La Trinità

Indice

Libro XV

6.10 - Le analogie trinitarie nell'uomo

Se infatti cerchiamo di ricordarci in quale momento, nel corso di questi libri, la nostra intelligenza ha cominciato ad intravedere la Trinità, troviamo che fu nel libro ottavo.

In questo libro infatti, per quanto lo abbiamo potuto, abbiamo tentato con le nostre analisi di innalzare l'attenzione dello spirito fino all'intelligenza di quella suprema e immutabile natura che il nostro spirito non è.

Tuttavia noi la contemplavamo non lontana da noi e al di sopra di noi, non spazialmente, ma per la sua adorabile e meravigliosa trascendenza, in modo che sembrava stare presso di noi per la pienezza della sua luce.

In essa tuttavia non ci appariva ancora la Trinità, perché non tenevamo fermo lo sguardo dello spirito su quello splendore per cercarla; tutt'al più perché ciò che appariva non era una massa materiale, che ci obbligasse a vedere che la grandezza di due o tre era maggiore di quella di uno, cominciavamo ad intravedere quel mistero.

Ma quando si giunse alla carità, che è stata chiamata Dio nelle Sacre Scritture, ( 1 Gv 4,8-16 ) il mistero si chiarì un poco con la trinità dell'amante, dell'amato e dell'amore .29

Ma, poiché quella luce ineffabile abbagliava il nostro sguardo e poiché avvertivamo che la debolezza del nostro spirito non poteva ancora raggiungerla, inserendo una digressione tra ciò che avevamo iniziato a dire e ciò che avevamo deciso di dire, ci siamo rivolti al nostro spirito, secondo il quale l'uomo è stato fatto ad immagine di Dio, ( Gen 1,27; Gen 5,1; Gen 9,6 ) trovandovi un oggetto di studio più a noi familiare, per riposare la nostra attenzione affaticata, e così ci siamo soffermati dal libro IX al libro XII sulla creatura che siamo noi per poter, attraverso le cose create, vedere con l'intelligenza le perfezioni invisibili di Dio. ( Sap 13,5; Rm 1,20 )

Ed ecco che ora, dopo aver esercitato la nostra intelligenza nelle cose inferiori, quanto era necessario o forse più di quanto fosse necessario, vogliamo elevarci alla contemplazione di quella suprema Trinità che è Dio e non ne siamo capaci.

Forse come vediamo delle trinità assai certe, quelle che hanno origine, venendo dal di fuori, dalle cose corporee, quelle che hanno origine quando vengono pensati gli oggetti percepiti esteriormente; o quando quelle cose che hanno origine nell'anima e non appartengono ai sensi del corpo, come la fede, come le virtù, che regolano la vita, sono conosciute dalla ragione con chiarezza e costituiscono oggetto della scienza; o quando lo spirito con cui conosciamo tutto ciò che a questo titolo diciamo di conoscere, conosce se stesso o si pensa; o quando discerne qualcosa di eterno e immutabile che non è esso stesso; forse che dunque come in tutti questi casi vediamo delle trinità assai certe, perché si producono in noi o sono in noi quando ricordiamo, vediamo, vogliamo tali cose, allo stesso modo vediamo anche il Dio Trinità, perché anche là vediamo con l'intelligenza uno che "dice" e il suo verbo, cioè il Padre e il Figlio, e, procedente dall'uno e dall'altro, la carità che è loro comune, cioè lo Spirito Santo?

O non si deve invece dire che queste trinità che appartengono ai nostri sensi o alla nostra anima le vediamo più che crederle, mentre invece crediamo più che vedere che Dio è Trinità?

Se è così, certamente o non vediamo, in quanto non la comprendiamo, alcuna delle perfezioni invisibili di Dio per mezzo delle cose create, ( Rm 1,20 ) o, se ne vediamo alcune, non vediamo in esse la Trinità, ed è là ciò che dobbiamo vedere, è ciò che, anche se non vediamo, dobbiamo credere.

