Summa Teologica - III |
1 - Questa introduzione abbraccia un gruppo di questioni che sono così perfettamente elencate dall'Autore stesso nella divisione dell'Opera: « quanto si riferisce all'uscita di Cristo da questo mondo.
Primo, la sua passione ( qq. 46-49 ); secondo, la sua morte ( qq. 50 ); terzo, la sua sepoltura ( q. 51 ) quarto, la sua discesa agli inferi ( q. 52 ).
« Dopo di che resta da esaminare ciò che riguarda l'esaltazione di Cristo.
Primo, la sua resurrezione ( qq. 53-56 ); secondo, la sua ascensione ( q. 57 ); terzo, il suo insediamento alla destra del Padre ( q. 58 ) quarto, il suo potere di giudice ( q. 59 ).
In queste quattordici questioni vengono esaminati di seguito cinque articoli del Simbolo apostolico, il quale secondo il computo preferito da S. Tommaso abbraccia quattordici articoli ( cfr. II-II, q. 1, a. 8 ).
E si tratta senza dubbio degli articoli più impegnativi e specifici della fede cristiana, espressi in termini inequivocabili dalla catechesi e dai simboli più antichi e autorevoli.
Ciò significa che le conclusioni più importanti che qui incontriamo sono di fede definita.
Questo fatto non ha impedito però nel corso dei secoli la discussione e l'approfondimento teologico sui temi indicati, anche perché la curiosità umana non sa contentarsi della sobrietà e dei testi biblici e delle formule di fede negli stessi argomenti più ardui e misteriosi.
I profani potranno persino scandalizzarsi nel constatare che intorno a questi dogmi possono esserci ancora tante discussioni a cominciare dal concetto di redenzione e dalla causalità della passione e della resurrezione del Signore.
Ma non c'è da scandalizzarsi, se pensiamo all'assoluta trascendenza dei misteri cristiani.
Lo scandalo esiste solo per quei casi in cui studiosi cattolici osano rimettere in discussione la storicità dei fatti su cui poggia il dogma, accettando, per un complesso psicologico d'inferiorità dovuto a mancanza di fede, le tesi mille volte superate e respinte della critica razionalista.
Comunque nelle discussioni cristologiche attuali nessuno studioso serio di teologia crede di poter ignorare S. Tommaso.
La sua sintesi è quasi sempre al centro dei problemi, e spesso si ricorre a lui dai fronti opposti in cerca di una soluzione definitiva.
Dopo tutto nelle opere del Santo si possono ascoltare armonizzate le voci della tradizione, e senza un ricorso alle fonti non esiste teologia.
2 - La fonte primaria cui l'Aquinate doveva attingere necessariamente, in un trattato come quello che stiamo esaminando, è la sacra Scrittura.
Specialmente le citazioni dei Vangeli e delle epistole di S. Paolo sono a getto continuo.
Non c'è un capitolo del Vangelo di S. Giovanni, p. es., che non sia citato più volte.
Anzi qui sarà forse utile ricordare che l'Autore quando compose la Terza Parte aveva già scritto i suoi Commentari alle epistole di S. Paolo, aveva compilato la Catena Aurea sui quattro Vangeli e dettato le sue lezioni su S. Matteo e S. Giovanni.
Perciò anche per queste esercitazioni previe nessun teologo del secolo XIII era preparato come lui a trattare i problemi relativi alla passione e alla glorificazione di Cristo.
Gli scritti dei Padri che più lo interessano in questo gruppo di questioni sono quelli d'indole esegetica.
Come al solito la parte del leone è riservata a S. Agostino.
Al confronto le citazioni di S. Ambrogio e di S. Girolamo sono poca cosa, sebbene si contino a decine.
Molto frequenti sono pure le citazioni del Crisostomo e del Damasceno.
Altri Padri orientali, quali Origene, S. Cirillo, lo Pseudo Dionigi, S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno e S. Gregorio Nisseno sono anch'essi ricordati, però con citazioni brevi che talora sembrano di seconda mano.
Tra i latini, oltre quelli già nominati, sono ben presenti S. Ilario, S. Beda, S. Gregorio Magno, S. Leone Magno, fino ai maestri immediati quali S. Anselmo e Ugo di S. Vittore.
Ci sono poi, accanto a queste fonti dichiarate, quelle passate sotto silenzio: e tra queste ultime occupa senz'altro il primo posto Pietro Lombardo, sia per il Terzo libro delle Sentenze, che per le sue Glosse.
Nelle prime ventisette distinzioni del libro citato, che l'Aquinate aveva accuratamente commentato nei primi anni del suo insegnamento, era raccolta quasi tutta la problematica che ritroviamo qui nella Somma Teologica.
Tale problematica era stata già affrontata dagli altri maestri, i cui scritti e le cui lezioni furono i presupposti immediati della sintesi tomistica.
