La Trinità |
Perciò il verbo che risuona al di fuori è segno del verbo che risplende all'interno e che, più di ogni altro, merita tale nome di verbo.
Perché ciò che pronunciamo materialmente con la bocca è voce del verbo e si chiama anch'esso verbo in quanto serve al verbo interiore per apparire all'esterno.
Il nostro verbo infatti si fa in qualche modo voce del corpo servendosene per manifestarsi ai sensi umani, alla stessa maniera che il Verbo di Dio si è fatto carne, ( Gv 1,14 ) assumendola per manifestarsi sensibilmente agli uomini. ( 1 Tm 3,16 )
E come il nostro verbo si fa voce, senza cambiarsi in cose, così il Verbo di Dio si è fatto carne, ma non si pensi assolutamente che si è mutato in carne.
Infatti il nostro verbo si fa voce, e il Verbo di Dio si è fatto carne per assunzione rispettivamente della voce e della carne, non per consunzione di sé nella voce e nella carne.
Ecco perché chi desidera trovare una qualche rassomiglianza del Verbo di Dio, somiglianza d'altra parte con molte dissomiglianze, non deve considerare il nostro verbo che risuona agli orecchi, né quando lo proferiamo con la voce, né quando lo pensiamo in silenzio.
Perché, anche silenziosamente, si possono pensare i suoni delle parole di tutti gli idiomi, e si possono recitare interiormente dei poemi, senza che si muovano le labbra; non soltanto i ritmi delle sillabe, ma anche le melodie dei canti, benché siano cose corporee ed appartengano a quel senso corporeo che si chiama udito, per mezzo di immagini corporee che li rappresentano sono presenti al pensiero di coloro che in silenzio fanno scorrere tutti questi ricordi.
Ma bisogna superare tutto ciò per giungere a quel verbo umano che è una specie di somiglianza in cui possiamo vedere un po', come in enigma, ( 1 Cor 13,12 ) il Verbo di Dio, non quel verbo che è stato indirizzato a questo o a quel Profeta di cui si è detto: Il Verbo di Dio si diffondeva e si moltiplicava, ( At 6,7 ) e del quale è detto ancora: Dunque la fede dipende dall'ascolto, e l'ascolto dalla parola di Dio; ( Rm 10,17 ) o infine: Perché accogliendo da noi il verbo che Dio vi ha fatto udire, voi lo riceveste non come verbo di uomini, ma, com'è in realtà, verbo di Dio. ( 1 Ts 2,13 )
E nella Scrittura vi sono innumerevoli testimonianze che parlano di quel verbo di Dio che, per mezzo dei suoni appartenenti a molte e varie lingue, si diffonde nei cuori e sulle labbra degli uomini.
Si parla in questo caso di verbo di Dio, perché ci presenta un insegnamento divino e non umano.
Ma il Verbo di Dio che noi cerchiamo di vedere ora in qualche modo attraverso questa somiglianza è quello di cui è detto: Il Verbo era Dio; ( Gv 1,1 ) del quale è detto: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui; ( Gv 1,3 ) di cui è detto: E il Verbo si è fatto carne; ( Gv 1,14 ) di cui è detto: La fonte della sapienza è il Verbo di Dio nei luoghi eccelsi. ( Sir 1,5 )
Dobbiamo giungere dunque a quel verbo dell'uomo, ( 1 Ts 2,13 ) a quel verbo di un essere dotato di anima razionale,47 a quel verbo dell'immagine di Dio - immagine non nata da Dio, ma creata da Dio ( Gen 1,27; Gen 5,1; Gen 9,6 ) -, verbo che non è nemmeno proferito in un suono né pensato alla maniera di un suono - ché allora dovrebbe appartenere a qualche lingua -, ma che è anteriore a tutti i segni in cui viene espresso ed è generato dalla scienza immanente all'anima, quando questa stessa scienza si esprime in una parola interiore tale quale è.
Infatti la visione del pensiero è in tutto simile alla visione della scienza.
Perché questa scienza, quando viene espressa attraverso un suono o qualche segno corporeo, non viene espressa com'è, ma come può essere vista o udita dal corpo.
Ma quando ciò che è nel verbo riproduce esattamente ciò che è nella conoscenza implicita ( notitia ), è allora che c'è un verbo vero e c'è la verità quale l'uomo la desidera; che cioè quanto c'è nella conoscenza ci sia anche nel verbo, che ciò che non è nella conoscenza non sia nemmeno nel verbo.
Si riconosce qui quel Sì, sì; no, no. ( Mt 5,37; Gc 5,12 )
Così la somiglianza dell'immagine creata si approssima, per quanto è possibile, alla somiglianza dell'immagine generata, quella per la quale si afferma che Dio Figlio è simile sostanzialmente in tutto al Padre.
Bisogna rilevare in questo enigma anche un'altra somiglianza con il Verbo di Dio.
