realtà anche per S. Tommaso il termine estasi è sinonimo di rapimento, però più esteso del concetto affine.

« Excessus mentis, extasis et raptus, omnia in Scripturis pro eodem accipiuntur; et significant elevationem quandam ab exterioribus sensibilibus … ad aliqua quae sunt super hominem » ( De Verit., q. 13, a. 2. ad 9 ).

Ma il Dottore Angelico riserva ordinariamente il termine più generico al campo affettivo.

É quindi per lui l'estasi senza appellativi di suo interessa l'amore.

Per convincersene basterà rileggere un articolo della Prima Secundae: q. 28, a. 3, « Utrum extasis sit effectus amoris ».

« Si dice che uno patisce estasi secondo la parte appetitiva, quando la sua facoltà appetitiva si porta verso l'oggetto, uscendo in qualche modo da se stesso ».

Ora, si deve notare che questo moto verso l'esterno non è innaturale per l'appetito, ma è proprio della volontà come tale.

Perciò tale estasi affettiva a tutto rigore non si potrebbe mai denominare rapimento ( cfr. In 2 Cor., e. 12, lect. 1 De Verit., q. 12, a. 2, ad 9; II-II, q.175, a. 2 ).

Se quindi con gli autori moderni non ammettiamo altra estasi che quella di ordine conoscitivo, si va incontro fatalmente a un equivoco: si viene cioè a considerare il rapimento una sottospecie dell'estasi di conoscenza che invece per S. Tommaso coincide in tutta la sua estensione con il rapimento.

« Quando l'uomo viene astratto dai sensi, si dice che viene rapito, anche se viene elevato a cose cui è ordinato per natura: purché ciò non avvenga in forza di una propria inclinazione, come accade nel sonno, il quale è secondo natura, e quindi a rigore non può dirsi rapimento » ( q. 175, a. 1 ).

7 - Ma perché l'Aquinate chiama l'estasi conoscitiva col termine raptus?

Non è forse per sottolineare la violenza di una simile astrazione dai sensi?

Ciò è verissimo; però secondo il suo punto di vista la violenza non sta nel modo brusco e repentino con il quale eventualmente si produce tale fenomeno mistico, ma nell'alienazione come tale.

Per l'uomo infatti l'unica via connaturale di conoscenza passa attraverso i sensi.

« Per l'uomo è naturale tendere alle cose divine mediante la conoscenza delle cose sensibili …

Ma che uno venga elevato alle cose divine con alienazione dai sensi non è naturale per l'uomo » ( q. 175, a. 1, ad 1 ).

Le conseguenze di questa precisazione non sono trascurabili.

Perché in base ad essa risulta chiaramente che per S. Tommaso l'estasi di ordine affettivo di suo non rientra nella sfera dei carismi.

L'estasi infatti è una proprietà e una conseguenza naturale dell'amore, soprattutto dell'amore più profondo che è quello d'amicizia ( cfr. I, q. 20, a. 2, ad 1; I-II, q. 28, a. 3; II-II, q. 175, a. 2 ).

Sono perciò perfettamente coerenti con la dottrina del loro maestro quei tomisti i quali affermano che la contemplazione mistica e l'estasi rientrano nello sviluppo normale della vita spirituale.

Spesso però essi rendono inaccettabile codesta dottrina, perché non insistono a distinguere l'estasi di ordine affettivo da quella di ordine conoscitivo; la quale ultima per S. Tommaso è precisamente il raptus.

La violenza, che per lui caratterizza il rapimento, non va ricercata nella rapidità e nell'imprevedibilità del fenomeno, ma nei termini essenziali in cui si articola.

Ogni estasi di ordine conoscitivo, per l'alienazione dei sensi presenta questo carattere di violenza.

Perciò per evitare qualsiasi confusione bisogna rinunziare una volta per sempre a citare la q. 175, a. 1 della Secunda Secundae quando si vuol fare del raptus una sottospecie dell'estasi sic et simpliciter, che nella terminologia odierna è di ordine conoscitivo.

II La predicazione sintesi di vita attiva e contemplativa.

8 - Di estasi e di rapimenti non parlano solo la Somma Teologica e le altre opere del Santo, ma ne parlano anche i biografi: sebbene egli si sia astenuto come sempre da ogni indiscrezione autobiografica.

Del resto al suo tempo la mistica descrittiva doveva ancor nascere.

Perciò leggendo i suoi scritti nessuno potrebbe pensare a un'esperienza diretta da parte dell'Autore.