Qualche rara volta essi affiorano nel testo della Somma Teologica in maniera del tutto anonima sono i « quidam » ai quali gli eruditi e gli editori più recenti dell'Opera hanno cercato di dare un nome.
3 - Nella prima metà del nostro secolo si è molto discusso intorno al concetto preciso di redenzione, specialmente in seguito alle note vicende della soteriologia nel pensiero protestante.
Il secolo XX si apre con la monografia di A. Sabatier: La doctrine de l'expiation et son évolution historique ( Parigi, 1903 ), che denunzia in maniera molto sommaria il mitologismo dell'era patristica ( con la teoria dei diritti del demonio ), il giuridicismo dell'epoca scolastica ( con la teoria della riparazione o soddisfazione oggettiva ), per giungere al pensiero moderno, in cui la redenzione si attuerebbe in un fatto morale interno a ciascuna coscienza.
Gli storici meno frettolosi del pensiero cristiano, specialmente cattolici, cercarono pazientemente di ricostruire le tappe di una nozione così delicata.
E così furono in grado di documentare una complessità di temi e di impostazioni del tutto trascurati dalla ricostruzione del Sabatier o di chi per lui.
Il merito principale di queste ricerche va attribuito a Jean Rivière, il quale per circa quarant'anni condusse una vera e propria campagna per affermare che la redenzione è essenzialmente costituita dalla soddisfazione vicaria, o soddisfazione morale, combattendo soprattutto l'idea dell'espiazione penale.
4 - Ebbene, nel corso di queste discussioni, in cui quasi tutti i teologi hanno voluto esprimere il loro pensiero, la concezione di S. Tommaso venne spesso qualificata come eclettica.
L'eclettismo in parola sarebbe dovuto al fatto che S. Tommaso nel presentare i vari modi con i quali la passione di Cristo produce i suoi effetti sembra mettere sullo stesso piano, senza subordinazione alcuna, il merito, la soddisfazione, il sacrificio e la redenzione. risaputa e ripetuta da tutti quella specie di ricapitolazione che troviamo alla fine della 48: « La passione di Cristo in forza della sua divinità agisce come causa efficiente; in forza della volontà dell'anima di Cristo agisce come causa meritoria; se poi viene considerata nella carne stessa di Cristo agisce sotto forma di soddisfazione, in quanto da essa siamo liberati dalla pena; agisce poi sotto forma di sacrificio, in quanto per mezzo di essa siamo riconciliati con Dio » ( q. 48, a. 6, ad 3 ).
Ora, nonostante la documentazione del denunziato eclettismo, si rimane molto perplessi nell'accogliere un'accusa di questo genere nei confronti di un pensatore così vigile e coerente come S. Tommaso.
Tutti infatti son pronti a ritirarla, per lo meno in questo senso: l'Aquinate non ha affrontato il problema relativo al costitutivo formale della redenzione, poiché il problema non esisteva ai suoi tempi; perciò si è limitato a mettere in luce gli elementi che la tradizione aveva accumulato per definirne il costitutivo fisico ( cfr. OGGIONI O. « Il mistero della redenzione », in Problemi e Orientamenti di Teol. dogm., Milano, 1957, 11, pp. 277 ss. ).
Ma forse il Dottore Angelico non si contenterebbe di questa difesa, poiché avrebbe ottime ragioni per rimproverare ai teologi moderni di aver consultato con troppa fretta le sue opere su questo argomento.
Il primo appunto da fare riguarda direttamente il testo della q. 48 nella sua materialità.
- Se si parla di redenzione in senso stretto, come fa S. Tommaso negli articoli 4 e 5, è evidente che la formalità propria della redenzione non può essere che il riscatto: precisamente perché questo è il significato del termine.
E in rapporto al riscatto dell'umanità dal peccato è chiaro che il merito e la soddisfazione sono soltanto disposizioni previe; mentre il sacrificio stesso non fa che precisare il significato e la forma di detta soddisfazione.
Questo rimane vero, anche se il concetto di redenzione come tale esprime piuttosto una metafora.
Se a me interessa considerare il riscatto ( redemptio ) come tale, non mi sarà possibile trovarne il costitutivo fuori di esso.
E S. Tommaso lo ha ben sottolineato sia nell' a. 4 che nell' a. 5.2
Se a noi invece interessa l'opera di salvezza e di restaurazione compiuta da Cristo in tutto il suo complesso, allora dobbiamo procedere diversamente: prima di pensare al modo come Cristo ha prodotto tali effetti, dobbiamo considerare questi ultimi direttamente.
Non per nulla S. Tommaso presenta le due qq. 48 e 49 per modum unius.
« Eccoci ora a esaminare gli effetti della passione di Cristo.
In primo luogo la maniera di produrli, in secondo luogo gli effetti stessi » ( q. 48, prol. ).
5 - Solo dopo aver messo bene in evidenza che codesti effetti consistono nella liberazione dal peccato, dal demonio e dal castigo, nonché nella riconciliazione con Dio e nel libero accesso alla gloria eterna, ci possiamo render conto quale sia l'aspetto più formate dell'opera compiuta dal Redentore divino.