Come è detto di quel Verbo: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, ( Gv 1,14 ) testo in cui è affermato che Dio ha fatto tutto per mezzo del Verbo suo unigenito, così l'uomo non fa nulla che prima non dica nel suo cuore; per questo è scritto: Il verbo è l'inizio di ogni opera. ( Sir 37,20 )
Ma anche qui, quando il verbo è vero, allora è l'inizio di un'opera buona.
Ora il verbo è vero, quando è generato dalla scienza del bene operare, cosicché anche là sia rispettato il: Sì, sì; no, no. ( Mt 5,37; Gc 5,12 )
Se la scienza che regola la vita pronuncia sì, questo sì sia anche nel verbo che regola l'azione; e vi sia no, se è no.
Altrimenti questo verbo sarà menzogna, non verità, e ciò che ne procederà sarà peccato, non azione retta.
Vi è ancora tra il Verbo di Dio e il nostro questa somiglianza.
Il nostro verbo può esistere, senza che si traduca in azione, ma non vi può essere azione, se non la preceda il verbo, come il Verbo di Dio ha potuto esistere senza che esistesse alcuna creatura, ( Sir 1,5; Sir 24,5 ) ma nessuna creatura potrebbe esistere se non per opera del Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. ( Gv 1,3 )
Di conseguenza non Dio Padre, non lo Spirito Santo, non la Trinità stessa, ma il Figlio solo, che è il Verbo di Dio, si è fatto carne ( Gv 1,14 ) ( sebbene l'incarnazione sia opera della Trinità ), affinché, seguendo ed imitando il nostro verbo il suo esempio, vivessimo nella giustizia, cioè non avessimo sia nella contemplazione sia nell'azione del nostro verbo alcuna menzogna.
Senza dubbio verrà un giorno in cui questa immagine attingerà la sua perfezione.
È per condurci a questa perfezione che il buon Maestro ci istruisce con la fede cristiana e gli insegnamenti della religione affinché a faccia svelata, ( 2 Cor 3,18 ) liberati dal velo della Legge che è come l'adombramento delle cose future, ( 2 Cor 3,13-15; Col 2,17; Eb 10,1 ) contempliamo la gloria di Dio, cioè vedendolo attraverso uno specchio, siamo trasformati nella medesima immagine di gloria in gloria, come per opera dello Spirito di Dio, ( 2 Cor 3,18 ) secondo la spiegazione che di queste parole abbiamo già data.48
11.21 Quando dunque, con questa trasformazione, questa immagine sarà rinnovata fino a raggiungere la sua perfezione, ( Eb 7,19 ) saremo simili a Dio, perché lo vedremo non per mezzo di uno specchio, ma come egli è, ( 1 Gv 3,2 ) o come dice l'apostolo Paolo: a faccia a faccia. ( 1 Cor 13,12 )
Ma chi può spiegare quanta dissomiglianza c'è ora in questo specchio, in questo enigma, ( 1 Cor 13,12 ) in questa imperfetta somiglianza?
Mi sforzerò tuttavia con alcuni tratti di rendere avvertibili queste differenze nella misura in cui mi sarà possibile.
In primo luogo questa stessa scienza, che informa secondo verità il nostro pensiero, quando diciamo ciò che sappiamo, di che genere è ed in qual misura un uomo, per quanto competente e dotto egli sia, può possederla?
Prescindiamo da ciò che nell'anima è apporto dei sensi; in questo campo la realtà è così spesso diversa dall'apparenza che l'insensato, avendo l'anima troppo ingombra di queste false apparenze, si ritiene pieno di buon senso; per questo la filosofia dell'Accademia ha preso vigore fino al punto che, dubitando di tutto, è caduta in una follia più miserevole.49
Prescindendo dunque da ciò che si trova nell'anima come apporto dei sensi, c'è, fra quelle che ci restano, una conoscenza ugualmente certa di quella che abbiamo di vivere?
In questo caso non abbiamo timore alcuno che ci accada di essere ingannati da qualche falsa apparenza,50 perché è certo che anche colui che si inganna, vive.
Qui non accade come nel caso della vista degli oggetti esterni, in cui l'occhio si può ingannare, come si inganna quando un remo appare spezzato nell'acqua,51 quando una torre sembra muoversi a coloro che navigano,52 e mille altri casi53 in cui la realtà è differente da ciò che appare, perché questo non si vede con l'occhio della carne.
È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere, cosicché un filosofo dell'Accademia non può neppure obiettare: "Forse tu dormi senza saperlo, e quello che tu vedi lo vedi in sogno".
Chi non sa infatti che le cose viste in sogno sono assai simili alle cose viste in stato di veglia?54
Ma colui che, con scienza certa, sa di vivere, non dice: "So di essere sveglio", ma: "So di vivere", dunque che dorma o che sia sveglio, vive.
Si tratta di un sapere che il sonno non può rendere illusorio, perché sia dormire che vedere in sogno sono proprietà di uno che vive.