Le cose cambiano invece per quanto riguarda le varie forme di vita, e per i vari stati.

Un lettore attento può scorgere facilmente le preferenze del Santo, che si volgono senza esitazioni e sottintesi a favore della vita mista, e della vita religiosa vissuta in un ordine mendicante, impegnato nel ministero dell'insegnamento e della predicazione.

È forse questo in tutta la Somma Teologica, l'unico caso in cui dalla critica interna si potrebbe dedurre con sicurezza che lo scritto appartiene a un frate domenicano.

S. Tommaso era entusiasta della propria vocazione e del proprio istituto.

E certamente era difficile immaginare in un essere umano una perfezione più grande di quella raggiunta personalmente da lui e da alcuni suoi confratelli della prima generazione domenicana.

Ma considerando oggettivamente le cose, pochi teologi son disposti a posporre gli ordini di vita contemplativa a quelli di vita mista, anche perché la preferenza per la pura contemplazione ha guidato sempre l'atteggiamento ufficiale della gerarchia ecclesiastica.

Però non va dimenticato che i grandi contemplativi in una maniera o nell'altra hanno riversato su altre anime la luce ricevuta dall'alto.

E quindi non si può dar torto a S. Tommaso, quando sostiene che « illuminare è sempre più che splendere soltanto » ( q. 188, a. 6 ).

9 - Per lui il supremo ideale umano e cristiano è la vita apostolica ( « Nos autem orationi et ministerio verbi instantes erimus », At 6,4 ), e di suo l'ordine dei Predicatori ha abbracciato codesto programma, e scelto i mezzi necessari per attuarlo.

Il fatto poi che un ideale così sublime non sia raggiunto dalla massa dei religiosi aggregati a un istituto, non pregiudica la grandezza dell'ideale medesimo.

Ora nella vita mista o apostolica, come la concepisce il Dottore Angelico, c'è un'attività particolare in cui si fondamentalmente le due forme di vita che sembrano antitetiche, cioè l'attiva e la contemplativa.

Tale attività è la predicazione sacra.

Dato il momento critico che indubbiamente questa forma di apostolato sta attraversando nella Chiesa, pensiamo che sia utile raccogliere in proposito l'insegnamento dell'Aquinate.

10 - È un luogo comune ormai rimproverare agli scolastici la passione per le distinzioni ingegnose e sottili.

Eppure, parlando della predicazione dobbiamo lodare S. Tommaso per non aver insistito in una distinzione che è troppo cara ai moderni.

La nostra preoccupazione eccessiva di creare degli specialisti ci ha traditi.

Oggi noi siamo portati a distinguere nettamente il compito dell'oratore sacro da quello dell'insegnante di S. Scrittura o di teologia.

Nel Medioevo, e in modo particolare nel pensiero dell'Aquinate, codesta distinzione di compiti era meno sentita, sia in campo teorico, che in campo pratico.

Ecco perché Pietro da Bergamo è sicuro di interpretrare le intenzioni del Maestro, quando scrive nella sua Tabula Aurea: « Sacra doctrina docetur dupliciter, scilicet legendo et praedicando » ( « Docere », 9; cfr. II-II, q. 181, a. 3; 4 Sent., d. 49, q. 5, a. 3, qc. 3 ).

E non ci vuol molto a capire che l'insegnamento della dottrina sacra è formalmente identico, sia che si rivolga ai semplici, sia che si rivolga ai dotti e agli iniziati.

Perciò le due funzioni, che a prima vista sembrano tanto diverse, devono essere ravvicinate, fino a confondersi nei loro elementi e proprietà essenziali, se vogliamo iniziare uno studio sulla predicazione patristica.

Tutti sanno infatti che i primi passi della teologia non furono compiuti nelle aule scolastiche, ma nelle chiese, dai pulpiti.

Il Dottore Angelico ha affrontato più volte nelle sue opere il problema dell'insegnamento, così connesso col problema gnoseologico, corredando l'indagine razionale, sempre acutissima, con tutti i sussidi di una personale esperienza.

Ma noi ci dispensiamo dall'esposizione, sia pure sommaria, di codesti problemi sotto l'aspetto filosofico.

Qui miriamo piuttosto a raccogliere i suoi suggerimenti e le sue riflessioni che si riferiscono espressamente alla predicazione.

