Bibbia
1) Il complesso delle Scritture sacre dell'ebraismo e del cristianesimo
Il papiro ( papyrus ) egiziano, con cui si confezionava la carta, venne chiamato biblos, dal porto di Byblos ( in Siria, sul luogo dell'odierna Giubail, fra Tripoli e Beirut ) dal quale, dopo la lavorazione, era esportato ai Greci, i quali chiamarono perciò il libro biblos o, nella forma neutra, biblion, che al plurale fa biblia; questa parola nel latino popolare fu sentita quale femminile singolare, come avvenne per molti altri neutri plurali, nei quali la desinenza "a" venne confusa con quella del femminile singolare, da cui la Bibbia.
"Bibbia" sono quindi i "libri", per eccellenza, che, essendo parola di Dio, vennero anche denominati "Sacra Scrittura".
Essi formano una collezione divisa in due parti: l'Antico Testamento, di origine ebraica, ed il Nuovo, di redazione cristiana.
L'AT comprende libri legali ( Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio ), storici ( ad esempio: Giosuè, Giudici, Samuele, Re, Cronache ), profetici ( Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele e 12 profeti minori ), sapienziali o didattici ( tra i quali Giobbe, Salmi, Proverbi, Ecclesiaste ), più altri che dagli Ebrei furono generalmente considerati come appendici aggiunte.
Il Nuovo Testamento include i Vangeli ( Matteo, Marco, Luca, Giovanni ), gli Atti degli Apostoli di S. Luca, le Lettere ( soprattutto di S. Paolo ) e l'Apocalisse di S. Giovanni.
L' AT ( vedi Testamento ) fu scritto per la maggior parte in ebraico, solo per brevi tratti in aramaico, ed i libri più tardi ( II Maccabei e Sapienza ) in greco.
Il NT fu invece scritto originariamente in greco, tranne il Vangelo di Matteo, che, rivolto agli Ebrei, fu redatto in aramaico, stesura che è però andata completamente perduta, della quale ci resta solo la versione greca, che risulta risalire attorno al 60, senza che sappiamo da chi sia stata effettuata.
Ad istanza della numerosa e vivace comunità giudaica di Alessandria, che, vivendo in ambiente di lingua greca l'aveva accolta nell'uso quotidiano, per cui si trovava ormai in difficoltà nel comprendere l'originale semitico, l'AT fu tradotto in greco in un'epoca che va approssimativamente dal 250 al 130 a.C.: la leggenda favoleggiò che la trasposizione fosse compiuta da 72 dotti, i quali, separatamente in celle distinte, per ispirazione divina, resero il testo in identità verbale: la loro versione fu perciò detta dei Settanta.
Questa stesura fu adottata dai cristiani e perciò gli Ebrei nel secondo secolo d.C. la rifiutarono, sostituendola con altre traduzioni ( di Aquila verso il 140 d.C.; di Teodozione ca il 180; di Simmaco ca il 200 ).
Con il secondo secolo si fecero anche versioni in latino, non dall'ebraico, ma dai Settanta, la cui redazione, essendo stata usata da Gesù e dagli Apostoli, godeva di un'altissima venerazione: erano in genere adattamenti assai letterali e quindi rozzi e di faticosa comprensione, per cui S. Girolamo venne ad una revisione, detta Vulgata ( v. ).
Tra le versioni italiane una delle più pregiate fu quella di A. Martini, che pubblicò sei volumi per il NT ( Torino, 1769-1771 ) e sedici per l'AT ( Torino 1776-1778 ), i quali vennero ufficializzati dall' Accademia della Crusca come "testo di lingua".
La sicurezza della trasmissione per il testo dell'AT, e soprattutto per quello del NT, è garantita da un numero grandissimo di manoscritti, i quali per antichità ed autorevolezza superano di gran lunga l'affidabilità di cui disponiamo per tutti gli altri autori classici sia greci che latini.