Allora sarà più facile concordare tra teologi in una scelta che s'impone con logica evidenza.
Non possiamo mettere al primo posto gli aspetti negativi, ma dovremo dare una preminenza a quelli positivi.
E tra quelli positivi non potremo esitare tra la riconciliazione con Dio e l'ammissione alla gloria: poiché la prima risulta senza ombra di dubbio come formalissima e primordiale rispetto alla seconda.
Se la si vuole indicare con un termine astratto si dirà allora che la redenzione va concepita essenzialmente come riconciliazione ( Non è inutile dire qui che tale concetto emerge sopra ogni altro nella terminologia di S. Paolo: cfr. Rm 5,10.11; 2 Cor. 5,18.19.20; Col 1,20.22 ).
a se preferiamo considerare la maniera concreta in cui si è attuata questa riconciliazione, allora parleremo di sacrificio, senza bisogno di staccarci minimamente dai testi biblici.
Su tale concetto infatti insiste soprattutto la Lettera agli Ebrei.
- S. Tommaso per parte sua così conclude l' articolo 4 della q. 49: « La passione di Cristo è causa della nostra riconciliazione con Dio per due motivi.
Primo, perché cancella il peccato …
Secondo perché essa è un sacrificio graditissimo a Dio.
Effetto proprio, infatti, del sacrificio è di placare Dio ….
Ora, che Cristo abbia patito volontariamente fu un bene così grande, che per codesto bene riscontrato nella natura umana Dio si è placato per tutte le offese ricevute dal genere umano, rispetto a quanti sono uniti al Cristo sofferente nella maniera che abbiamo indicato ».
Ci sembra che S. Tommaso abbia indicato abbastanza chiaramente questa preminenza del sacrificio nella stessa ricapitolazione della q. 48, che noi sopra abbiamo riferito, mettendolo al termine di tutti i modi di causare attribuiti alla passione di Cristo.
6 - Ma c'è un'indicazione nella Somma Teologica anche più chiara, là dove si parla in generale di quanto va attribuito a Cristo rispetto a noi.
Lasciando da parte ogni altro titolo, gli viene attribuito là quello di mediatore.
E ciò nella q. 26 di questa Terza Parte, che è la questione conclusiva del trattato sul mistero dell'Incarnazione.
Ora, il concetto di mediatore si riallaccia a quello di sacerdote e di vittima.
E di ciò si è parlato a lungo nella q. 22, dedicata al sacerdozio di Cristo.
Ebbene in quest'ultima viene dedicato un articolo intero al problema che c'interessa in questo trattato sulla redenzione: « Se l'espiazione dei peccati sia effetto del sacerdozio di Cristo » ( a. 3 ).
Naturalmente la conclusione è affermativa, e da codesta affermazione si deduce che la redenzione dal peccato è effetto del sacrificio, atto supremo e specifico del sacerdozio.
Perciò crediamo che S. Tommaso abbia indicato chiaramente nel sacrificio stesso il costitutivo formale della redenzione, intesa però quale opera del Cristo, cioè nella sua causalità efficiente.
Quest'ultima precisazione è necessaria; perché non dobbiamo confondere i vari aspetti di un'impresa così complessa come è l'eliminazione della colpa.
Nel 3 Sent. d. 19, q. 1, a. 1, l'Aquinate spiega che essa si può considerare sotto i due aspetti della causalità formale, e della causalità efficiente.
Sotto il primo aspetto l'eliminazione del peccato avviene mediante la grazia.
Ma sotto il secondo aspetto abbiamo tre generi di causa efficiente:
a) la causa principale che infonde la forma, « e nel caso Dio soltanto può cancellare il peccato, poiché lui solo infonde la grazia »;
b) la causa dispositiva, « e nel caso toglie il peccato in questo modo colui che merita la cancellazione del peccato …
Ora, Cristo soltanto può meritare per gli altri in modo efficace, poiché essendo egli Dio, la sua carità, come la sua grazia, è in qualche modo infinita »;
c) c'è poi « la causa agente strumentale, e in tal senso sono i sacramenti a distruggere i peccati, poiché sono essi gli strumenti della divina misericordia ».
Dal testo riferito qualcuno forse potrebbe concludere che il sacrificio è fuori questione; poiché non se ne parla affatto.
Ma è abbastanza facile rispondere che il merito della grazia, che nel caso costituisce l'elemento risolutivo, non si concepisce che come effetto dell'oblazione di Cristo per noi: « Nam virtute ipsius [ sacerdotii ] gratia nobis datur, qua corda nostra convertimus ad Deum » ( q. 22, a. 3 ).
E del resto tutti i riti sacramentali sono strettamente legati al sacerdozio e al sacrificio di Cristo.