Consigli preziosissimi anch'essi, perché al Santo Dottore non mancò neppure l'esperienza diretta del pulpito ( cfr. WALZ A. « S. Tommaso predicatore », in Temi di predicazione, 18, pp. 51-54 ).

Egli era convinto che Dio avesse concesso generosamente a tutte le creature « la dignità di causa ».

E quindi vedeva chiaramente l'uomo come un elemento indispensabile nell'ordinamento dell'universo.

Ma la prima funzione causale dell'uomo, nell'ordine di natura almeno, è l'insegnamento nel suo significato più ampio ( cfr. I, q. 117 ).

Ciò si può arguire anche dall'analogia con gli angeli.

È questa infatti la causalità propria e specifica degli spiriti celesti. ( cfr. I, q. 106, a. 1; q. 111, a. 1 ).

E questa funzione illuminatrice segna indubbiamente un punto di contatto tra l'uomo e le creature superiori, e persino con la Divinità.

11 - Ma l'analogia non deve essere scambiata mai con una sostanziale equivalenza.

Ecco perché il S. Dottore trova opportuno il richiamo del Maestro Divino: « Unus est magister vester » ( Mt 23,7 ).

La differenza tra l'illuminazione divina e l'insegnamento dell'uomo è incolmabile, perché la funzione di quest'ultimo è soltanto « ministeriale ».

Per spiegare la cosa S. Tommaso ricorre volentieri all'esempio della guarigione e della medicina.

L'ignorante si trova nelle stesse condizioni di un malato, capace di riacquistare la salute.

Soltanto Dio può guarirlo agendo dall'interno, e senza mezzo alcuno, perché egli è l'autore della vita.

La natura è il principio interiore, cui l'arte deve prestare servizio e aiuto.

La medicina interviene quale servitore o ministro della natura.

Perciò il suo è un compito ministeriale, come si diceva.

Lo stesso avviene per la scienza naturale e per quella soprannaturale ( cfr. Mt 23,7 ).

L'unico maestro interiore è Dio.

Senza di lui non c'è né vita né luce.

In questo il Dottore Angelico concorda pienamente con S. Agostino.

Ma a differenza di quest'ultimo, riconosce formalmente una partecipazione permanente del lume divino nell'intelletto creato proprio dell'uomo.

Intelletto agente e primi principi di ragione costituiscono così le risorse naturali che l'insegnamento umano, puramente ministeriale, è in grado di agevolare per la conquista della scienza ( cfr. I, q. 117, a. 1 ).

In termini meno scolastici, diremo che S. Tommaso crede l'uomo naturalmente capace di conoscere, e quindi di scoprire con le proprie forze le verità di ragione.

L'insegnamento non fa che accelerare e agevolare il processo; come fa la medicina in rapporto alla salute.

Da ciò si può dedurre che chi si dedica all'insegnamento deve perfettamente conoscere questi procedimenti psicologici, se non in maniera teorica, almeno in maniera pratica e per una certa intuizione.

La scuola attiva non è un'invenzione moderna della pedagogia idealista, come appare dalla stupenda questione « De Magistro », disputata dal Dottore Angelico intorno al 1256 ( cfr. De Verit., q. 11 ).

Il predicatore, come l'insegnante, deve sempre tener d'occhio il soggetto cui desidera impartire le proprie convinzioni, o la propria dottrina.

Non per nulla, nota S. Tommaso, il verbo docere regge il doppio accusativo.

Ciò significa che nell'insegnamento duplice è la materia, o subietto: le nozioni da impartire e gli uditori ( cfr. op. cit., a. 4 ; infra, q. 181, a. 3 ).

È proprio questa duplicità di oggetto a porre il problema, « se l'insegnamento sia un atto della vita attiva o di quella contemplativa » ( ibid. ).

S. Tommaso risponde che tra i due oggetti il fine fa prevalere il primo, e quindi risolve il quesito a favore della vita attiva.

« L'insegnamento appartiene più alla vita attiva che a quella contemplativa, sebbene appartenga in qualche modo anche alla vita contemplativa » ( De Verit., loc. cit. ).

12 - L'accenno alla vita contemplativa, che ci viene dalla stessa analisi del concetto d'insegnamento, ci porta ora a considerare i problemi relativi alla formazione di quell'insegnante particolare che è il predicatore.

Se si trattasse di formare un insegnante di cose profane, il Dottore Angelico si limiterebbe a raccomandare io studio, dando però al termine un valore profondo che d'ordinario sfugge alla sensibilità del nostro orecchio.