Ma che noi vediamo il bene immutabile, sebbene noi non siamo questo bene, lo mostra il libro ottavo,30 e l'abbiamo ricordato nel libro quattordicesimo, parlando della sapienza che l'uomo riceve da Dio.31

Perché dunque non vi riconosciamo la Trinità?

Forse che questa sapienza, che è chiamata Dio, non comprende se stessa, non ama se stessa?

Chi oserà dirlo? Chi non vede che là dove non c'è nessuna scienza non potrebbe in alcun modo esservi sapienza?

O si dovrà ritenere forse che la sapienza, che è Dio, conosce le altre cose e non conosce se stessa o ama le altre cose e non ama se stessa?

Sia affermare sia credere tali cose è stolto ed empio.

Ecco allora che c'è qui la Trinità, cioè la sapienza, la conoscenza che essa ha di sé, l'amore che essa ha di sé.

Allo stesso modo infatti anche nell'uomo abbiamo trovato una trinità, costituita dallo spirito, dalla conoscenza con cui esso si conosce, dall'amore con cui si ama.32

7.11 - L'analogia tra le trinità create e Dio è molto imperfetta

Ma questi tre elementi sono nell'uomo, non sono l'uomo.

L'uomo è infatti, secondo la definizione degli antichi, un animale ragionevole, mortale.33

Quelle realtà sono dunque ciò che c'è di migliore nell'uomo,34 ma esse non sono l'uomo.

Ed una persona da sola, cioè ciascun uomo considerato singolarmente, ha quei tre elementi nello spirito o lo spirito.

Se diamo dell'uomo quest'altra definizione: "l'uomo è una sostanza razionale che consta di anima e di corpo"35 è fuori dubbio che l'uomo possiede un'anima che non è il corpo, possiede un corpo che non è l'anima.

Di conseguenza quei tre elementi non sono l'uomo, appartengono all'uomo o sono nell'uomo.

Supponendo anche che noi facciamo astrazione dal corpo e consideriamo solo l'anima, lo spirito è una parte di essa, ne è come il capo, l'occhio, il viso.

Ma queste cose non si devono pensare come se fossero corporee.

Non dunque l'anima, ma la parte migliore dell'anima è chiamata spirito.36

Ma possiamo forse dire che la Trinità si trova in Dio in modo da essere un qualcosa di Dio senza essere essa stessa Dio?

Perciò ogni singolo uomo, chiamato immagine di Dio non secondo tutta l'ampiezza della sua natura, ma soltanto in quanto è spirito, è una sola persona, e l'immagine della Trinità è nello spirito.

Invece quella Trinità di cui è immagine non è, tutta intera, nient'altro che Dio; tutta intera, nient'altro che Trinità.

E nulla appartiene alla natura divina che non appartenga a quella Trinità: le tre Persone sono una sola essenza,37 non come ogni singolo uomo che è una sola persona.

7.12 Ma vi è un'altra differenza importante: se nell'uomo consideriamo lo spirito e la conoscenza e l'amore che ha di sé o la memoria, l'intelligenza, la volontà,38 non c'è alcuna parte dello spirito di cui ci ricordiamo se non per mezzo della memoria, nessuna parte che comprendiamo se non per mezzo dell'intelligenza, nessuna parte che amiamo se non per mezzo della volontà.39

Ma in quella Trinità chi oserà dire che il Padre non comprende se stesso, il Figlio e lo Spirito Santo se non per mezzo del Figlio, che non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo e da sé ricorda soltanto se stesso o il Figlio o lo Spirito Santo; che il Figlio a sua volta non ricorda se stesso e il Padre se non per mezzo del Padre e non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo; che parimenti anche lo Spirito Santo per mezzo del Padre ricorda il Padre, il Figlio e se stesso, e per mezzo del Figlio comprende il Padre e il Figlio e se stesso, mentre, da sé, soltanto ama se stesso, il Padre e il Figlio; come se il Padre fosse la memoria sua, del Figlio e dello Spirito Santo, il Figlio, l'intelligenza sua, del Padre e dello Spirito Santo, lo Spirito Santo l'amore suo, del Padre e del Figlio?

Chi avrebbe l'audacia di opinare e affermare tali cose circa la Trinità?