7 - Il testo tomistico più importante sul valore salvifico del sacrificio di Cristo è senza dubbio l'a. 2 della questione ora citata, e di esso bisogna tener conto quando vogliamo precisare il pensiero di S. Tommaso sulla redenzione.
Eccone la conclusione per sommi capi: « Come dice S. Agostino, "ogni sacrificio visibile è sacramento o segno sacro del sacrificio invisibile".
Il sacrificio invisibile poi è l'offerta del proprio spirito che l'uomo fa a Dio …
Perciò si può chiamare sacrificio tutto ciò che l'uomo presenta a Dio per elevare a lui il suo spirito.
Ora, l'uomo ha bisogno del sacrificio per tre scopi.
Primo, per ottenere il perdono del peccato …
Secondo, per conservarsi nello stato di grazia …
Terzo, perché lo spirito dell'uomo possa unirsi a Dio perfettamente, il che avverrà soprattutto nella gloria …
- Ebbene, queste nostre esigenze sono state soddisfatte dall'umanità di Cristo.
Primo, con essa sono stati distrutti i nostri peccati, perché come dice S. Paolo "Fu sacrificato per i nostri peccati".
Secondo, abbiamo ricevuto per i suoi meriti la grazia che ci salva: " È divenuto principio di eterna salvezza per tutti quelli che gli ubbidiscono".
Terzo, per lui abbiamo ottenuto la perfezione della gloria: "Noi abbiamo fiducia d'entrare per il suo sangue nel Santo", cioè nella gloria celeste.
Per queste ragioni Cristo, in quanto uomo non è stato soltanto sacerdote, ma anche vittima perfetta; vittima per il peccato, vittima pacifica e olocausto » ( q. 22, a. 2 ).
Nessuno nega che questo sacrificio sia stato una perfetta espiazione, e più ancora una perfettissima soddisfazione vicaria offerta per i nostri peccati ; ma solo il sacrificio come tale ci offre in prospettiva tutta l'opera salvifica compiuta da Cristo: dalla remissione dei peccati al conseguimento della gloria.
E questa è la prospettiva che S. Tommaso preferisce, quando vuol precisare il valore caratteristico della passione come atto risolutivo nell'opera della salvezza.
Il Santo è stato orientato verso questa prospettiva dal preludio stesso della passione di Cristo, che è l'istituzione della SS. Eucaristia.
( Ed è un vero peccato che l'amore per la brevità abbia spinto gli artefici frettolosi della riforma liturgica ad accorciare « il Passio » nelle Messe della Settimana Santa, togliendo questo illuminante preludio del dramma ).
Per non allungare troppo questa introduzione rimandiamo i nostri lettori a quello che potranno leggere qui sulla Somma, III, q. 73, a. 5.
8 - Non è nostra intenzione risolvere qui direttamente il problema riguardante il costitutivo della redenzione, ma solo di precisare il pensiero di S. Tommaso in proposito.
E per completare le nostre osservazioni ricorderemo ai lettori della Somma italiana che il sacerdozio, e quindi il sacrificio che ne è il compito specifico, costituisce per l'Autore l'esercizio supremo di quella virtù di religione, che regola anche nell'ordine naturale i nostri rapporti con Dio.
Il culto è legato a questa funzione caratteristica, che nelle condizioni dell'uomo peccatore non può non esprimersi sotto forma di espiazione.
Già il culto ebraico fu inaugurato col sacerdozio e col sacrificio ( Eb 9,18ss ).
Ora, « con la mutazione del sacerdozio venne a mutare anche la legge » ( Eb 7,12 ); però questo mutamento non tolse l'esigenza dell'espiazione, anzi fu proprio il sacrificio perfetto a svuotare di significato tutti gli atti del culto ebraico.
« Il mistero della redenzione umana ebbe compimento nella passione di Cristo ; fu allora infatti che il Signore gridò ( Gv 19,30 ): " Tutto è compiuto".
Ecco perché da allora dovevano cessare tutte le norme legali, essendo ormai in atto la verità di quanto preannunziavano.
Di ciò si ebbe un segno nella passione di Cristo, quando il velo del tempio si squarciò.
Quindi prima della passione, quando Cristo predicava e faceva miracoli, erano simultaneamente in vigore la Legge e il Vangelo; poiché il mistero di Cristo era già iniziato, ma non era compiuto.
Ecco perché il Signore, prima della sua passione, comandò al lebbroso di osservare le cerimonie legali », ( I-II, q. 103, a. 3, ad 2 ).
Ripetiamo che non è nostra intenzione risolvere il problema del costitutivo formale della redenzione; ma ci sembra che J. Rivière si sia sbarazzato troppo alla brava della nozione di sacrificio, di cui riconosce la venerabile antichità.
A suo parere il sacrificio offre solo un quadro, non un'idea precisa.
Ma forse questa preoccupazione delle idee chiare e distinte ha bisogno di essere meglio controllata nel campo della dogmatica.
