Summa Teologica - II-II |
1 - « Dopo aver trattato delle virtù teologali, nel passare alle virtù cardinali dobbiamo innanzi tutto interessarci della prudenza ».
È tutto qui il prologo con cui S. Tommaso ci introduce nell'ampio trattato che egli dedica a questa virtù.
Stando alle sue espressioni nessuno potrebbe sospettare che nell'intraprenderlo egli abbia dovuto affrontare l'indifferenza e perfino la diffidenza dell'ambiente.
2 - S. Bonaventura nel Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo si era dispensato dallo svolgere questo tema.
Tanto più che il testo del Maestro si limitava a trattarne in modo generico dedicando alla prudenza una sola definizione approssimativa desunta da S. Agostino: « [ Prudentia ] est in praecavendis insidiis » ( 3 Sent., d. 33 ).
Stando alle indagini di Dom Odo Lottin, i trattati medioevali più ampi sull'argomento prima dell'Aquinate erano scaturiti dagli studiosi più appassionati delle opere aristoteliche, quali Guglielmo d'Auxerre [ + 1231 ], Filippo il Cancelliere [ + 1236 ] e S. Alberto Magno [ + 1280 ] ( cfr. LOTTIN O., Psychologie et Morale aux XII et XIII siècles, Louvain-Gembloux, 1949, pp. 255 Ss. ).
Mettersi sulla loro scia significava, nella seconda metà del secolo XIII, rendersi invisi alla corrente agostinista, che negli ambienti ecclesiastici era predominante.
S. Tommaso aveva scelto questo indirizzo, mirando però a una sintesi superiore, fin dalla giovinezza.
Per quanto riguarda la prudenza egli aveva seguito e raccolto a Colonia le lezioni di S. Alberto Magno a commento dell'Etica Nicomachea.
La sua reportatio meditata di quelle lezioni possiamo considerarla il primo trattato tomistico su tale argomento; perché il diligente discepolo non si limitava a trascrivere, ma rielaborava personalmente i temi svolti dal Maestro.
Ciò traspare anche dai brani riferiti dal Lottin nell'opera citata ( pp. 271ss. ).
L'eco di questi alti studi compiuti sulle rive del Reno non Poteva non farsi sentire sulle rive della Senna, cioè nell'insegnamento parigino del giovane baccelliere italiano.
Nel commentare la distinzione 33 del 3 Sententiarum, egli non si limitò a considerazioni globali e generiche sulle virtù cardinali, come il suo collega S. Bonaventura, ma cercò di chiarire a se stesso e ai suoi uditori la vera natura della prudenza, affrontando i problemi agitati e mal risolti dai suoi predecessori ( cfr. 3 Sent., d. 33, q. 2, aa. 2-5; q. 3, a. 1 ).
Durante il primo magistero parigino [ 1256-59 ] ebbe modo di ricapitolare brevemente il suo pensiero sull'argomento nelle quaestiones disputatae De Ventate, q. 1, a. 1, parlando della provvidenza, la quale analogicamente si riscontra anche in noi con lo stesso nome in latino, che però in italiano si denomina piuttosto previdenza.
E questa, come vedremo, una parte integrante della prima virtù cardinale.
3 - Circa dieci anni più tardi in Italia riesaminò a fondo il problema da un punto di vista filosofico nel suo commento all'Etica Nicomachea, avendo a disposizione una versione latina più comprensibile e il traduttore medesimo, fra Guglielmo di Moerbeke.
I passi più interessanti sulla prudenza possiamo ricercarli nelle pericopi seguenti: 6 Ethic., c. 5, lect. 4; cc. 10- 13, lectt. 8-II.
Forse a questa medesima epoca va assegnata la composizione della questione disputata De Vintutibns in communi, che all'a. 6 traccia un profilo nitidissimo della prudenza.
Frattanto l'Aquinate aveva concepito il disegno della sua opera principale, in cui pensava di dar forma definitiva anche al trattato che stiamo qui presentando al pubblico italiano.
Già nella I-II ( q. 56, a. 3; qq. 57, 58, 61 ), cioè nella morale generale, definisce accuratamente il compito specifico della prudenza rispetto alle virtù morali.
Qui invece, nella II-II, qq. 47-56, cerca di dare completezza al trattato, esaminando a fondo i problemi specifici relativi a questa virtù.