Se ivi infatti è il Figlio solo a comprendere, per se stesso, per il Padre e per lo Spirito Santo, si ricade in quell'opinione assurda che la sapienza del Padre non gli proviene da lui stesso ma dal Figlio e che la sapienza non ha generato la sapienza, ma il Padre è detto essere sapiente per la sapienza che ha generato.

Dove infatti non c'è intelligenza, non vi può nemmeno essere sapienza; di conseguenza se il Padre non comprende egli stesso per se stesso, ma è il Figlio che comprende per il Padre, non vi è dubbio che è il Figlio che fa sapiente il Padre.

E se in Dio essere è la stessa cosa che essere sapiente, e se in lui l'essenza è identica alla sapienza, non è più il Figlio che riceve dal Padre l'essenza - come è vero - ma il Padre invece la riceve dal Figlio, ciò che è il colmo dell'assurdità e dell'errore.

Tale assurdità abbiamo discusso, condannato, respinto nella maniera più formale nel libro settimo.40

Il Padre è dunque sapiente per la sua propria sapienza, che egli stesso è, e il Figlio è la sapienza del Padre che procede dalla sapienza che è il Padre, dal quale il Figlio è stato generato.

Di conseguenza il Padre anche comprende per la sua propria intelligenza che egli stesso è; chi infatti non avesse l'intelligenza non potrebbe avere la sapienza; il Figlio invece è l'intelligenza del Padre, generato dall'intelligenza che è il Padre.

Lo stesso si può affermare senza inconveniente della memoria.

Come può essere infatti sapiente colui che nulla ricorda o non si ricorda di sé?

Dunque in quanto è sapienza il Padre, sapienza il Figlio, ( Sir 1,3.4; 1 Cor 1,21.24.30 ) allo stesso modo che si ricorda per sé il Padre, così si ricorda per sé il Figlio; e come il Padre si ricorda di sé e del Figlio non con la memoria del Figlio, ma con la sua, così il Figlio si ricorda di sé e del Padre non con la memoria del Padre, ma con la propria.

Infine chi potrebbe dire che vi è sapienza dove non vi è in alcun modo dilezione?

Da ciò si conclude che il Padre è il suo proprio amore, come è la sua intelligenza e la sua memoria.

Ecco dunque che quelle tre perfezioni: la memoria, l'intelligenza, la dilezione o volontà, in quella suprema ed immutabile essenza che è Dio, non sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma il Padre solo.

E poiché anche il Figlio è sapienza generata ( Sir 1,4.9; Sir 24,5.14 ) dalla sapienza, come non è il Padre che comprende per lui, non è nemmeno lo Spirito Santo che comprende per lui, ma egli stesso per se stesso; così pure non è il Padre che ricorda per lui, né lo Spirito Santo che ama per lui, ma lui per se stesso; egli infatti è la sua propria memoria, la sua intelligenza, il suo amore, ma che egli sia tale gli proviene dal Padre, da cui è nato.

Anche lo Spirito Santo, poiché è sapienza che procede dalla sapienza, ( Gv 15,26 ) non ha il Padre come memoria, il Figlio come intelligenza e se stesso come amore; infatti non sarebbe nemmeno sapienza, se qualche altro ricordasse per lui e un altro comprendesse per lui ed egli stesso soltanto amasse per se stesso, ma anch'egli ha queste tre perfezioni e le possiede in tal modo, che è egli stesso tali perfezioni.

Tuttavia che egli sia tale gli proviene dalla fonte da cui procede.

7.13. Quale uomo dunque può comprendere questa sapienza con la quale Dio conosce tutte le cose in modo che quelle che si dicono passate in lui non passino, né quelle che si dicono future si attende che si realizzino come se fossero ancora assenti, ma quelle passate e quelle future siano tutte presenti con le presenti; ed in modo che non siano pensate ad una ad una, cosicché il suo pensiero passi dalle une alle altre, ma le abbracci tutte insieme con un solo sguardo; quale uomo, dico, comprende questa sapienza che è insieme preveggenza, che è scienza, quando noi non comprendiamo nemmeno la nostra sapienza?