Dobbiamo certo concedere che i teologi cattolici sono ben lontani dall'essere concordi sulla nozione stessa di sacrificio ma ci sembra che questo disaccordo non pregiudichi affatto la nostra questione.
Poiché il problema nasce proprio circa il sacrificio di Cristo: il quale non può essere concepito come uno dei tanti sacrifici, bensì come il primo analogato in mezzo a una congerie di atti umani di cui non abbiamo un concetto univoco.
Basti dire che in quest'unico caso noi abbiamo l'identità tra sacerdote e vittima.
E si rimane incerti se sia più importante qui considerare l'atteggiamento di vittima o quello di sacerdote.
Certo si è che la Scrittura ci presenta Cristo come l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo », e come « il vero agnello », la vera vittima; e d'altra parte ce lo presenta come l'unico vero grande sacerdote.
Il fatto, dunque, che noi non sappiamo ben definire l'essenza di questo sacrificio dipende dalla sua assoluta trascendenza.
Ecco perché S. Tommaso stesso dice che la passione è « quoddam sacrificium acceptissimum Deo » ( q. 47, a. 2 ).
Il Rivière invece pretende di far dire a S. Tommaso, con codesta frase: « La morte di Cristo fu una maniera di sacrificio graditissimo a Dio » ( Le Dogme de la Rdemption, étude théoL, Parigi, 1914, p. 209 ).
E ciò con l'intenzione di dare alla parola un significato improprio.
9 - Gli autori moderni, che si sono impegnati a elaborare una teoria della redenzione, hanno insistito pure sul valore morale che le sofferenze volontariamente accettate da Cristo hanno per l'uomo, oggetto dell'opera salvifica.
In questo essi hanno trovato aperto la via da S. Tommaso stesso.
I testi più significativi in tal senso, tra quelli pubblicati in questo volume, sono: q. 46, aa. 3,4 ; q. 50, a. 1.
In quest'ultimo caso il Santo ritorna su di un concetto che gli stava, a quanto sembra, particolarmente a cuore: « Era conveniente che Cristo subisse la morte … per liberare noi, col suo morire, dalla paura della morte ».
« Infatti, aggiunge nel Compendium Theologiae, « non ricusando egli di morire per la verità, vinse il timore della morte, per il quale spesso gli uomini si sottomettono alla schiavitù del peccato » ( Comp. Theol., I. o. 227).367
10 - Indubbiamente questo enorme apporto di ordine morale, che la passione di Cristo offre alla psicologia umana, aiuta a comprendere, nei limiti del possibile, i motivi per cui l'infinita sapienza di Dio scelse questo mezzo per la nostra redenzione.
Ma per meglio penetrarne l'efficacia salutare, indipendentemente dalla nostra corrispondenza, S. Tommaso tiene ben presente l'universalità del suo influsso diretto, che giunge al punto di inaugurare un nuovo culto e di rendere operanti tutti i riti sacramentali: « La grazia dei sacramenti è ordinata principalmente a due fini: a togliere la colpa dei peccati commessi, di cui passa l'atto, ma rimane il reato; e a perfezionare [ o abilitare ] l'anima in ciò che riguarda il culto di Dio secondo la religione cristiana.
Ma da quanto abbiamo detto appare evidente che il Cristo ci ha liberati dai nostri peccati principalmente per mezzo della passione, non solo a modo di causa efficiente e meritoria, ma anche come causa soddisfattoria.
Inoltre egli iniziò il culto della religione cristiana proprio con la sua passione, "offrendo se stesso come oblazione e sacrificio a Dio", secondo l'espressione di S. Paolo ( Ef 5,2 ).
È chiaro dunque che i sacramenti della Chiesa ricevono la loro virtù specialmente dalla passione di Cristo, che viene applicata a noi quando li riceviamo.
In segno di ciò dal fianco di Cristo pendente dalla croce sgorgarono acqua e sangue, l'una elemento del battesimo, l'altro dell'Eucarestia, che sono i sacramenti principali s ( III, q. 62, a. 5 ).
Anzi, stando al pensiero dei SS. Padri, fedelmente accolto dall'Aquinate, bisogna dire che la passione ha addirittura un influsso retroattivo, pur essendo molto più difficile dare una spiegazione di questo fatto.
È certo infatti che gli antichi padri, cioè i giusti dell'antico Testamento, dovettero la salvezza alla loro fede, confusa quanto si voglia, nel Salvatore futuro.
Ma questa fede presupponeva che l'influsso dell'atto salvifico risolutivo li avrebbe raggiunti, cosicché in vista del futuro sacrificio espiatorio, Dio concesse la grazia a codesti predestinati.
- In questo caso non si può parlare di un influsso diretto da parte della santa umanità del Cristo, la quale ancora non esisteva; ma è certo che la divinità del Verbo, preordinato con la sua incarnazione alla nostra salvezza, esercitava già il suo influsso salvifico e deificante.