Egli non si contenta mai del solo impegno nell'apprendere; ma vede codesto impegno intellettuale intimamente connesso con un impegno morale, che esclude la curiosità, la superbia e ogni altro vizio ( cfr. II-II, q. 166, a. 2 ).

Ma per lo studioso cristiano questi doveri sono anche più seri.

Da lui si esige un controllo perfetto dei motivi che ispirano l'acquisto della scienza.

Vengono denunziati i disordini in cui egli potrebbe cadere: « Primo, facendosi distogliere dallo studio che gli è imposto dal dovere, per attendere a cose meno utili; cosicché, a dire di S. Girolamo, vediamo dei sacerdoti, i quali, lasciando da parte gli evangelisti e i profeti, leggono commedie e cantano i versi erotici delle bucoliche.

Secondo, qualcuno va in cerca di maestri non autorizzati; ed è il caso di chi, p. es., vuoi conoscere il futuro dai demoni [ leggi: necromanzia, spiritismo, e simili ] …

Terzo, desiderando di conoscere la verità sulle creature, senza riferirla ai debito fine, cioè alla conoscenza di Dio …

Quarto, studiando per conoscere delle verità che sorpassano le capacità del proprio ingegno » ( II-II, q. 167, a. 1; a. 2 ).

Siamo qui in piena vita contemplativa, come il lettore accorto avrà compreso dal contrasto con le suddette deviazioni.

Ma è necessario dirlo esplicitamente, per coloro i quali sono portati a ridurre il « contemplari » della formula tomistica - « contemplari et contemplata aliis tradere » ( q. 188, a. 6 ) - agli esercizi di pietà e ai gradi mistici della contemplazione infusa.

In sostanza dobbiamo includere nella vita contemplativa gli atti seguenti: pregare, apprendere, leggere e meditare ( cfr. q. 180, a. 3, ad 4 ).

Codesti esercizi costituiscono la preparazione autentica, prossima e remota, del predicatore e dell'insegnante di teologia.

Oggi, per indicare codesto impegno in tutta la sua complessità, parliamo di vita interiore.

L'abate G. B. Chautard nel suo divulgatissimo opuscolo L'anima di ogni apostolato ha saputo scegliere con intelligenza i passi più significativi del Dottore Angelico, per un richiamo quanto mai opportuno contro i pericoli dell'americanismo, o - diciamo meglio, per non offendere quegli americani che apprezzano forse più di noi la vita interiore - della dissipazione e della superficialità.

Ma forse S. Tommaso avrebbe insistito di più sullo studio, che è un mezzo potente di ascetismo.

A suo parere sarebbe perfettamente giustificata la fondazione di una religione la quale prendesse lo studio come fine specifico.

In ogni caso « per quei religiosi che sono istituiti per predicare », lo studio è un mezzo indispensabile, « necessario » ( cfr. q. 188, a. 2, ad 3 ).

Ma data l'estensione di codesto compito a tutti i sacerdoti in cura d'anime, è facile capire le conseguenze nella formazione dei chierici.

« Scientia legis » scrive l'Aquinate, « est adeo annexa officio sacerdotis, ut simul cum iniunctione officii intelligatur etiam et scientiae legis iniunctio » ( II-II, q. 16, a. 2, ad 3 ).

13 - Forse in questa insistenza possiamo vedere un aspetto dell'intellettualismo tomista.

Non si creda però che l'intellettualismo facesse ombra al nostro Santo, così da impedirgli di scorgere l'importanza delle doti morali nel predicatore.

Anzi, alla luce della sua dottrina egli le vedeva, in un certo senso, al primo posto.

Precisamente: in ordine genetico le virtù morali sono le prime disposizioni indispensabili per la vita contemplativa, dalla quale soltanto si può sperare una predicazione autentica ( cfr. q. 180, aa. 2, 3 ).

Il Santo ci avverte che la contemplazione, pur essendo un'attività formalmente intellettuale, per l'intenzione che la suscita e la sorregge « appartiene alla volontà, la quale muove tutte le altre potenze agli atti rispettivi, compreso l'intelletto » ( q. 180, a. 1 ).

Ecco perché l'insegnamento e la predicazione possono essere svuotati di ogni valore soprannaturale e morale, qualora i fini umani vengano a sostituirsi alle sante intenzioni cui devono ispirarsi.