Il suo tentativo di sintesi è perfettamente riuscito: il trattato sulla prudenza è uno dei più completi della Somma Teologica.
Anzi, pare che i moralisti e gli stessi commentatori l'abbiano trovato persino prolisso, perché i primi ne han fatto una riduzione progressiva fino al punto di eliminarlo, e i secondi si son quasi del tutto dispensati dal commentarlo.
Purtroppo questo disinteresse non ha servito a darci una morale più semplice ed incisiva.
I fatti hanno dimostrato che le elucubrazioni di S. Tommaso sulla virtù della prudenza, chiamata a regolare l'applicazione dei principi all'azione concreta da compiere, non erano inutili divagazioni peripatetiche: non per nulla è nata in questo clima rarefatto « la morale della situazione », e prima ancora i moralisti avevano sentito il bisogno di ampliare fino all'inverosimile il trattato sulla coscienza con la creazione e la difesa polemica di ben sette « sistemi morali».
4 - Nessuno potrebbe rimproverare S. Tommaso di aver incorporato nella Somma quasi tutte le pericopi aristoteliche relative alla prudenza.
Non esiste in tutto il pensiero antico un trattato organico su questa virtù, che possa competere con il sesto libro dell'Etica Nicomachea.
É noto del resto che per l'elenco delle virtù cardinali la stessa Sacra Scrittura dipende dal pensiero greco.
S. Ambrogio questo non lo pensava, perché era persuaso che il libro della Sapienza fosse realmente di Salomone ( cfr. De Paradiso, c. 12 ).
Tale persuasione non era invece ugualmente certa per S. Tommaso e per i suoi contemporanei, che conoscevano le discussioni precedenti sulla canonicità di quel libro.
Comunque l'Aquinate cita con tutti gli onori il testo celeberrimo sulle virtù cardinali: « Essa [ la sapienza ] insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza » ( Sap 8,7 ).
In ebraico non esiste un termine che in maniera completa ed uniforme corrisponda al concetto latino di prudentia, sebbene questa idea non sia estranea ai libri più antichi ( vedi, p. es., Pv 21,30 ).
Per la storia comunque basterà risalire alle origini greche del termine frònesis, che già il latino classico tradusse prudentia.
É vero che nella nostra lingua il termine prudenza ha subito una certa usura, e si tende a farne un sinonimo della pura circospezione, o della furberia; ma l'uso nel suo significato originale è ancora predominante.
Invece nella lingua francese, di cui si subiscono facilmente le variazioni e gli umori, il termine prudenza è talmente depauperato da far sentire il bisogno di ricorrere per una buona traduzione al termine sagesse ( cfr. GAUTHIEB e JOLIF, L' Ethique à Nicomaque, Louvain-Paris, 1959, t. 2, pp. 463ss. ).
Nella sacra Scrittura l'Aquinate ha cercato con amore tutte le citazioni che potevano servire al suo scopo.
E nel commentare i testi più significativi non ha mancato di sottolineare l'importanza di questa virtù nella stessa economia della salvezza.
Ben noto è il suo commento alle parole della lettera ai Romani riguardanti l'opposizione tra la prudenza della carne e la prudenza dello spirito ( Rm 8, 1,2 ).
Analogo concetto ritroviamo svolto nella 1 Cor 1,3.5
- A proposito del precetto del Signore: « Siate dunque prudenti come i serpenti, e semplici come le colombe » [ Mt 10,16 ], raccolse nella Catena Aurea le spiegazioni più ingegnose sulla prudenza del serpente, per poi ripeterle in altri termini nelle sue lezioni su S. Matteo ( Mt 10 ).
Troppo lungo sarebbe ricordare tutte le pericopi dei suoi commenti scritturistici in cui si parla della prudenza.
E sarebbe anche inutile; perché in essi egli non si stanca di ripetere quanto ha scritto nella sua opera principale.
Ma ci premeva di sottolineare questa insistenza, per mostrare chiaramente la funzione che per Tommaso avevano i passi biblici nella elaborazione dei suoi trattati dogmatici e morali.
Perciò possiamo concludere che anche nel caso della prudenza Aristotele non rimane l'unica fonte primaria: tale onore va riconosciuto anche alla Sacra Scrittura, specialmente ai libri del nuovo Testamento.