Ora, in questa prospettiva universalistica non è più il caso di limitare la redenzione a un atto particolare, sia pure conclusivo, della vita di Cristo; ma tutta la vita del Redentore in blocco si presenta come il mistero di salvezza.
11 - Per S. Tommaso tutte le volte che noi consideriamo l'influsso redentivo della divinità di Cristo che è « ad modum efficientiae », non è più il caso di passare attraverso le categorie del merito, della soddisfazione e del sacrificio, in cui l'umanità santa agisce come strumento congiunto, e che non possono varcare i limiti dello « status merendi », ossia dello stato dei Viatori.
La divinità di Cristo compie così la nostra redenzione anche al di là della morte: nella resurrezione e nell'ascensione ( cfr. qq. 56,57 ).
Del resto negli atti stessi compiuti in via la divinità del Verbo influisce sempre con la medesima efficacia, dando loro valore salvifico.
« Tutte le azioni, tutti i fatti della vita di Cristo », scrive G. Oggioni, « ivi compresi la resurrezione, la discesa agl'inferi, l'ascensione sono in questa maniera produttivi della salvezza, la quale appartiene in modo particolare alla morte e alla resurrezione, che stanno al vertice degli atti e della missione dl Cristo.
- Se questo vuol dire S. Tommaso, quando afferma che l'azione di Cristo ha prodotto la nostra redenzione "ad modum efficientiae", non si può eliminare l'impressione che egli raggiunga, con categorie scolastiche, quella spiegazione della redenzione per contatto e per divinizzazione, che è propria della patristica greca » ( op. cit., pp. 279 s. ).
Pensiamo che non possa sussistere dubbio alcuno su tale argomento tomistico; perché S. Tommaso ben conosceva e condivideva questo motivo del pensiero greco attraverso lo Pseudo-Dionigi.
Nel De Divinis Nominibus, p. es., egli aveva letto e commentato frasi come questa: « È essa [ la Potenza infinita ] che concede la deificazione, donando ai deificati il potere di elevarsi a una tale altezza ( De Div. Nom., c. 8, § 5 ).
E l'Aquinate commenta: « L'efficacia della potenza divina si estende alle cose relative alla grazia; e dice che la virtù divina concede "la deificazione", cioè la partecipazione della Divinità che si ha con la grazia » ( In De Div. Nom., e. 8, lect. 2, n. 761 ).
E l'eco di queste considerazioni si riscontra nel trattato sulla grazia: « Come il fuoco soltanto può far sì che una cosa s'infuochi, così è necessario che Dio deifichi, ammettendoci al consorzio della divina natura ( I-II, q. 112, a. 1 ).
Proprio in codesto trattato S. Tommaso precisa i rapporti tra umanità e divinità in Cristo nel conferimento della grazia: « L'umanità di Cristo è "come uno strumento della divinità", secondo l'espressione del Damasceno.
Ora, uno strumento non compie l'azione dell'agente principale con la propria virtù, ma con quella dell'agente principale.
Ecco perché l'umanità di Cristo non causa la grazia per virtù propria, ma con la virtù della divinità cui è unita, la quale rende salutari le azioni dell'umanità di Cristo » ( ibid. ad I ).
12 - Questo non significa minimizzare o ridurre l'influsso della santa umanità di Cristo sul conferimento della grazia, che è l'effetto formalissimo della redenzione; ma significa attribuire il primato assoluto in quest'opera alla Trinità santissima, cui spettano incontestabilmente tutti i primati « Come a causa prima e remota [ il pagamento del riscatto, e il prezzo versato ] vanno attribuiti a tutta la Trinità, cui apparteneva la vita stessa di Cristo, e a cui risale l'ispirazione di Cristo come uomo a patire per noi.
Cosicché essere Redentore in maniera immediata è proprio di Cristo in quanto uomo: però la redenzione stessa va attribuita come alla sua causa prima a tutta la Trinità » ( q. 48, a. 5 ).
Teologi ed esegeti sono concordi finalmente nel riconoscere il merito dell'Aquinate per aver sottolineato l'influsso redentivo della resurrezione del Signore: aspetto quasi del tutto dimenticato dalla teologia post-tridentina.
Ci sembra però che non sia il caso di mettere la resurrezione alla pari o al disopra della passione.
Ci sembra che non si debba qui dimenticare che Cristo con la sua passione ha meritato anche la propria resurrezione ( cfr. q. 49, a. 6 ).
Concludendo perciò questo paragrafo diremo che nonostante lo sforzo di molti teologi moderni, che hanno tentato di darci una teoria della redenzione, la posizione di S. Tommaso è ben lungi dall'essere superata.
Anzi si ha la netta impressione che la teologia contemporanea non ha ancora scoperto tutta la ricchezza dei testi tomistici su questo delicatissimo argomento.
13 - Ben diversa è invece l'impressione che si riceve dalla lettura, e meglio ancora dallo studio, di quanto l'Aquinate ha saputo dirci a proposito dell'ascensione di Cristo.