Di qui la conclusione pratica: « Nessuno deve assumere l'ufficio della predicazione, se prima non è purificato [ dalla colpa ] e perfetto nella virtù; come si legge di Cristo, il quale cominciò a fare e ad insegnare » ( III, q. 41, a. 3, ad 1 ).

A questo livello la predicazione e il predicatore presentano tutti quei caratteri che la sacra Scrittura descrive così spesso in termini poetici.

Nel suo commento alla prima lettera di S. Paolo ai Corinzi, S. Tommaso raccoglie ben otto denominazioni bibliche del predicatore: egli è soldato, potatore, bove, aratore, trebbiatore, seminatore, pastore e architetto del tempio.

E nel suo commento a Isaia afferma: « praedicatio est tuba, primo, quia excitat ad viae statum: Canet enim tuba et mortui resurgent incorrupti.

Secundo, quia hortatur ad bellum … Tertio, quia nuntiat viri incessum … Quarto, quia vocat ad consiium … Quinto, qua invitat ad festum… » ( Is 58 ).

Queste enumerazioni tratte dai testi biblici formavano la delizia degli oratori sacri nel Medioevo, e davano spesso la trama di tutta la predica.

Ma non si sdegnavano affatto gli altri accorgimenti dell'arte, compresi gli spunti tratti dalle scienze profane, per dare « composizione e ordine » al discorso ( cfr. Contra impugnantes Dei cuitum et rei., e. 12 ).

14 - Da vero teologo S. Tommaso si mostra persuaso che la formazione dei predicatori non è lasciata da Dio alla sola iniziativa umana: qui interviene direttamente lo Spirito Santo.

Non solo perché è Lui a prendere l'iniziativa nella chiamata alla fede e all'apostolato; ma perché egli si riserva di distribuire generosamente i suoi doni e i suoi carismi.

I due carismi più efficaci per la diffusione del regno di Dio sono quelli che S. Paolo ha chiamato sermo sapientiae e sermo scientiae.

Fondamento e disposizione di essi è « il carisma della fede » ( cfr. I-II, q. 3, a. 4 ).

In particolare il S. Dottore si ferma a considerare il carisma della parola [ sermo sapientiae et sermo scientiae ].

E proprio a proposito di esso egli ci descrive con esattezza i compiti specifici della predicazione: « Primo, ha il compito di istruire l'intelligenza. .. ; secondo, quello di muovere gli affetti, in modo da far ascoltare volentieri la parola di Dio; il che avviene quando uno parla in maniera da dilettare gli uditori; ma questo non si deve ricercare a proprio vantaggio, bensì per attrarre gli uomini ad ascoltare la parola di Dio; terzo, ha il compito di far amare, volere ed adempiere le cose di cui si parla, il che avviene quando uno parla in maniera da piegare chi ascolta » ( infra, q. 177, a. 1 ).

Per raggiungere codesti scopi, sia pure in maniera imperfetta, ci sono anche dei mezzi umani, che rientrano nell'arte oratoria ( ibid., ad 1; cfr. In Mt., c. 10, ed. Marietti noviss. n. 847 ).

Ma comprometterebbe l'efficacia della predicazione sacra chi confidasse in codesti mezzi, senza contare sull'opera dello Spirito Santo ( ibid. ad. 2 ).

Anzi, a proposito del carisma di cui parliamo dobbiamo fare una precisazione.

Sebbene S. Tommaso sia spesso accusato di antifemminismo, qui egli non nega neppure alle donne il carisma della parola di sapienza e di scienza.

Però, a imitazione di S. Paolo, nega che si possa loro concedere la facoltà di usarne in pubblico ( ibid. a. 2; vedi infra, q. 177, a. 2 ).

15 - All'inizio di queste brevi note sull'argomento abbiamo detto che la predicazione per il Dottore Angelico ha gli stessi caratteri essenziali dell'insegnamento teologico.

Ma nel corso dell'esposizione abbiamo sempre più accentuato le innegabili differenze, anche se non lo abbiamo fatto rilevare in maniera esplicita; poiché ci siamo industriati di mettere in evidenza le particolarità di quell'insegnamento che si denomina appunto predicazione.

Dobbiamo invece tornare a identificare i due compiti, parlando del modello cui entrambi si ispirano, e del merito che essi raggiungono.

Il modello inarrivabile, sia per il teologo, che per il predicatore, è Cristo, « doctrinae et fidei primus et principalis doctor » ( III, q. 7, a. 7 ).

Perciò, chi volesse conoscere quello che S. Tommaso pensa della predicazione, per semplificare la ricerca, non ha da fare altro che collezionare i testi che si riferiscono al ministero pubblico del Signore.