Né contro questa scienza l'Accademico può obiettare: "Forse sei pazzo senza saperlo", perché, è vero che anche le visioni dei folli sono estremamente simili alle visioni dei sani di mente, ma colui che è folle, vive.55
E contro gli Accademici non afferma: "So di non essere pazzo", ma: "So di vivere".
Non si può dunque sbagliare, né può mentire colui che dice che sa di vivere.
Si possono dunque opporre innumerevoli esempi di errori dei sensi a colui che afferma: "So di vivere", non ne temerà alcuno, perché colui stesso che si inganna, vive.
Ma se la scienza umana si limita a queste conoscenze, sarebbero ben poche, a meno che non si moltiplichino in ogni direzione, in modo tale che non soltanto divengano più numerose, ma si estendano all'infinito.
Infatti colui che afferma: "So di vivere", afferma di sapere una cosa;56 ma se dice: "So che so di vivere" sa già due cose; il fatto poi che egli sa queste due cose, significa che ne conosce una terza; procedendo così ne può aggiungere una quarta, una quinta, e innumerevoli, se ne è capace.
Ma, poiché non può con un'addizione sempre rinnovata di singole unità, né comprendere un numero innumerevole né esprimerlo con una ripetizione indefinita, comprende almeno e dice con assoluta certezza che questa affermazione è vera e che può ripeterla un numero così grande di volte che veramente il numero infinito di essa non si può comprendere, né esprimere.
Altrettanto si può affermare quando si tratta delle certezze proprie della volontà.
Non sarebbe prenderlo in giro rispondere: "Ti inganni" a qualcuno che dicesse: "Voglio essere felice"?
E se egli dice: "So che voglio questo e so di saper questo", può aggiungere una terza certezza alle due prime, cioè che egli sa queste due verità e poi una quarta: che sa di sapere queste due verità e così continuare all'infinito.
Così se qualcuno dice: "Non voglio sbagliare", non sarà forse vero che, sia che sbagli, sia che non sbagli, in ogni caso è vero che non vuole sbagliare?
Chi avrà l'impudenza di dirgli: "Forse ti inganni"? perché è fuori dubbio che, sebbene si inganni su tutte le altre cose, non si inganna su questa: che non vuole ingannarsi.
E se dice che sa questa verità, aumenta il numero delle sue conoscenze, quanto vuole, sino ad ottenere un numero infinito.
Infatti colui che dice: "Non voglio ingannarmi e so che non lo voglio e so di sapere questo" può già, sebbene sia difficile esprimerlo, mostrare che vi è là la fonte di un numero infinito.
Esistono altri esempi che hanno grande forza contro gli Accademici, che pretendono che l'uomo non possa sapere nulla.
Ma bisogna usare moderazione, tanto più che questo non costituisce l'oggetto dell'indagine del presente lavoro.
Abbiamo scritto tre libri su questo argomento subito dopo la nostra conversazione.
Chi potrà e vorrà leggerli e, avendoli letti, li avrà compresi, non si lascerà scuotere certamente da alcuno dei numerosi argomenti che essi hanno escogitato contro la possibilità di attingere la verità.
Ci sono infatti due specie di conoscenze: quelle che l'anima percepisce per mezzo dei sensi del corpo e quelle che essa percepisce da sé: quei filosofi hanno detto molte chiacchiere contro il valore della conoscenza dei sensi, ma alcune conoscenze di cose vere che l'anima percepisce da sé con la più grande certezza ( come è quella per cui afferma: "So di vivere" e di cui ho parlato ) non hanno potuto in alcun modo revocarle in dubbio.
Ma sia lungi da noi il dubitare della verità delle cose che si attingono per mezzo dei sensi del corpo; è per mezzo di essi che abbiamo conosciuto il cielo e la terra e quelle cose che essi contengono e che ci sono note nella misura in cui il nostro ed il loro Creatore ha voluto farcele conoscere.
Sia pure lungi da noi il negare la scienza che abbiamo appreso per testimonianza degli altri, altrimenti noi non sappiamo che c'è un Oceano, non sappiamo che ci sono dei territori e delle città che la loro rinomanza ha reso molto celebri, non sappiamo che sono esistiti degli uomini e le loro opere che la lettura degli storici ci fa conoscere; non sappiamo le notizie che ogni giorno ci pervengono da tutte le parti e sono confermate da prove concordanti e costanti; infine non sappiamo dove e da chi siamo nati, perché noi accettiamo tutte queste conoscenze basandoci sulle testimonianze degli altri.
Se è dunque il colmo dell'assurdità affermare questo, dobbiamo confessare che non solo i nostri sensi corporei, ma anche quelli degli altri hanno arricchito il nostro sapere di numerose conoscenze.
Dunque tutte queste conoscenze che l'anima umana acquisisce da sé, e per mezzo dei sensi del corpo e per testimonianza degli altri, le tiene riposte nel tesoro della sua memoria; sono esse che generano un verbo vero, quando diciamo ciò che sappiamo, verbo che precede ogni parola che risuona e ogni pensiero della parola che risuona.