Il tema è assai meno importante, ma non sarebbe giusto trascurarlo.
Nella Somma Teologica il Santo Dottore gli ha dedicato praticamente due questioni, perché oltre la q. 57, in cui si parla espressamente dell'ascensione, anche la questione successiva, riservata all'insediamento di Cristo alla destra del Padre, non fa che discutere la fase terminale di codesta esaltazione.
Per essere esatti dobbiamo anzi rilevare che più volte incidentalmente il discorso sull'ascensione era cominciato fin dalla q. 55.
Infatti nell'a. 2 della questione indicata S. Tommaso precisa chiaramente, nella soluzione seconda ( ad 2 ), che nell'ascensione dobbiamo ben distinguere il termine a quo, oggetto di esperienza, dal termine ad quem che trascende qualsiasi esperienza umana.
Nell'articolo successivo è costretto a esaminare il problema della residenza di Cristo durante i quaranta giorni trascorsi dalla pasqua all'ascensione ( a. 3, ad 2 ).
E qui troviamo una delle incongruenze caratteristiche della teologia medioevale, posta nell'impossibilità di spiegarsi un così lungo periodo di attesa per il trionfo corporeo del Cristo.
- Nell'articolo 5 ( arg. S. c. ) viene riferito quel testo che secondo gli esegeti medioevali costituiva la testimonianza inoppugnabile di tale attesa: "Cristo si manifestò ai suoi discepoli con molte prove per quaranta giorni, parlando loro del regno di Dio" ( At 1,3 ).
Nell'articolo quarto invece era stato discusso un altro testo importantissimo relativo all'ascensione ( a. 4, ad 3 ): « Noli me tangere, nondum enim ascendi ad Patrem meum » ( Gv 20,17 ).
14 - Forse la prima responsabile di questa rigidità dei Padri più tardivi e dei teologi medioevali nello stabilire l'attesa di quaranta giorni per la glorificazione definitiva del Cristo, staccandola dalla resurrezione, è stata la sacra liturgia.
La festa dell'ascensione è certamente meno antica di quanto pensasse S. Agostino, che la faceva risalire agli apostoli ( cfr. Ep. 18 Ad Ianuarium ).
Introdotta gradualmente nel secolo IV, essa accaparrò un po' per volta gli elementi che si riferiscono alla suprema glorificazione della santa umanità di Cristo con l'insediamento alla destra del Padre.
E così l'ascensione venne a costituire un completamento della resurrezione, ponendo il Cristo risorto in posizione d'attesa per quaranta giorni, e creando il curioso problema del suo soggiorno in codesto periodo.
Era ovvio che gli apocrifi non si lasciassero sfuggire l'occasione per dei fantasiosi romanzi.
S. Tommaso capì troppo bene che a questo punto bisognava mettere un freno alla curiosità: « Ignoriamo dove egli [ il Cristo ] dimorasse corporalmente in quei giorni d'attesa: poiché la Scrittura non ne parla, e d'altronde "il suo dominio si estende in ogni luogo" ( q. 55, a. 3, ad 2 ).
E con questo egli si mette molto al di sopra di tanti suoi predecessori e contemporanei.
Ma sarebbe troppo pretendere da lui un superamento di tutta una tradizione massiccia, di cui ignorava le origini.
15 - Ma l'ascensione di Cristo metteva i teologi in un'altra grave tentazione: li sollecitava indirettamente a inquadrare il fatto nel cosmo che credevano di conoscere.
Ora, i nostri lettori sanno già quali fossero le idee medioevali sui cieli disposti in sfere concentriche attorno alla terra.
Chi conosce la Divina Commedia di Dante non ha bisogno di troppe spiegazioni.
Alle sfere aristoteliche alcuni scrittori ecclesiastici avevano aggiunto il cielo empireo, « il cielo dei cieli », che sarebbe stata la sede dei beati.
Ebbene, con la sua ascensione il Signore sarebbe salito al disopra di tutti questi cieli, per giungere alla sommità del cielo empireo.
S. Tommaso ha accettato questa ricostruzione del fatto, senza distinguersi dai suoi contemporanei.
Tuttavia ha notato che del cielo empireo la Scrittura non parla affatto: « L'esistenza del cielo empireo non si fonda che sull'autorità di Strabone, di S. Beda e di S. Basilio.
Essi concordano nel ritenere che esso sia il luogo dei beati » ( I, q. 66, a. 3 ).
Ciò non gl'impediva però di considerano, come un dato abbastanza sicuro, quale dimora abituale degli spiriti creati, e di vedere in esso la conferma troppo sbrigativa di un principio incontestabile: « Le creature corporee e quelle spirituali formano un solo universo.
Perciò le creature spirituali furono create con una certa rispondenza col mondo corporeo, e preposte all'universo materiale.