- Tutte le altre fonti del trattato sono secondarie.
Tra queste merita però un cenno speciale S. Agostino, le cui sedici citazioni sono quasi sempre di grande valore dottrinale.
Desta una certa meraviglia notare nella Somma Teologica l'assenza di una fonte che era stata citata con onore nel 3 Sent., d. 33, q. 2, a. 5, in questi termini: « La prudenza è la prima delle virtù cardinali e ad essa si riducono le altre virtù come alla loro causa.
Ecco perché S. Antonio [ abate ] nelle Collationes Patrum [ lib. 1, col. 2, c. 4 ] afferma che la discrezione, la quale rientra nella prudenza, "è madre custode e moderatrice delle virtù" ».
Pensiamo che l'omissione di questi testi di Cassiano sulla discrezione nell'opera della maturità non sia stata puramente occasionale, ma intenzionale per S. Tommaso.
Infatti analizzando bene le parole di Cassiano, o di S. Antonio Abate, cui egli le attribuisce, non si riesce a far quadrare la prudenza con la virtù suddetta.
Questa viene descritta dal celebre monaco di Marsiglia in modo da abbracciare un po' tutte le virtù, come virtù generale che assicura il senso della moderazione.
Nella Somma Teologica si parlerà di discrezione a proposito delle osservanze monastiche, e allora il nostro Autore ricorrerà più volte a quella collazione di Cassiano, che aveva espunta nel trattato sulla prudenza ( cfr. II-II, q. 188, a. 6c., ad 3; a. 7, ad 2 ).
5 - Abbiamo già accennato al fatto che i moralisti moderni, avendo ridotto progressivamente il trattato sulla prudenza, hanno poi sentito il bisogno di ampliare fino all'inverosimile il trattato sulla coscienza.
A quest'ultima invece S. Tommaso nella Somma Teologica non dedica che pochi accenni: un articolo nella Prima Parte ( q. 79, a. 13 ), e due articoli che ne trattano in maniera implicita nella Prima Secundae ( q. 19, aa. 5, 6 ).
Non si può dire che l'Aquinate non conoscesse i problemi relativi a tale argomento; poiché nel De Ventate aveva dedicato ad essi la questione 17 di quattro lunghissimi articoli.
Perché dunque tanta differenza tra i manuali moderni e quello più antico e venerabile, che è la Somma Teologica?
Alcuni tomisti contemporanei ( leggi Garrigou-Lagrange e Merkelbach ) hanno auspicato un rilancio della prudenza in tono polemico, cioè a spese della coscienza.
Quest'ultima, a loro avviso, dovrebbe perdere la sua autonomia e rientrare nella prima; perché dopo tutto non sarebbe altro che « un atto della prudenza » ( GARRIG0U-LAGRANGE R., « Du caractère métaphysique de la théologie morale de S. Thomas », in Revue Thom., 1925, p. 354 ).
Pur condividendo le critiche di questi confratelli ai moralisti moderni, per l'esagerato sviluppo concesso al trattato sulla coscienza, non siamo d'accordo con loro nella riduzione proposta.
Condividiamo le critiche, perché le dispute sui vari sistemi morali hanno trasferito al campo morale una casistica che a tutto rigore è di carattere giuridico, quasi che nell'agire un cristiano avesse da rivendicare dei diritti contro la legge.
Siamo anche d'accordo nell'affermare che rispetto all'azione morale e alla formazione spirituale delle anime si deve dare più importanza al criterio pratico personale immediato che alle questioni teoriche sulla liceità di un atto.
Ma da un punto di vista speculativo non è possibile far coincidere la sfera conoscitiva della coscienza con quella operativa della prudenza.
6 - Per chiarire il nostro pensiero riportiamoci brevemente alla nozione di queste due cose nella concezione di S. Tommaso.
« La coscienza », egli scrive, « non sta a indicare un abito speciale o una potenza, ma l'atto stesso che è l'applicazione di un qualsiasi abito, o conoscenza, a un atto particolare » ( De Verit., q. 17, a. 1 ).
Si tratta quindi del giudizio che il soggetto porta sulla moralità del proprio atto.
Talora con questo termine si vuol indicare l'abito stesso dei primi principi operativi della ragion pratica, che i medioevali denominarono sinderesi.