Allora infatti il verbo è perfettamente simile alla cosa conosciuta da cui nasce e di cui è immagine, perché dalla visione della scienza procede la visione del pensiero, che è un verbo non appartenente a nessuna lingua, verbo vero da una cosa vera, che non possiede niente di proprio ma riceve tutto da quella scienza da cui ha origine.
Poco importa il momento in cui colui che dice ciò che sa lo ha appreso; a volte, appena lo apprende, lo dice; l'importante è che il verbo sia vero, cioè che abbia tratto la sua origine da cose conosciute.
13. Ma sarà forse che Dio Padre, dal quale è nato il Verbo, Dio da Dio; forse che dunque Dio Padre, in quella sapienza che è lui stesso per se stesso, ha acquisito alcune conoscenze per mezzo dei sensi del suo corpo, altre da sé?
Chi potrebbe dir questo, se pensa Dio non come un animale ragionevole, ma come superiore all'anima razionale,57 per quanto almeno Dio può essere pensato dagli uomini che lo pongono al di sopra di tutti gli animali e di tutte le anime, benché lo vedano solo attraverso uno specchio e in enigma, ( 1 Cor 13,12 ) per congettura, non ancora a faccia a faccia, come egli è? ( 1 Gv 3,2 )
Forse che Dio Padre queste stesse verità che conosce non per mezzo del corpo, che egli non ha, ma per mezzo di sé, le ha apprese da altri o ha avuto bisogno di messaggeri o di testimoni per conoscerle?
No certamente, per sapere tutto ciò che sa, quella perfezione basta a se stessa.
Dio ha, è vero, i suoi messaggeri: gli Angeli, ma non tuttavia per annunciargli ciò che non sa, perché non c'è nulla che egli non sappia, ma è per il loro bene che essi prendono consiglio dalla verità di lui nel loro agire; quando si dice che annunciano a Dio certe cose, non è che egli le apprenda da loro, ma sono loro che le apprendono da lui per mezzo del suo Verbo, senza suono corporeo.
Annunciano infatti ciò che Dio vuole, inviati da lui a coloro a cui egli vuole, tutto udendo da lui per mezzo del suo Verbo, cioè trovando nella verità di lui ciò che debbono fare; che cosa, a chi, quando debbono annunciare.
Infatti anche noi lo preghiamo e tuttavia non gli insegniamo quali siano le nostre necessità.
Il Padre vostro, ci dice il suo Verbo, sa che cosa vi sia necessario, prima che voi glielo abbiate chiesto. ( Mt 6,8 )
E queste cose non le sa per averle apprese in questo o in quel momento, ma tutti gli avvenimenti futuri e, fra questi avvenimenti, l'oggetto e il momento delle nostre preghiere, l'opportunità di esaudire o no questa o quell'altra preghiera di questo o di quest'altro uomo li ha previsti in anticipo, dall'eternità.
Tutte le sue creature, spirituali e corporee, non le conosce perché esistono, ma esistono perché le conosce.
Infatti non poteva non conoscere le cose che un giorno avrebbe creato.
Dunque è perché le ha conosciute che le ha create, e non è perché le ha create che le ha conosciute.
E dopo averle create non le ha conosciute diversamente da come le conosceva prima di crearle: questi esseri nulla infatti hanno aggiunto alla sua sapienza, ma sono venuti all'esistenza come e quando era opportuno, restando immutata la sua sapienza.
Così è scritto nell'Ecclesiastico: Prima che fossero create, tutte le cose erano da lui conosciute; lo sono ancora allo stesso modo dopo il loro compimento. ( Sir 23,20 )
Alla stessa maniera è detto, non diversamente, sia prima che fossero create, sia dopo il loro compimento, Dio conosce le cose.
Assai differente è perciò dalla scienza divina la nostra scienza.
In Dio la scienza è identica alla sapienza e la sapienza è identica all'essenza o sostanza.
Perché nella mirabile semplicità di quella natura non sono cose diverse essere sapiente ed essere; ma è la stessa cosa essere sapiente ed essere, come lo abbiamo spesso ripetuto nei libri precedenti.58
Invece la nostra scienza in molti campi può essere perduta, ed essere recuperata perché in noi non è la stessa cosa essere, sapere o essere sapiente ( sapere ), perché noi possiamo essere anche se non sappiamo né gustiamo ( sapiamus ) ciò che abbiamo appreso da altra fonte.
Per questo come la nostra scienza è differente dalla scienza di Dio, così il nostro verbo che nasce dalla nostra scienza è differente da quel Verbo divino che è nato dall'essenza del Padre, che è come se dicessi: "dalla scienza del Padre, dalla sapienza del Padre"; o, in maniera più precisa, "dal Padre che è scienza, dal Padre che è sapienza".