Era dunque conveniente che gli angeli venissero creati nel corpo più sublime, si chiami esso cielo empireo o in qualsiasi altra maniera, perché appunto essi sovrastano tutti gli esseri corporei ( I, q. 61, a. 1 ).
16 - C'è poi un'altra impostazione che non regge nella teologia medioevale a proposito dell'ascensione, ed è il principio che il corpo dì Cristo avrebbe acquistato un decoro che prima non aveva, raggiungendo la sede dei beati.
S. Tommaso ha ridotto al minimo questo decoro, per non menomare l'intrinseco splendore della gloria, ma qualche cosa è rimasto: « L'ascensione al cielo non accrebbe nulla a Cristo di ciò che è essenziale alla gloria, sia nel corpo che nell'anima: tuttavia, gli conferì un luogo più adatto per il coronamento della gloria.
Non che i corpi celesti abbiano conferito al suo corpo qualche cosa nell'ordine della perfezione o della conservazione, ma solo una certa convenienza [ o connaturalità ].
Ora, questo in qualche modo rientrava nella sua gloria.
E di codesta convenienza egli ebbe una certa gioia: non che cominciasse a goderne quando ascese al cielo come di cosa nuova; ma perché ne godette in una nuova maniera, cioè come di cosa compiuta » ( q. 57, a. 1, ad 2 ).
Per i teologi moderni la cosa è più semplice: « L'insegnamento essenziale della Scrittura, quello cioè che deve impegnare la nostra fede, è che Cristo, con il trionfo della sua Resurrezione e della sua Ascensione, è uscito dal mondo presente, corrotto dal peccato e votato alla distruzione, per èntrare nel mondo nuovo dove Dio regna da padrone, e dove lo Spirito penetra totalmente la materia trasformata.
Mondo reale d'una realtà fisica, come il corpo stesso di Cristo, il quale quindi occupa un "luogo", però mondo che non esiste ancora se non nella promessa, o meglio nelle primizie, nel solo corpo risuscitato di Cristo ( al quale bisogna aggiungere quello della sua Santa Madre ), e che non sarà definitivamente costituito e rivelato che alla fine dei tempi, quando appariranno i "cieli nuovi" e la "terra nuova" » ( BENOIT P., Exgègèse et Théologie, Parigi, 1961, I, p. 410 ).
17 - Dello studio qui citato del P. Benoit noi condividiamo in pieno non solo questo pensiero conclusivo, ma tutto lo svolgimento.
Perciò riteniamo che la santa umanità di Cristo abbia raggiunto la pienezza della gloria nel momento della resurrezione, con la quale coincide l'ascesa misteriosa e non sperimentabile « alla destra del Padre ».
L'ascensione fisica di cui si parla negli Atti, 1, 2, è solo l'ultima delle apparizioni accordate ai discepoli, a chiusura delle rivelazioni del mistero pasquale; non già il solenne ingresso nella gloria celeste.
Così siamo d'accordo con tutti quei teologi che condividono oggi questa tesi.
Tutt'al più possiamo lamentare qualche imprecisione di linguaggio, quando si tenta di spiegare che cosa è il cielo in cui è entrato Gesù risorto.
18 - Noi quindi riconosciamo con tutta franchezza i punti deboli della cristologia tomistica; ma dobbiamo anche riconoscere che essi non intaccano la solidità dell'insieme e non ci autorizzano a dimenticare il valore insostituibile di tutto il resto.
Soprattutto è doveroso rilevare in S. Tommaso i motivi basilari della sua sintesi; poiché viviamo in un'epoca nella quale l'erudizione minaccia di polverizzare persino il racconto evangelico.
Le analisi dei testi fanno perdere spesso la visione dell'insieme, e talora fanno smarrire il buon senso in ricostruzioni soggettive del tutto unilaterali.
Perciò la meditazione e lo studio di un trattato come quello della passione e glorificazione di Cristo inserito nella Somma Teologica è ancora indispensabile non solo per fare della vera teologia, ma anche per orientarsi nell'esegesi.
Né si creda che esso sia un terreno impraticabile per la pietà e per la devozione.
È risaputo il P. E. D. Lacordaire leggeva in ginocchio tutti questi articoli della Terza Parte.
Noi pensiamo che una pratica analoga, cioè la scelta di questo volume come libro di meditazione giornaliera, possa giovare sostanzialmente a non poche anime, per uscire dal torpore assecondato dai sottoprodotti della vera teologia.
Indice |
367 | Non si deve dimenticare che ( servatis servandis ) anche nel momento della passione, come in tutti i momenti della sua vita, Cristo ci viene presentato e dato in tutti i suoi aspetti: primo, come fratello … ; secondo, come maestro …; terzo, come giudice vigilante …; quarto, come liberatore …; quinto, come pastore …; sesto, come esempio di virtù …; settimo, come cibo del nostro pellegrinaggio …; ottavo, come prezzo del nostro riscatto …; nono, come premio della nostra ricompensa i (In Is., c 9, v. 6). |