Se le cose presenti ai nostri sensi o alla nostra intelligenza le possiamo vedere in qualche modo, invece quelle che sono assenti e tuttavia furono una volta presenti, le conosciamo per mezzo della memoria, quelle almeno di cui non ci siamo dimenticati.

Né congetturiamo le cose passate in base alle cose future, ma quelle future in base alle passate ed anche queste con conoscenza incerta.

Quando infatti prevediamo alcuni nostri pensieri futuri con maggior chiarezza e certezza come i più vicini a realizzarsi, lo dobbiamo all'azione della memoria ( quando siamo capaci di farlo per quanto è in nostro potere ), memoria che sembra riguardare le cose passate, non quelle future.

Ci è facile fare una tale esperienza in quei discorsi o cantici, dei quali possiamo recitare a memoria il susseguirsi delle frasi.

Se infatti non vedessimo in anticipo con il pensiero ciò che segue, certamente non diremmo nulla; e tuttavia a far sì che vediamo in anticipo non è la preveggenza, ma la memoria.

Perché, fino a quando non abbiamo finito di parlare o di cantare, non proferiamo nulla che non sia stato previsto e considerato in anticipo.

E tuttavia, quando facciamo questo, non si dice che noi cantiamo o recitiamo con l'aiuto della preveggenza, ma della memoria; e coloro che hanno una capacità fuori del comune nel recitare a questo modo delle lunghe composizioni, vengono esaltati di solito non per la loro preveggenza, ma per la loro memoria.

Che questo accada nella nostra anima lo sappiamo e ne siamo assolutamente certi, ma quanto maggiore è l'attenzione che poniamo nel voler comprendere come questo accada, tanto più il nostro linguaggio viene sopraffatto e la stessa attenzione non rimane ferma fino al punto di permettere alla nostra intelligenza, in mancanza della nostra parola, di giungere ad un qualcosa di chiaro.

Pensiamo noi allora di poter comprendere, data la così grande debolezza del nostro spirito, come la preveggenza è identica alla memoria e all'intelligenza, in Dio che non vede le cose pensandole ad una ad una, ma abbraccia in una visione eterna, immutabile ed ineffabile tutto ciò che conosce?

In mezzo a queste difficoltà e complicazioni è grato gridare al Dio vivente: Troppo mirabile è la tua scienza; troppo sublime, e non posso comprenderla. ( Sal 139,6 )

A partire dalla mia esperienza, comprendo quanto sia mirabile ed incomprensibile la tua scienza ( Rm 11,33 ) con la quale mi hai creato; e tuttavia nelle mie meditazioni mi infiamma un fuoco ( Sal 39,4 ) che mi spinge a cercare sempre la tua faccia. ( 1 Cr 16,11; Sal 105,4 )

8.14 - La conoscenza di Dio "attraverso uno specchio in enigma"

So che la sapienza è una sostanza immateriale, che essa è una luce in cui si vede ciò che non si vede con gli occhi della carne; e tuttavia quell'uomo così eminente e così spirituale dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma, allora a faccia a faccia. ( 1 Cor 13,12 )

Se ci chiediamo quale sia e che cosa sia questo specchio, il primo pensiero che ci viene in mente è certamente quello che nello specchio non si vede che un'immagine.

Ci siamo dunque sforzati, a partire da questa immagine che siamo noi, di vedere in qualche modo, come in uno specchio, Colui che ci ha fatti.

È questo il senso di quest'altra espressione dello stesso Apostolo: Noi che a faccia svelata comprendiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, salendo di gloria in gloria, come ad opera dello spirito del Signore. ( 2 Cor 3,18 )

Chiama speculantes coloro che contemplano in uno specchio ( speculum ), non coloro che guardano da un posto di osservazione ( de specula ).

Il testo greco, dal quale sono state tradotte le Lettere dell'Apostolo, non presenta alcuna ambiguità al riguardo.

In greco infatti la parola che significa specchio, in cui appaiono le immagini delle cose, è totalmente diversa, anche per il suono, dalla parola che significa "specola" dall'alto della quale lo sguardo si estende più lontano ed appare sufficientemente chiaro che l'Apostolo ha derivato da specchio e non da specola la parola speculantes, quando dice che contempliamo come in uno specchio ( speculantes ) la gloria di Dio.