Il Verbo di Dio Padre è dunque il suo Figlio unigenito, in tutto simile e uguale al Padre, Dio da Dio, luce da luce, sapienza da sapienza, essenza da essenza; egli è assolutamente ciò che è il Padre, ma non è il Padre, perché questo è Figlio, quello Padre.
Per questo conosce tutto ciò che conosce il Padre, ma per lui il conoscere viene dal Padre, come l'essere.
Infatti in Dio conoscere ed essere sono una sola cosa.
E dunque come il conoscere non viene al Padre dal Figlio, così nemmeno gli proviene l'essere.
Pertanto è come "dicendo" se stesso che il Padre ha generato il Verbo, in tutto uguale a sé.
Egli infatti non "avrebbe detto" interamente e perfettamente se stesso, se ci fosse nel suo Verbo qualcosa di meno o di più di ciò che c'è in lui.
È qui che si verifica in modo supremo il sì, sì; no, no. ( Mt 5,37; Gc 5,12 )
E dunque questo Verbo è veramente la verità, perché tutto ciò che c'è in quella scienza dalla quale è stato generato, c'è anche in lui e ciò che non c'è in essa non c'è nemmeno in lui.
Ed in questo Verbo non vi può mai essere nulla di falso, perché è immutabilmente ciò che è colui che lo genera.
Infatti: Il Figlio non può far nulla da sé, se non ciò che ha veduto fare dal Padre. ( Gv 5,19 )
È segno di potenza, il non poter far questo; né è infermità ma fermezza questa, perché la verità non può essere falsa.
Dunque il Padre conosce tutto in se stesso, tutto nel Figlio; in se stesso come se stesso, nel suo Figlio come il suo Verbo, che procede da tutto ciò che è lui.
Anche il Figlio conosce tutto alla stessa maniera, in se stesso, come ciò che è nato da quanto il Padre conosce in se stesso; nel Padre invece come ciò da cui è nato quello che il Figlio stesso conosce in sé.
Il Padre e il Figlio hanno dunque una conoscenza reciproca, ma il primo generando, il secondo nascendo.
E tutto ciò che è nella loro scienza, sapienza ed essenza, ciascuno di loro lo vede simultaneamente, non separatamente o isolatamente, come se con il suo sguardo passasse alternativamente da un oggetto all'altro ritornando dal secondo al primo, e poi di nuovo lasciasse questo o quell'altro per fissarsi su questo o su quello, come se non potesse vedere una cosa che cessando di vederne un'altra; ma, come ho detto, vede insieme tutte le cose e non ce n'è alcuna che non sia sempre vista da ciascuno di essi.
Per quanto concerne il nostro verbo, quel verbo che non comporta suono né pensiero di un suono, ma è espressione di quella realtà che, vedendola, diciamo interiormente e perciò non appartiene ad alcuna lingua e di conseguenza in questo enigma ha una certa somiglianza con quel Verbo di Dio, Dio egli pure, perché anch'esso nasce dalla nostra scienza, come quello divino è nato dalla scienza del Padre.
Per quanto concerne questo nostro verbo, dunque, se vi abbiamo riscontrato una qualche somiglianza con quello divino, non esitiamo affatto a considerare anche fino a che punto ne è dissimile, nella misura in cui ci sarà possibile dirlo.
15. Il nostro verbo nasce forse dalla nostra scienza sola?
Non diciamo anche molte cose che non sappiamo?
E quando diciamo tali cose non dubitiamo a loro riguardo, ma le diciamo ritenendo che siano vere.
Supponiamo che per caso esse siano vere, esse sono vere nelle cose stesse di cui parliamo, ma non lo sono nel nostro verbo, poiché è vero solo quel verbo che è generato da ciò che si sa.
Il nostro verbo è perciò falso, in questo caso, non perché vi sia menzogna, ma perché vi è errore.
Quando invece dubitiamo, non vi è ancora un verbo concernente la realtà di cui dubitiamo, ma c'è un verbo concernente il dubbio stesso.
Infatti, sebbene non sappiamo se sia vero ciò di cui dubitiamo, tuttavia noi sappiamo di dubitare e dunque quando diciamo di dubitare, c'è un verbo vero, perché diciamo ciò che conosciamo.
Ora, che pensare del fatto che possiamo anche mentire?
Quando mentiamo, è volontariamente e scientemente che abbiamo un verbo falso: in questo caso c'è un verbo vero e concerne il fatto che noi mentiamo perché sappiamo di mentire.
E quando confessiamo di aver mentito, diciamo il vero; diciamo infatti ciò che sappiamo,59 perché sappiamo di aver mentito.
Ora il Verbo che è Dio, ed è più potente di noi, non può mentire.