La prudenza invece « è essenzialmente una virtù intellettuale. Ma la materia di cui tratta è affine alle virtù morali …
E sotto questo aspetto viene enumerata tra le virtù morali » ( I-II, q. 58, a. 3, ad 1 ).
Il compito specifico che S. Tommaso le affida è quello di cc trovare il giusto mezzo nelle virtù morali » ( q. 47, a. 7 ).
La dinamica dell'atto moralmente buono si presenta quindi molto complessa, e certamente si fa sentire su di esso l'influsso sia della coscienza che della prudenza.
Ma per non cadere in facili coincidenze e identificazioni, bisogna tornare col pensiero all'analisi tomistica dell'azione umana ( I-II, qq. 6-17 ).
Per rimanere aderenti al testo della Somma Teologica, ricordiamo in tutto il processo di acquisizione di un oggetto, la successione dei seguenti atti: volizione, intenzione del fine, uso attivo del volere, elezione dei mezzi, consiglio o deliberazione cc che precede l'elezione », consenso, imperium o comando, uso passivo delle facoltà sotto la mozione del volere, atti imperati.
É chiaro per tutti che la volizione e I' intenzione del fine precedono sempre l'atto dell'elezione.
Non è altrettanto sicuro invece l'ordine reciproco degli atti successivi; comunque S. Tommaso cerca di stabilire il processo cronologico di queste funzioni in rapporto all'atto dell'elezione, che è un atto della volontà relativo ai mezzi » ( cfr. I-II, q. 13, Prol.; q. 15, a. 3; q. 16, a. 4 ).
Per lui non c'è dubbio che la prudenza cade all'altezza dell'elezione, avendo essa per oggetto i mezzi e non il fine ultimo, che non è materia di deliberazione ( cfr. I-II, q. 57, a. 5 ).
L'atto specifico proprio di questa virtù è invece l'imperium o comando, trattandosi di una virtù essenzialmente intellettuale.
Si noti però che l'imperium va concepito come atto della ragione sotto la mozione della volontà, e precisamente sotto la mozione immediata della scelta o elezione.
Bisogna insistere, come fa S. Tommaso, nell'affermare che la prudenza si produce essenzialmente nella funzione imperativa la quale si innesta necessariamente nel dinamismo degli atti concreti, i quali possono non essere esterni, ma ormai non possono rimanere solo nella sfera dei futuribili.
Trattandosi di un atto successivo a una libera scelta, l'azione prudente non rimane mai nella sfera della semplice conoscenza, ma è nella sfera delle azioni esplicitamente consentite e deliberate, anche se viene formalmente esercitata dalla ragione.
Si noti che l'imperium, o comando, è talmente impregnato di volontarietà che molti pensatori di altra scuola l'hanno attribuito alla volontà stessa.
7 - Certamente alla sua radice troviamo anche la sinderesi, cioè l'abito conoscitivo naturale dei primi principi pratici, che è il primo nucleo della coscienza.
Mentre però il dettame alla ragion pratica si concreta sotto forma di conoscenza atuale applicata al singolare attraverso le sole mediazioni di ordine conoscitivo o noetico ( coscienza ), i primi principi pratici giungono alla prassi moralmente onesta, cioè all'esercizio della prudenza, attraverso la volontà.
La quale a sua volta ha dovuto subire, per accettarli, l'attrattiva dei fini onesti propri delle virtù morali.
Da questa prospettiva tomistica, risulta chiara una conseguenza, che a prima vista può sembrare sconcertante: la virtù della prudenza non ha una propria materia su cui esercitarsi; ma si applica alla materia delle altre virtù morali: giustizia, fortezza, temperanza e tutto il corteo delle virtù loro connesse.
É vero infatti che essa ha il compito di stabilire il giusto mezzo della virtù, ma « il giusto mezzo delle virtù morali è quello stesso della prudenza, cioè la retta ragione: alla prudenza però codesto mezzo [ la recta ratio ] appartiene come all'elemento regolante e misurante; mentre appartiene alle virtù morali come a cose misurate e regolate » ( I-II, q. 64, a. 3 ).
Basterebbe questa mancanza di materia propria a spiegarci lo scarso interesse per la prudenza da parte dei moralisti preoccupati di tutto semplificare.