Quanto a queste parole: siamo trasformati nella stessa immagine, ( Gen 1,27; Gen 5,1; Gen 9,6 ) è certo che con esse l'Apostolo vuol fare riferimento all'immagine di Dio, che egli chiama la stessa immagine, cioè quella stessa che noi contempliamo, perché questa stessa immagine è anche la gloria di Dio, come dice in un altro passo: L'uomo non deve velare il suo capo, dato che egli è l'immagine di Dio. ( 1 Cor 11,7 )

Il senso di queste parole è stato precisato nel libro dodicesimo.41

Siamo trasformati egli dice dunque, siamo cioè mutati da una forma ad un'altra e passiamo da una forma oscura ad una forma luminosa perché la stessa forma oscura è immagine di Dio e, se è immagine, è certamente anche gloria, nella quale siamo stati creati uomini, superiori agli altri animali.42

È della stessa natura umana che è detto: L'uomo non deve velare il suo capo, dato che è immagine e gloria di Dio. ( 1 Cor 11,7 )

Questa natura, la più nobile tra le cose create, quando viene giustificata, ad opera del suo Creatore, dall'empietà, lascia la sua forma deforme ( deformis forma ), per acquisire una forma bella ( forma formosa ).

Perché anche nella stessa empietà, quanto più è degna di biasimo la corruzione, tanto più certamente è degna di lode la natura.

È per questo che l'Apostolo aggiunge: di gloria in gloria; ( 2 Cor 3,18 ) dalla gloria della creazione alla gloria della giustificazione.

Tuttavia si può intendere in altra maniera l'espressione: di gloria in gloria; dalla gloria della fede alla gloria della visione, dalla gloria che fa di noi dei figli di Dio alla gloria che ci renderà simili a lui, perché lo vedremo come egli è. ( 1 Gv 3,2 )

E le parole che aggiunge: come ad opera dello Spirito del Signore, ( 2 Cor 3,18 ) mostrano che è per la grazia di Dio che ci viene conferito il beneficio di una trasformazione così desiderabile.

9.15 - L'enigma è una allegoria oscura

Tutto questo è stato detto per commentare le parole dell'Apostolo che afferma che noi vediamo ora come in uno specchio. ( 1 Cor 13,12 )

Le parole seguenti: in enigma, sono incomprensibili a tutti gli illetterati che ignorano le figure della retorica, che i Greci chiamano tropi, parola passata dalla loro lingua nella lingua latina.

Come infatti parliamo più correntemente di "schemi" che di "figure", così parliamo più correntemente di "tropi" che di "figure retoriche".

Quanto a tradurre in latino i nomi di ogni tropo o figura, in modo che ad ogni parola greca ne corrisponda una latina, è impresa fin troppo difficile e inusitata.

Così alcuni dei nostri interpreti, volendo evitare la parola greca, traducono il passo in cui l'Apostolo dice: Queste cose sono dette in senso allegorico, ( Gal 4,24 ) con questa circonlocuzione: "Queste cose significano una cosa per un'altra".43

Ora questo genere di tropo, cioè l'allegoria, si suddivide in molte specie, tra le quali si trova anche quella che si chiama "enigma".

Ma è necessario che la definizione di un termine generico abbracci tutte le specie.

Per questo, come ogni cavallo è animale, ma non ogni animale è cavallo, così ogni enigma è allegoria, ma non ogni allegoria è enigma.

Che è dunque un'allegoria se non un tropo in cui si fa intendere una cosa con un'altra, come in quel passo della Lettera ai Tessalonicesi: Dunque non dormiamo come gli altri uomini, ma vigiliamo e siamo sobri.

Infatti quelli che dormono, dormono di notte e quelli che si inebriano, si inebriano di notte; ma noi che siamo figli del giorno, siamo sobri? ( 1 Ts 5,6-8 )

Ma questa allegoria non è un enigma.

Infatti, eccetto per coloro che sono molto tardi di ingegno, il senso di questa espressione è pienamente evidente.