Perché egli non può fare nulla, se non ciò che ha visto fare dal Padre. ( Gv 5,19 )
Egli non parla da se stesso, ma tutto ciò che dice gli viene dal Padre, perché il Padre dice unicamente il suo Verbo, ( Gv 7,17; Gv 8,26.28.38; Gv 12,49-50; Gv 14,10 ) ed è un grande potere di questo Verbo il non poter mentire; perché in lui non vi può essere sì e no, ma soltanto sì, sì; no, no. ( Mt 5,37; Gc 5,12; 2 Cor 1,18-19 )
Certo non si dovrebbe nemmeno dire verbo, quello che non è vero.
Che debba essere così ne convengo volentieri.
Ma quando il nostro verbo è vero e merita dunque il nome di verbo, si può dire forse, come si può dire che è visione da visione, scienza da scienza, che è essenza da essenza, come lo si dice per eccellenza e come lo si deve dire per eccellenza del Verbo di Dio? ( 1 Ts 2,13 )
No, senza dubbio. Perché questo?
Perché per noi essere non è la stessa cosa che conoscere.
Infatti conosciamo molte cose che vivono, per dir così, per opera della memoria, muoiono per così dire, a causa dell'oblio; anche quando esse non esistono più nella nostra conoscenza, noi tuttavia continuiamo ad esistere; e quando la nostra scienza abbia abbandonato la nostra anima fino a scomparire completamente da noi, tuttavia noi continuiamo a vivere.
15.25 Anche le cose che si conoscono in tal modo, che non è possibile dimenticarle, perché ci sono sempre presenti e sono inseparabili dalla natura dell'anima stessa, per esempio il fatto di sapere che viviamo ( è questa una conoscenza che resta fino a quando resta l'anima, e, poiché l'anima resta sempre, anch'essa sempre resta ); questa conoscenza dunque ed altre simili, se se ne trovano, nelle quali principalmente si ha da riconoscere l'immagine di Dio, sebbene siano sempre conosciute, tuttavia, poiché non sono anche sempre pensate, è difficile vedere come si dica a loro riguardo un verbo eterno, dato che il nostro verbo è detto dal nostro pensiero.
Infatti, per l'anima, vivere è una cosa che dura sempre, ed è una cosa che dura sempre il sapere che vive; ma il pensare la sua vita, o il pensare alla conoscenza della sua vita non sono cose che durano sempre, perché dal momento in cui comincerà a pensare a questa o a quest'altra cosa, smetterà di pensare che vive, sebbene non cessi di saperlo.
Da ciò consegue che, se l'anima può avere in sé una scienza che dura sempre, e non può durare sempre il pensiero di questa scienza, e d'altra parte il nostro verbo interiore vero non può essere detto che dal nostro pensiero, si deve concludere che Dio solo ha un Verbo che dura sempre e gli è coeterno.
A meno che non si debba dire che la possibilità stessa di pensare ( perché ciò che si sa, anche quando non viene pensato, è tuttavia suscettibile di venir esplicato in un pensiero che lo riproduce fedelmente ) è un verbo che dura sempre come sempre dura la scienza.
Ma come può essere verbo, quello che non ha ancora preso forma nella visione del pensiero?
Come sarà simile alla scienza dalla quale nasce, se non ne riproduce la forma e se merita già questo nome di verbo solo perché lo si può riprodurre?
È come se si dicesse che bisogna già chiamarlo verbo, perché può essere verbo.
Ma che cos'è questa cosa che può essere verbo e per questo già merita il nome di verbo?
Che è, dico, questo qualcosa di formabile e di non ancora formato, se non un qualcosa del nostro spirito che con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là, quando pensiamo ora questo ora quello a seconda che lo scopriamo o ci si presenta spontaneamente?
C'è un verbo vero, quando ciò che, come ho già detto, con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là si fissa su ciò che sappiamo, ne trae la sua forma, prendendone la piena rassomiglianza; cosicché quale una cosa si conosce tale anche si pensi, cioè tale sia detta nel cuore, senza pronunciare parola, senza che si pensi a una parola che senza dubbio appartiene a qualche lingua.
Di conseguenza, anche se concludiamo - per non dare l'impressione di fare una questione di parola - che si debba già chiamare verbo quel qualcosa del nostro spirito che può ricevere forma dalla nostra scienza, e ciò, anche prima che abbia preso forma, perché è già, per dir così, formabile, chi non vedrà quanto grande è qui la dissomiglianza con quel Verbo di Dio, che è nella forma di Dio, ( Fil 2,6 ) in tal maniera che non è stato prima formabile e poi formato, né può mai essere informe, ma è forma pura e veramente uguale a Colui dal quale ha origine ed al quale essa è mirabilmente coeterna?
16. Perciò così quello si dice Verbo di Dio, senza che si possa dire pensiero di Dio, affinché non si creda alla presenza in Dio di qualcosa che cambi, e che ora si dia una forma per essere verbo, ora la riceva, la possa perdere e possa in qualche modo passare da una forma all'altra.
Aveva infatti buona conoscenza delle parole ed intuito della forza del pensiero quell'egregio scrittore che dice nel suo poema: rivolge nel suo spirito le varie vicende della guerra,60 ossia "pensa".