Ma questa semplificazione è pericolosa, perché impedisce di comprendere come la virtù morale possa influire sulla facoltà più sublime dell'uomo che è la ragione.
La vita morale, senza la prudenza, potrebbe presentarsi come un orientamento irrazionale verso dati fini, senza la guida attiva e impegnata della ragione nell'ordine esecutivo.
O per lo meno si avrebbe una frattura dell'unità psicologica: da una parte I'intelligenza con tutte le sue funzioni conoscitive, dall'altra la volontà con quelle operative.
Inoltre le varie virtù, senza la prudenza non avrebbero nessuna coesione reciproca.
Chi accettasse questo punto di vista sarebbe tentato di ridurre la ragione a una fucina inesauribile di consigli e di giudizi, senza mai considerarla come guida effettiva impegnata nell'operazione.
S. Tommaso, l'abbiamo già detto, valorizza anche queste funzioni puramente conoscitive di contenuto pratico, e le attribuisce senz'altro alla coscienza; ma non ammette l'esistenza di una vita morale, fino a che quei dati conoscitivi non raggiungono l'atto dell'imperium rationis attraverso la libera scelta della volontà.
8 - Una volta chiarita la distinzione tra prudenza e coscienza, rimane da esaminare un problema più sottile e difficile: possiamo identificare la coscienza con le virtù che S. Tommaso considera parti potenziali della prudenza stessa?
Stando alla terminologia aristotelica, egli le denomina eubulia, che è la virtù del buon consiglio sinesis, che è preposta al giudizio nei casi ordinari; e gnome, che regola il giudizio nei casi eccezionali e imprevedibili.
Esprimendosi la coscienza col giudizio, il problema a tutto rigore si restringe alla sinesi e alla gnome.
Molti teologi tomisti sono d'opinione che la coscienza si identifichi con gli atti di codeste virtù.
Ecco in proposito le parole del P. S. Ramirez: « La coscienza si distingue dalla prudenza come un atto si differenzia dall'abito virtuoso che dispone e muove a formano.
Il dettame della retta coscienza ha sempre come principio formale immediato la virtù della prudenza, non certo nella sua attuazione ultima di ordinare con efficacia l'esecuzione dell'azione buona, ma nella sua attuazione previa e prevalentemente intellettuale, in quanto abilita con la sinesi e la gnome al retto giudizio delle cose pratiche.
Così insegnano comunemente i teologi tomisti: con esso la coscienza retta è sempre un atto di virtù, come quella cattiva e deformata procede dal vizio contrario di imprudenza », ( SUMA Espan., vol. VIII, p. 730 ).
Dalle parole stesse dell'illustre confratello risulta che la identificazione suddetta si ottiene non con la coscienza in assoluto, ma con la coscienza retta.
Ed è proprio questo aggettivo a farci comprendere che formalmente parlando coscienza e atto virtuoso di sinesi o gnome non si identificano.
9 - Tanto per cominciare notiamo che la coscienza esiste, almeno sotto forma di rimorso, anche nei dannati.
E non si può dire neppure che sia deformata; perché ogni deformazione è ormai rettificata dall'inesorabile castigo.
Ma nessuno oserebbe concedere in essi l'esistenza delle virtù suddette, posto che siano vere virtù.
Questa riserva è resa indispensabile da un testo che leggiamo nel trattato tomistico: « Diversi sono i motivi che rendono un uomo adatto a ben deliberare, a ben giudicare e a ben comandare; il che si dimostra col fatto che codeste funzioni talora sono separate tra loro.
Perciò l'eubulia, che rende l'uomo ben disposto a ben consigliare, è una virtù distinta dalla prudenza, la quale predispone l'uomo a ben comandare i propri atti.
E come la deliberazione è ordinata al comando, che è l'atto principale, così l'eubulia [ come del resto la sinesi e la gnome ha nella prudenza la virtù principale cui è ordinata; senza la quale non sarebbe neppure una virtù come non lo sono le virtù morali senza la prudenza, e tutte le virtù senza la carità » ( q. 51, a. 2 ).
Pare che per S. Tommaso le funzioni della sinesi e della gnome possano sussistere indipendentemente da quei legami psicologici per cui sono parti di un tutto.