La Chiesa condannò sempre con recisione coloro che rifiutavano l'AT, a capo dei quali si pose l'eretico Marcione ( ca 85-150 d.C. ), che ipotizzò due diversi Dei, uno aspro e crudele dell'AT ed uno amorevole del NT.
L'elementarità dogmatica e morale dell' AT va infatti valutata alla luce del principio che la rivelazione fu progressiva, in quanto Dio parlò agli uomini secondo una "pedagogia" che ne rispettava lo sviluppo culturale.
L'AT rappresentò il lungo cammino di avvicinamento a Cristo, il quale avrebbe condotto alla perfezione definitiva quanto, in antecedenza, era stato provvisorio.
Come Dio, autore della Bibbia, si adeguò all'evoluzione intellettuale dell'umanità, così si espresse secondo le abitudini linguistiche delle singole epoche, per cui le sue parole vanno interpretate ( ermeneutica ), in modo da coglierne esattamente il significato quale allora veniva inteso, attenendosi nella comprensione alla tradizione vivente della Chiesa.
La Bibbia ( dal greco tà bibita: i libri ) è la raccolta dei testi sacri per la fede ebraico-cristiana, in quanto testimonianza scritta e ispirata della rivelazione divina fatta a Israele e culminata per i cristiani in Gesù Cristo e nel suo annuncio.
Per gli ebrei contiene la testimonianza della millenaria tradizione religiosa che da Abramo, padre di tutti i credenti, si è estesa fino alle soglie dell'era cristiana, mentre per le diverse confessioni cristiane essa si compie nella testimonianza di Gesù Cristo e della prima generazione di credenti.
Tramite le tradizioni ebraica e cristiana la Bibbia ha esercitato un enorme influsso sulla cultura occidentale, sul suo pensiero e sull'immaginario artistico.
Per questo la Bibbia è il libro più tradotto nelle diverse lingue e forse anche il più studiato: come fondamento di una tradizione religiosa e culturale si presta a essere indagato scientificamente, con gli strumenti della ricerca storica, linguistica ed esegetica.
La Bibbia è fra i libri più letti e pregati dall'umanità: ebraismo e cristianesimo la riconoscono come Parola di Dio, ossia come racconto-testimonianza della rivelazione di Dio all'uomo, considerandola pertanto come libro ispirato ( v. ispirazione ).
Per questo motivo i credenti nella rivelazione biblica hanno da sempre considerato il pur affascinante studio della Scrittura come il preludio di una penetrazione ulteriore, verso il suo mistero più appassionante: la possibilità di udire nelle parole e fra le righe di quel testo la Parola stessa di Dio.
Per chi crede è riduttivo considerare la Bibbia solo un documento storico-letterario, anche se altissimo; essa è invece ritenuta parte integrante di una storia animata dall'intervento di Dio, nella quale egli non trasmette all'uomo semplici informazioni, ma comunica il suo amore e il suo piano di salvezza per gli uomini.
Le vicende in essa narrate non sono mai semplici racconti o resoconti storici, ma rimandano all'interpretazione del senso religioso e spirituale che contengono.
Dal senso letterale del testo sgorga un senso spirituale, un senso che, per i cristiani, riguarda Cristo e la vita di coloro che credono in lui.
Così, per esempio, la bellissima immagine di Dio "pastore" del Salmo 23, ripresa nel cap. 34 di Ezechiele come principio di critica dei cattivi pastori di Israele è applicabile a tutte le situazioni di degradata responsabilità pastorale, e può essere letta come intuizione e annuncio della venuta di Cristo: "Ecco io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura" ( v. 11 ).
L'allegoria del buon pastore in Giovanni 10,11-18 conferma e rielabora l'antica immagine del salmo attraverso la figura del "buon pastore che offre la vita per le pecore", come icona definitiva della dedizione di Dio per la salvezza di tutti gli uomini.