L'enigma invece è, per spiegarlo in breve, un'allegoria oscura,44 come il passo: La sanguisuga ha tre figlie, ( Pr 30,15 ) ed altri di questo genere.

Tuttavia, quando l'Apostolo parla di allegoria, non la individua nelle parole, ma in un fatto, nel fatto in cui mostra che i due figli di Abramo, uno della schiava, l'altro della donna libera ( Gal 4,22-24 ) ( non si trattava di parole, ma anche di un fatto ) devono significare i due Testamenti; questo fatto prima della spiegazione restava oscuro.

Perciò una tale allegoria, termine generico, potrebbe essere chiamata enigma, se si usa un termine specifico.

9.16 - L'Apostolo col termine "specchio" indica l'immagine, con quello di "enigma" una rassomiglianza, ma oscura

Ma, poiché non soltanto coloro che ignorano le lettere, in cui si studiano i tropi, si chiedono che cosa abbia voluto dire l'Apostolo quando afferma che ora noi vediamo in enigma, ( 1 Cor 13,12 ) ma anche coloro che le conoscono desiderano tuttavia sapere che cosa sia quell'enigma in cui ora vediamo, dobbiamo formare una sola espressione costituita da queste due affermazioni, quella che dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, e quella che ha aggiunto: in enigma.

È infatti una sola espressione perché l'Apostolo dice in una sola frase così: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma. ( 1 Cor 13,12 )

Perciò, a quanto mi sembra, se con la parola "specchio" volle significare l'immagine, con la parola "enigma", sebbene abbia voluto significare una "somiglianza", ha voluto tuttavia significare una somiglianza oscura e difficile da attingere.

Se dunque si può intendere che con le parole "specchio" ed "enigma" l'Apostolo ha voluto significare qualunque somiglianza adatta a farci comprendere Dio, nella misura in cui è possibile, tuttavia niente è più adatto di ciò che, non senza fondamento, è chiamato immagine di Dio.

Nessuno si meravigli dunque - dato il modo di vedere che ci è concesso durante questa vita, cioè attraverso uno specchio e in enigma - dello sforzo che dobbiamo fare per vedere in qualche modo. Perché se fosse facile vedere, non si incontrerebbe in questo passo la parola "enigma".

E l'enigma è ancora più grande per questo: che non vediamo ciò che non possiamo non vedere.

Infatti chi non vede il suo pensiero? E chi vede il suo pensiero, non dico con gli occhi della carne, ma con lo sguardo interiore? Chi non lo vede e chi lo vede?

Perché il pensiero è una specie di visione dell'anima, sia che siano presenti gli oggetti che anche gli occhi del corpo possono vedere o gli altri sensi possono percepire, sia che tali oggetti siano assenti e con il pensiero si vedano le loro immagini; sia che non venga pensato nulla di questo, ma si pensino cose che non sono corporee, né sono immagini di cose corporee, così si pensano le virtù e i vizi e lo stesso pensiero pensa se stesso; sia che si pensino le conoscenze trasmesse dalle scienze e dalle arti liberali; sia che si pensino le cause superiori di tutte queste cose o le loro ragioni nella natura immutabile; sia che si pensino cose cattive, futili e false, sia che non vi consenta il senso, sia che erri il consenso.

10.17 - Il verbo dello spirito specchio ed enigma del Verbo divino

Ma parliamo ora di queste cose già conosciute alle quali pensiamo e che restano nella nostra conoscenza anche quando non le pensiamo, sia che si tratti di cose che appartengono alla scienza contemplativa, che si deve chiamare propriamente sapienza, sia che appartengano alla scienza attiva, che si deve chiamare propriamente scienza, come ho spiegato.

L'una e l'altra insieme appartengono infatti allo stesso spirito e costituiscono una sola immagine di Dio.

Se si tratta in modo più speciale ed esclusivamente di quella che è inferiore, non bisogna allora dire che è immagine di Dio, sebbene anche allora vi si possa trovare qualche somiglianza della Trinità, come ho mostrato nel libro tredicesimo.45

Ora dunque noi parliamo della scienza dell'uomo considerata in tutta la sua estensione, scienza nella quale conosciamo tutte le cose che conosciamo; cose vere di certo, altrimenti non le conosceremmo.