Il Figlio di Dio non si chiama dunque pensiero di Dio, ma Verbo di Dio.
Poiché il nostro pensiero costituisce il nostro verbo vero, quando termina a ciò che noi conosciamo e da esso prende forma.
Perciò il Verbo di Dio deve intendersi senza che vi sia pensiero da parte di Dio, così da essere una forma semplice in se stessa, né informe, né formabile.
È vero che anche nelle Scritture sante si parla di pensieri di Dio, ( Mi 4,12 ) ma nello stesso senso assolutamente improprio in cui in esse si parla pure di dimenticanza di Dio.
Se dunque la disuguaglianza da Dio e dal Verbo di Dio è tanta adesso in questo enigma, nel quale tuttavia abbiamo riscontrato qualche somiglianza, dobbiamo dichiarare che anche quando saremo somiglianti a lui e lo vedremo come è ( 1 Gv 3,2 ) ( colui che lo ha scritto ha senza dubbio avvertito la disuguaglianza attuale ) nemmeno allora saremo uguali a lui per natura.
Infatti la natura creata è sempre inferiore alla natura creatrice.61
È vero che allora il nostro verbo non sarà falso, perché non mentiremo né ci inganneremo, forse anche i nostri pensieri non saranno più caratterizzati da quel movimento che li fa andare e ritornare da una cosa all'altra, ( Ez 1,15; Ez 2,1; Ez 10,13 ) ma attingeremo tutta la nostra scienza con un solo sguardo, contemporaneamente.
Tuttavia, anche allorquando sarà, e se pure sarà così, sarà formata la creatura prima formabile, così da possedere la pienezza della forma che doveva raggiungere; essa tuttavia non si dovrà mettere alla pari di quella semplicità divina, dove esiste la forma pura senza nulla di formabile che viene formato o riformato; dove esiste una sostanza per se stessa eterna ed immutabile, né informe né formata.
Abbiamo parlato sufficientemente del Padre e del Figlio, nella misura in cui abbiamo potuto vederli attraverso questo specchio e in questo enigma. ( 1 Cor 13,12 )
Ora è tempo di trattare dello Spirito Santo, nella misura in cui Dio ci concederà di vederlo.
Questo Spirito Santo, secondo la Sacra Scrittura, non è lo Spirito soltanto del Padre, né soltanto del Figlio, ma di ambedue, ( Mt 10,20; Gal 4,6 ) e perciò fa pensare alla carità comune con la quale si amano vicendevolmente il Padre e il Figlio.
Ma la parola di Dio per esercitarci non ci fornisce delle verità esplicite, ma nascoste, che noi dobbiamo tirare fuori dal loro nascondiglio con un più grande studio.
La Sacra Scrittura infatti non dice: "lo Spirito Santo è carità"; se lo avesse detto, la questione ne sarebbe stata molto chiarita.
Ma essa dice: Dio è carità, ( 1 Gv 4,8.16 ) cosicché non è chiaro - e dunque bisogna indagare - se è Dio Padre che è carità, o Dio Figlio, o Dio Spirito Santo, o Dio Trinità.
Non diremo infatti che, se Dio è detto carità, non è perché la carità stessa sia una sostanza che meriti il nome di Dio, ma perché è un dono di Dio, nel senso, per esempio, che il Salmista dice a Dio: Perché tu sei la mia pazienza. ( Sal 71,5 )
Queste parole infatti non significano assolutamente che la nostra pazienza è sostanza Dio, ma che la pazienza ci viene da Dio, come lo mostra questo altro testo: Perché la mia pazienza mi viene da lui. ( Sal 62,6 )
Che non si tratti della sostanza divina, lo mostra chiaramente il modo di esprimersi delle Scritture.
L'espressione: Tu sei la mia pazienza ha la stessa forma dell'espressione: Signore, mia speranza, ( Sal 91,9 ) e: Mio Dio, mia misericordia, ( Sal 59,18 ) e così molti altri passi simili.
Ma non è detto: "Signore, mia carità", o: "Tu sei la mia carità", o: "Dio, mia carità", ma è detto: Dio è carità, ( 1 Gv 4,8.16 ) come è detto: Dio è spirito. ( Gv 4,24 )
Chi non comprende questa distinzione, domandi a Dio l'intelligenza, non a noi la spiegazione, perché non possiamo dire nulla di più chiaro.
17.28 Dio è dunque carità. ( 1 Gv 4,8.16 )
Ma se sia il Padre ad essere carità, se sia il Figlio, se sia lo Spirito Santo, se sia la Trinità stessa - perché la Trinità, anch'essa, non è tre dèi, ma un Dio solo -, ecco ciò che costituisce il problema.