Considerate nella loro autonomia queste funzioni non avrebbero la loro qualifica di virtù, restando nella sola sfera della conoscenza, e quindi potrebbero identificarsi con la coscienza.
Ci sembra che non si possa negare questa possibilità, e quindi la coincidenza materiale della coscienza con la sinesi e la gnome.
Ma in quei casi è ancora lecito parlare di codeste virtù?
In base ai testi di S. Tommaso pare che si debba rispondere negativamente, perché la virtù è inconcepibile senza la connessione con la prudenza.
E dall'analisi stessa di una qualsiasi virtù come tale risulta che l'operazione sua specifica è sempre mediata dalla volontà retta, cioè orientata verso il debito fine.
Ora questo di suo non si richiede per la coscienza, che rimane essenzialmente ed esclusivamente un fatto conoscitivo.
Perciò la coincidenza materiale della coscienza retta con gli atti della sinesi e della gnome non sembra che giustifichi una loro coincidenza formale.
10 - A questo punto qualcuno potrebbe trovare del tutto superflua la discussione, perché in sostanza le due tesi sono molto vicine.
Ma dalla differenza che rimane, e non è poca, derivano conseguenze importanti di ordine sistematico.
Se la coscienza si considera come esercizio delle parti potenziali della prudenza, è giusto includere il trattato De conscientia nella prudenza medesima, come ha fatto il P. Merkelbach e come fanno intenzionalmente quei tomisti, che nel commentare la Somma, aggiungono qui una grossa appendice dedicata alla coscienza.
Se invece consideriamo quest'ultima come un atto essenzialmente intellettivo e formalmente indifferente, cioè senza qualifiche di ordine morale, allora dobbiamo trattarne là dove si parla dei principi degli atti umani ( cfr. I-II, q. 19, a. 5 ).
Siamo però convinti anche noi che sarebbe meglio alleggerire il trattato De conscientia, dando maggiore importanza alla prudenza.
Tutto sommato vale anche per la coscienza l'affermazione che S. Tommaso trova implicita in Aristotele ( 2 Ethic., c. 2 ): « scire parum vel nihil prodest ad virtutem ».
« La prudenza invece importa ben più della scienza pratica; poiché alla scienza pratica appartiene un giudizio universale sulle azioni da compiere, p. es., che la fornicazione è riprovevole, che il furto non va fatto, ecc.
E pur avendo codesta scienza può capitare che uno in un'azione particolare sospenda il giudizio della ragione, così da non ragionare rettamente; e per questo si dice che vale poco per la virtù, poiché pur essendoci la conoscenza capita che un uomo pecchi contro la virtù.
Invece è compito della prudenza giudicare rettamente delle singole azioni come da farsi in quel dato momento: il quale giudizio viene distrutto da qualsiasi peccato.
Perciò finché c'è la prudenza l'uomo non pecca; e quindi essa non un poco ma molto conferisce alla virtù ; anzi è essa stessa a causarla » ( De Virtut. in communi, a. 6, ad 1 ).
11 - Per fortuna non siamo soli a denunziare gli inconvenienti dell'accantonamento progressivo della virtù della prudenza ( cfr. PIEPER J., Sulla Prudenza, Brescia, 1956, pp. 35 ss., 64 s. ).
Ma non sarà possibile riabilitare questa virtù nei trattati di teologia morale e nei direttori ascetici, se non si descrivono con esattezza le sue funzioni.
Pensiamo che proprio per questo dobbiamo evitare di confonderla con la coscienza, come alcuni vorrebbero.
Perché una tale confusione, a dispetto delle buone intenzioni, potrebbe portare all'eclissi totale di questa virtù.
Per evitare questa confusione dobbiamo imparare a distinguere nettamente due funzioni dell'intelletto pratico, le quali in nessun modo possono confondersi tra loro.
Una cosa è conoscere il singolare esprimendo un pensiero o un giudizio anche di ordine pratico, e altra cosa è conoscere l'opportunità di un'azione imperandone l'esecuzione.
Quest'ultima è la funzione veramente pratica, cui il consiglio e il giudizio previo possono essere solo subordinati.
É infatti la funzione formalissima dell'intelletto pratico, che comanda l'agire umano; e la perfezione, cioè la costanza nell'agire secondo il dettame della ragione, è precisamente la prudenza.