Infatti nessuno conosce le cose false, se non quando sa che sono false e, se conosce ciò, conosce il vero, perché è vero che quelle cose sono false.

Ora discutiamo dunque delle cose conosciute alle quali pensiamo e che conosciamo, anche se non le pensiamo.

Ma non c'è dubbio che, se vogliamo esprimerle, non lo possiamo fare che se le pensiamo.

Infatti, sebbene non vi sia il suono delle parole, sempre parla nel suo cuore colui che pensa.

Per questo vi è la seguente espressione nel libro della Sapienza: Dissero nel loro interno pensando male. ( Sap 2,1 )

Il senso delle parole: Dissero nel loro interno è spiegato dalla parola pensando.

Vi è nel Vangelo un testo analogo; vi si narra che alcuni Scribi udendo il Signore dire al paralitico: Confida, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati; dissero dentro di sé: Costui bestemmia. ( Mt 9,2-3 )

Che significa infatti: Dissero dentro di sé, se non "dissero pensando"?

Infine il testo continua: Ma Gesù, conosciuti i loro pensieri, disse: Perché pensate il male nei vostri cuori? ( Mt 9,4 ) Così Matteo.

Ma Luca racconta lo stesso avvenimento in questi termini: Gli Scribi e i Farisei incominciarono a pensare, dicendo: Chi è costui che pronuncia bestemmie?

Chi può rimettere i peccati se non Iddio solo? Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, rispose loro dicendo: Che pensate nei vostri cuori?. ( Lc 5,21-22 )

Come nel Libro della Sapienza c'è: Dissero pensando, qui c'è: Pensarono dicendo.

L'uno e l'altro testo mostrano che parlare dentro di sé e nel proprio cuore equivale a parlare pensando.

I Farisei hanno parlato dentro di sé, e il Signore ha detto loro: Che pensate?

Allo stesso modo, a proposito di quel ricco, i cui campi avevano prodotto frutti copiosi, il Signore dice: E pensava dentro di sé, dicendo. ( Lc 12,16-17 )

10.18 I pensieri dunque sono una specie di linguaggio del cuore, nel quale il Signore ci mostra che esiste una bocca, quando dice: Non ciò che entra nella bocca contamina l'uomo, ma ciò che esce dalla bocca, questo contamina l'uomo. ( Mt 15,11 )

In una sola frase il Signore parla in qualche modo di due bocche dell'uomo: una del corpo, una del cuore.

Perché è evidente che secondo l'opinione dei Giudei, ciò che contamina l'uomo entra per la bocca del corpo, mentre, secondo l'affermazione del Signore, ciò che contamina l'uomo esce dalla bocca del cuore. ( Mt 15,11.17-18 )

Così infatti egli stesso ha spiegato le sue parole.

Perché poco dopo su questo argomento dice ai suoi discepoli: Siete ancora, anche voi, senza intelligenza?

Non capite che quanto entra per la bocca, passa nel ventre e finisce in una fogna? ( Mt 15,16-17 )

In questo passo si parla, in maniera assai evidente, della bocca del corpo.

Ma nel passo che segue allude alla bocca del cuore, quando dice: Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è questo che contamina l'uomo, perché dal cuore vengono i cattivi pensieri. ( Mt 15,18-19 )

Che cosa si può pretendere di più chiaro di questa spiegazione?

Tuttavia quando diciamo che i pensieri sono le parole del cuore, non neghiamo per questo che siano anche visioni scaturite dalla visione della conoscenza implicita ( notitia ), almeno quando sono vere.

Infatti, quando queste cose si producono al di fuori per mezzo del corpo, una cosa è la parola, altra la visione, ma all'interno quando pensiamo sono tutte e due una cosa sola.

Proprio come l'atto di vedere e di udire sono due cose distinte nei sensi del corpo, mentre nell'anima udire e vedere non sono cose diverse; e per questo, mentre la parola esteriore non si vede, ma invece si sente, al contrario le parole interiori, cioè i pensieri, sono state viste, non udite dal Signore, come ci dice il santo Vangelo.