Ma già in precedenza in questo libro62 ho chiarito che la Trinità che è Dio non va concepita alla luce dei tre elementi che abbiamo mostrato nella trinità del nostro spirito, come se nella Trinità il Padre fosse la memoria di tutte e tre le Persone, il Figlio l'intelligenza di tutte e tre, e lo Spirito Santo la carità di tutte e tre, quasi che il Padre non abbia per suo conto né intelligenza né amore, ma il Figlio gli sia intelligenza e lo Spirito Santo gli sia amore, ed egli sia, e per sé e per gli altri, memoria soltanto; quasi che il Figlio non sia per sé né memoria né amore, ma abbia per memoria il Padre e per amore lo Spirito Santo, ed egli sia per sé e per gli altri intelligenza soltanto; ugualmente quasi che lo Spirito Santo non abbia in se stesso né memoria né intelligenza, ma la memoria nel Padre, l'intelligenza nel Figlio, ed egli sia, per sé e per loro, amore soltanto.
Al contrario tutte e tre le cose sono possesso naturale di tutte e tre le Persone e di ciascuna Persona.
Né queste perfezioni sono diverse nelle Persone divine, come in noi si differenziano tra loro la memoria, l'intelligenza, la dilezione o carità.
Sono invece una cosa sola che le vale tutte, come la stessa sapienza.
E ciascuna Persona ne è talmente in possesso naturale da essere ciò che possiede, come sostanza immutabile e semplice.
Se dunque si sono comprese queste cose e se, per quanto misteri così grandi ci permettono di vedere o di congetturare, si sono manifestate come vere, non so perché non si possa chiamare carità sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme un'unica carità; così come si chiama sapienza sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme non tre, ma una sola sapienza.
Allo stesso modo infatti il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio, e tutti insieme un solo Dio.
E tuttavia non è senza motivo che in questa Trinità si chiama Verbo di Dio solo il Figlio, Dono di Dio lo Spirito Santo solo, ( Sir 1,5; Gv 1,1-14; Gv 4,10; Ap 19,13; At 8,20 ) e Dio Padre quello solo da cui è generato il Verbo e da cui procede primariamente lo Spirito Santo. ( Gv 5,18; Gv 6,27 )
Ho aggiunto "primariamente" perché si legge che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio.63
Ma anche questo glielo ha dato il Padre, non dopo che già esisteva senza esserne in possesso, perché quanto ha dato al Verbo unigenito glielo ha dato generandolo.
Egli lo ha dunque generato, in modo che il loro Dono comune procedesse anche dal Figlio e che lo Spirito Santo fosse lo spirito di ambedue.
Non basta dunque rilevare di passaggio, ma occorre considerare con attenzione questa distinzione nella inseparabile Trinità.
È in virtù di essa infatti che il Verbo di Dio è chiamato anche propriamente Sapienza di Dio, ( Sir 1,5; Gv 1,1-14; Ap 19,13 ) sebbene siano sapienza anche il Padre e lo Spirito Santo.
Se dunque si deve chiamare propriamente Carità una delle tre Persone, a quale questo nome si adatterà meglio che allo Spirito Santo?
Però sempre a condizione che in quella semplice e suprema natura non siano due cose distinte la sostanza e la carità, ma la sostanza stessa si identifichi con la carità e la carità stessa con la sostanza sia del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, e tuttavia sia lo Spirito ad essere chiamato propriamente Carità.
Indice |
47 | Quintiliano, Instit. 7, 3, 15; Cicerone, Acad. 2, 7, 21; Agostino, De ordine 2, 11, 31 |
48 | Sopra 14,17,23 |
49 | Cicerone, Acad. 2, 6, 18; Agostino, C. Acad. 2, 5, 11: NBA, III/1 |
50 | Agostino, De civ. Dei 11,26 |
51 | Cicerone, Acad. 2, 7, 19; 25, 79; Agostino, C. Acad. 3, 11, 26: NBA, III/1; De vera relig. 29, 53: NBA, VI/1 |
52 | Agostino, C. Acad. 3, 11, 26: NBA, III/1 |
53 | Agostino, C. Acad. 3, 12, 27: NBA, III/1 |
54 | Cicerone, Acad. 2, 17, 52 - 27, 88 |
55 | Cicerone, Acad. 2, 16, 49 - 17, 53; Agostino, C. Acad. 3, 11 - 12, 28: NBA, III/1 |
56 | Agostino, De b. vita 2, 7 |
57 | Quintiliano, Instit. 7, 3, 15; Cicerone, Acad. 2, 7, 21; Agostino, De ordine 2, 11, 31; |
58 | Sopra 7,1,1 |
59 | Cicerone, Acad. 2, 29, 95 - 30, 96; Aulo Gellio, Noct. att. 18, 2, 10 |
60 | Virgilio, Aen. 10, 159-160 |
61 | Porfirio, Sent. 13; Agostino, De vera relig. 18, 35; De imm. an. 8, 14: NBA, III/1 |
62 | Sopra 15,7,11-13 |
63 | Sopra 4,20,27-29; Sopra 5,14,15; Sopra 15,26,45ss |