La ricerca potrebbe incominciare dalla q. 42 della Terzia Pars.

Il premio poi consiste in una particolare aureola, ben distinta da quella dei martiri e dei vergini.

« Come si ottiene una perfetta vittoria sul mondo e sulla carne col martirio e con la verginità, così si ottiene una perfetta vittoria contro il demonio, quando uno, non solo resiste al tentatore, ma lo scaccia anche dagli altri.

Ora, ciò avviene mediante la predicazione e l'insegnamento teologico.

Perciò all'insegnamento teologico si deve un'aureola come alla verginità e al martirio.

Né si può affermare, come fanno alcuni, che essa si deve soltanto ai prelati [ leggi: vescovi ], ai quali compete d'ufficio predicare e insegnare; ma va attribuita a chiunque eserciti con la debita licenza codeste funzioni.

Anzi ai prelati non è dovuta l'aureola, se non predicano di fatto; poiché la corona non si deve per delle semplici disposizioni e attitudini, ma per un combattimento realmente sostenuto, secondo le parole dell'Apostolo [ 2 Tm 2,5 ]: "Non sarà coronato se non chi avrà combattuto valorosamente" ( 4 Sent., d. 49, q. 5, a. 3, qe. 3 ; cfr. Suppl., q. 96, a. 7 ).

Quasi a commento del detto paolino il Dottore Angelico ricorda che l'istruzione religiosa è una delle sette opere di misericordia spirituale ( ibid., ad 1 ); ed è un atto squisito di carità ( ad 2 ).

E, sebbene possa dare occasione alla vanità, cioè alla ricerca del prestigio personale, se si volge l'inevitabile prestigio che ne deriva « al bene degli altri », non può non meritare un premio nella vita eterna ( ad 2 ).

L'ampiezza dei meriti della predicazione sacra si dilata immensamente, cioè quanto si estendono i suoi effetti nelle anime: «Il bene che compiono gli uditori deriva dalla predicazione come effetto diretto; perciò ricade come premio sul predicatore, specialmente quando è previsto » ( I-II, q. 20, a. 5, ad 2 ).

16 - Il Santo certo non ignorava le miserie che possono snaturare questo santo ministero, e rendere profano lo stesso insegnamento della Scrittura.

Ma raccogliere i suoi testi su tali meschinità è impresa più difficile di quella da noi compiuta in senso contrario.

E d'altra parte non la crediamo ugualmente utile.

Perciò passiamo oltre.

Più utile forse sarebbe determinare con esattezza le persone cui si estende l'ufficio della predicazione, secondo S. Tommaso.

Ma per questo dovremmo ricordare almeno per sommi capi la lotta dei maestri parigini contro gli ordini mendicanti e analizzare gli opuscoli polemici del nostro Santo Dottore, per cogliere al vivo i termini della controversia.

Avremo però occasione di trattare quest'argomento nelle note che illustrano il testo.

Qui preferiamo limitarci a rimandare i lettori d buona volontà all'opuscolo più significativo, e cioè al Contra impugnantes Dei cultum et Religionem, raccomandando in particolare i cc. 2, 4, 10, 11, 12.

In esso l'Autore dichiara di trovare persino ridicolo il tentativo di contestare ai religiosi il compito di studiare e d'insegnare la sacra dottrina ( c. 2 ); ed è facile a capirsi, se teniamo presenti le sue idee sullo studio e sull'insegnamento.

Non parliamo poi della predicazione ( c. 4 ).

Invece d'insistere nel ricordo di una controversia del tutto superata, ci sembra opportuno offrire ai lettori un testo, che mira ad estendere fino ai laici il compito di propagare e difendere la fede in casi di emergenza: « In casu necessitatia, ubi fides periclitatur, quilibet tenetur fidem suam aliis propalare, vel ad instructionem aliorum fidelium, vel confirmationem, vel ad reprimendum infidelium insultationem; sed aliis temporibus instruere homines de fide non pertinet ad omnes fideles ( II-II, q. 2, ad 2 ).

Inutile dire che questi concetti collimano perfettamente con quelli espressi dal Concilio Vaticano II.

Le parole riferite potrebbero essere interpolate nel prologo del decreto sull'apostolato dei laici, Apostolicam actuositatem, se la struttura della frase non rivelasse uno stile diverso.

… ( omissis )

P. TITO S. CENTI O. P.

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