Perciò la mancata distinzione delle due funzioni suddette costituisce, a nostro avviso, l'impedimento più grave a comprendere la vera natura ditale virtù.
Altro motivo d'incomprensione è stato il progressivo depauperamento di questo termine.
Alcuni, purtroppo, tendono a usarlo prevalentemente nel significato di cautela e circospezione, con una accentuazione di lentezza, secondo le parole del Metastasio: "Assai più giova che i fervidi consigli, una lenta prudenza ai gran perigli". ( Antigone, att. 3, sc. 3 ).
Così per molti la prudenza è diventata l'arte del temporeggiare e del non compromettersi nelle occasioni pericolose.
Oppure una specie di saggezza sopraffina per le occasioni straordinarie.
Invece per allinearsi col pensiero di S. Tommaso, il quale rimane il grande Dottore della prudenza, bisogna comprendere che non c'è una virtù più « ordinaria » di questa.
Mentre infatti le altre virtù hanno una loro materia specifica, di cui non sempre c'interessiamo, la prudenza si esercita nel regolare secondo ragione, entro i limiti del giusto mezzo, tutte le virtù morali.
Essa quindi si estende a tutto il campo delle azioni virtuose.
« La prudenza », scrive S. Tommaso, « è la virtù più necessaria per la vita umana.
Infatti il ben vivere consiste nell'operare.
Ma perché uno operi bene non si deve considerare solo quello che compie, ma in che modo lo compie; e cioè si richiede che agisca non per impulso o per passione, ma secondo una scelta o decisione retta ».
Il che « richiede il diretto intervento di un abito della ragione: poiché deliberazione e scelta, aventi per oggetto i mezzi, appartengono alla ragione » ( III, q. 57, a. 5 ).
12 - I maestri di spirito insistono nel consigliare alle anime la perfezione delle azioni ordinarie, ricorrendo all'adagio: « Age quod agis ».
E questo il consiglio più incoraggiante per l'esercizio della prudenza.
Perché la virtù suddetta costituisce la regola concreta, la « recta ratio o, la giusta misura dell'agire virtuoso.
Su questo non insisteremo mai abbastanza, perché si tratta di affermare il più alto valore umano della vita.
La virtù, o bene morale, è infatti inconcepibile senza l'intervento della ragione informata dalla prudenza.
L'impulso stesso che spinge verso i fini delle virtù morali, per raggiungere il suo scopo, senza degenerare in vizio, ha bisogno del giusto mezzo imposto dalla prudenza.
E d'altra parte tutte le attività umane, prive della guida razionale che ne rende l'uso confacente e positivamente applicato al bene morale di chi le compie, non sono che esercizi meccanici.
La razionalità dell'agire: ecco la prudenza.
Questa razionalità infatti è nelle altre virtù solo per partecipazione; nella prudenza risiede in maniera essenziale.
« Il bene umano, come dice Dionigi, è la conformità con la ragione.
E codesto bene appartiene essenzialmente alla prudenza, che è una perfezione della ragione …
Perciò tra le virtù cardinali la prima è la prudenza » ( II-II, q. 123, a. 12 ).
13 - Prudenza e sollecitudine.
- Quando si vuol esaltare la prudenza per Io più ci si ferma a mostrare i vantaggi della lentezza e della ponderazione nel deliberare.
Ma la deliberazione, o consiglio, non è che un atto preparatorio: esso appartiene formalmente all'eubulia, parte integrale e potenziale della prudenza.
É quindi più giusto esaltare tra le parti integranti quella che riguarda direttamente il comando della ragione, in cui questa essenzialmente consiste.
Non è necessaria nessun'indagine per conoscere il pensiero di S. Tommaso in proposito: il posto d'onore fin dalla prima questione del trattato è riservato alla sollecitudine ( cfr. q. 47, a. 9 ).
Questa costituisce la dote propria ed essenziale della prudenza.
Il Santo Dottore si compiace di riferire in proposito le parole di Aristotele: « Oportet operari velociter consiliata » ( 6 Ethic., c. 10, lect. 8 ).
E a chi obbietta la necessità di raggiungere la calma sicura della certezza, per assicurare la perfezione di una virtù intellettuale qual'è la prudenza, risponde: come nota il Filosofo, "non si deve cercare in tutte le cose una certezza assoluta, ma quanto ne permette la natura di ciascuna materia".