Il testo afferma: Dissero dentro di sé: Costui bestemmia, e poi aggiunge: E Gesù, vedendo i loro pensieri. ( Mt 9,4 )

Dunque egli vide ciò che essi dissero. Infatti vide con il suo pensiero i loro pensieri che ritenevano di essere i soli a vedere.

10.19 - Il verbo che diciamo nel cuore quando pensiamo il vero non appartiene a nessuna lingua

Chiunque perciò può comprendere che cosa sia il verbo, non soltanto prima che risuoni al di fuori, ma anche prima che il pensiero si occupi delle immagini dei suoni ( questo verbo infatti non appartiene ad alcuna lingua, a nessuna di quelle che chiamano "lingue delle genti", tra le quali c'è anche la nostra lingua latina ); chiunque, dico, può comprendere che cosa sia il verbo, può già vedere, per mezzo di questo specchio ed in questo enigma ( 1 Cor 13,12 ) una certa somiglianza di quel Verbo di cui è detto: In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio. ( Gv 1,1 )

Infatti quando diciamo il vero, cioè ciò che sappiamo, è necessario che nasca dalla scienza che conserviamo nella nostra memoria un verbo che sia pienamente della stessa specie della scienza da cui è nato.

Il pensiero che si è formato a partire da ciò che già sappiamo è il verbo che pronunciamo nel cuore: verbo che non è né greco, né latino, che non appartiene ad alcun'altra lingua; ma quando c'è bisogno di portarlo a conoscenza di coloro ai quali parliamo, si fa ricorso a qualche segno che lo esprima.

Tale segno è nella maggior parte dei casi un suono, talvolta è un gesto; il primo si dirige agli orecchi, il secondo agli occhi, affinché per mezzo dei segni corporei venga fatto conoscere anche ai sensi corporei il verbo che portiamo nello spirito.

Perché anche il fare un gesto, che altro è se non parlare, in qualche modo, visibilmente?

Nelle Sacre Scritture si trova una prova di questa affermazione; infatti nel Vangelo secondo Giovanni si legge: In verità, in verità vi dico, uno di voi mi tradirà.

I discepoli allora si guardarono l'un l'altro, non sapendo a chi volesse alludere.

Ma uno dei suoi discepoli, quello da Gesù prediletto, stava appoggiato presso il petto di lui.

A questo fece cenno Simon Pietro e gli disse: chi è quello di cui parla? ( Gv 13,21-24 )

Ecco, Pietro esprime con un gesto ciò che non osa dire con le parole.

Ma questi segni corporei ed altri di questo genere sono diretti agli orecchi o agli occhi dei presenti con i quali parliamo.

La Scrittura invece è stata inventata anche per permetterci di comunicare con gli assenti, ma le lettere scritte sono segni delle parole, mentre le parole nella nostra conversazione sono segni delle cose che pensiamo.46

Indice

29 Sopra 8,10,14
30 Sopra 8,3,4
31 Sopra 14,19,25
32 Sopra 14,8,11
33 Quintiliano, Instit. 7, 3, 15;
Cicerone, Acad. 2, 7, 21;
Plutarco, Eth. 450d;
Agostino, De ordine 2, 11, 31;
Sopra 7,4,7-9
34 Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 13, 36
35 Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 12, 34;
Sallustio, Iug. 2, 1;
Lattanzio, Instit. 7, 5, 16
36 Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 13, 36
37 Sopra 7,4,7-9
38 Cicerone, De invent. 2, 53, 160;
Agostino, De div. qq. 83 31, 1: NBA, VI/2;
Ep. 169, 2, 6
39 Sopra 14,7,9-10
40 Sopra 7,1,1-3,4
41 Sopra 12,7,9-12
42 Sallustio, Catil. 1, 1
43 Ambrosiaster, Comm. in Ep. b. Pauli ad Gal. 4,24: PL 17, 384
44 Quintiliano, Instit. 8, 6, 52
45 Sopra 13,1,1-20,25
46 Aristotele, Interpret. 1