E siccome materia della prudenza sono i singolari contingenti, di cui s'interessano le persone umane, la certezza della prudenza non può essere tanta da eliminare ogni sollecitudine » ( q. 47, a. 9, ad 2 ).
Ciò detto è facile comprendere perché il Santo Dottore dedichi una questione a parte alla negligenza ( q. 54 ): « Poiché alla prudenza appartiene la sollecitudine, sul primo argomento [ vizi apertamente contrari ] esamineremo due cose: primo l'imprudenza; secondo la negligenza che si oppone alla sollecitudine » ( q. 53, Prol. ).
A volere, sarebbe qui il caso di parlare dei peccati di omissione, che formalmente appartengono ai vizi contrari alla prudenza, in quanto son dovuti a negligenza.
Ma questi pochi accenni possono bastare a farci comprendere che la virtù della prudenza non consiste nel temporeggiare, e nel rimandare, aspettando con pavida furberia la soluzione dei problemi umani individuali e sociali dalle circostanze esterne; bensì nell' impegnarsi quotidianamente, con accortezza, solerzia e tempestività alla loro soluzione.
14 - Si tratta dunque di una virtù sommamente dinamica, essendo il potenziamento del primo principio motore degli atti umani in quanto tali.
Mentre infatti l'agire dell'animale ha la sua molla segreta nell'istinto naturale, l'uomo è applicato e guidato ad agire dalla sua ragione.
Poiché la volontà sente solo in maniera generica l'attrattiva del fine e del bene, per agire è necessaria l'electio, la scelta dei mezzi, che poi sono i fini concreti immediati.
E per tale scelta si richiede la deliberazione della ragione ; mentre per concretare la scelta effettuata è indispensabile il comando della ragione medesima.
Ora, è proprio in questa dinamica che s' inserisce la prudenza ( cfr. De Virtut. in communi, a. 6 ).
Perciò educare alla prudenza significa educare al senso della responsabilità personale, all'autodecisione cosciente, che vince con criterio ogni perplessità.
15 - Da ciò deriva una conclusione anche più generale: è proprio della prudenza elevare l'uomo all'altezza della sua dignità.
Perciò l'unico umanesimo autentico è quello che deriva da questa virtù della ragion pratica.
Oltre tutto tale ragione non è avulsa, come voleva Kant, dal mondo della speculazione scientifica e metafisica, ma costituisce l'anello di congiunzione tra vita speculativa e prassi morale.
Nelle sue azioni consapevoli l'uomo non è chiamato a concretare impulsi irrazionali. o vaghi sentimentalismi, come vorrebbero i fautori di sistemi morali autonomi; bensì a inserirsi nella realtà concreta, conosciuta possibilmente fino alle ultime determinazioni attuali, e ai suoi ulteriori sviluppi questo precisamente il compito della prudenza.
Nell'affrontare un'impresa così complessa l'uomo non è abbandonato alle sue forze: oltre la prudenza acquisita e naturale, esiste anche quella infusa di ordine soprannaturale.
S. Tommaso presuppone ben nota ai suoi lettori la distinzione suddetta, dopo le precisazioni fatte nella I-II, q. 63.
Chiaro comunque che nell'ambito della vita attiva la prudenza costituisce la perfezione suprema, e quindi la felicità umana in codesto ordine.
« Come la felicità di ordine speculativo viene attribuita alla sapienza, che abbraccia sotto di sè come principale gli altri abiti speculativi, così la felicità di ordine attivo, la quale accompagna le azioni delle virtù morali, va attribuita alla prudenza, che è la più alta di tutte queste virtù » ( 10 Ethic., c. 8, lect. 12, n. 2111 ).
16 - Il passaggio dall'ordine pratico all'ordine speculativo, secondo S. Tommaso, viene agevolato dal dono del consiglio.
Con esso « da prudenza, che implica la rettitudine della ragione, viene potenziata ed aiutata, in quanto è regolata e mossa dallo Spirito Santo » ( q. 52, a. 2 ).
Il dono infatti inserisce l'uomo nella sfera del divino, nell'ambito delle cose necessarie, che sono per se stesse oggetto della speculazione, e quindi della beatitudine suprema.
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