Come Parola di Dio la Bibbia è interpretata dai credenti ( ebrei e cristiani ) con occhi di fede, che sanno scorgere in vicende che possono apparire esclusivamente umane il disegno di Dio che si dispiega nella storia e che per i cristiani culmina nella rivelazione operata da Gesù Cristo.
Per loro Cristo è la chiave di interpretazione delle Scritture e la Parola di Dio per eccellenza, la Parola di Dio fatta carne ( Gv 1,14 ); è l'evento che essi riconoscono annunciato nel Primo Testamento e che il Nuovo Testamento testimonia come vera luce per tutte le genti.
La Bibbia è ritenuta dai credenti la modalità principale con la quale la verità di Dio raggiunge l'umanità: "Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà. […]
Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi fra loro" ( Dei Verbum, 2 ).
"I libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle che fosse consegnata nelle sacre lettere. […]
Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre [… ] si fece simile agli uomini" ( Dei Verbum, 11 ).
La costituzione del concilio Vaticano II Dei Verbum richiama qui alla natura della parola biblica, che è insieme e in modo indisgiungibile Parola e avvenimento che si interpretano reciprocamente, e sottolinea come per i cristiani la Parola di Dio, il logos, che è verità di Dio, "risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione" ( Dei Verbum, 2 ).
La Sacra Scrittura non è però immediatamente identificabile con la rivelazione di Dio; essa è la testimonianza storica privilegiata della Rivelazione, essa è "l'immagine canonica della Rivelazione" ( H.U. von Balthasar ), cioè il luogo riconosciuto ( v. canone ) nel quale si è resa disponibile a tutti gli uomini la Parola vera di Dio.
Questo vale per tutta la scrittura biblica, anche per quei passi del Primo Testamento che più appaiono lontani dall'immagine di Dio e dalla visione morale proposte dal Nuovo Testamento.
A questo proposito la stessa Dei Verbum ( n. 15 ) richiama al principio della storicità e della gradualità della Rivelazione: "I libri poi dell'Antico Testamento, secondo la condizione del genere umano prima dei tempi della salvezza instaurata da Cristo, manifestano a tutti la conoscenza di Dio […] essi, sebbene contengano cose imperfette e temporanee, dimostrano una vera pedagogia divina".
Tutti i libri biblici, ma soprattutto quelli del Primo Testamento, narrano infatti della lotta immane che la Parola di Dio ha dovuto sostenere per essere riconosciuta fra le pieghe della storia e della cultura umana in cui ha scelto di rivelarsi.
Dio non ha disdegnato di avere a che fare con una storia segnata dagli eccessi del peccato e dell'ignoranza umana, per poterla redimere nella sua interezza.
Lo ha fatto accettando tradizioni quali quelle dello cherem ( cioè l'interdetto lanciato contro le città nemiche di Israele che comportava la totale uccisione dei suoi abitanti, donne e bambini compresi ) proprio perché la storia dell'umanità non avrebbe potuto comprendere una diversa gradualità della Rivelazione.
La natura del canone biblico, che porta alla continua reinterpretazione degli scritti più antichi in nuovi che ne riprendono e precisano il senso, ha saputo conservare e approfondire quanto nella tradizione precedente meglio interpretava la Parola di Dio.
Così il Nuovo Testamento può essere considerato come la definitiva rilettura che precisa e compie il senso del Primo Testamento.
I credenti affermano che la Bibbia è pienamente compresa unicamente dalla lettura operata nella fede, cioè che solo l'atteggiamento di fede sa cogliere la Parola di Dio in quella biblica.
L'affermazione si fonda sulla considerazione che la fede sola può mettere il lettore in sintonia con l'obiettivo che il testo stesso si propone di realizzare: comunicare che Dio è salvezza.
Solo disponendosi a udire una parola di salvezza è possibile udire tutto ciò che la Bibbia può comunicare.
La fede infatti nasce accettando la proposta, che la parola biblica esplicitamente rivolge, di fondare l'interpretazione dell'esistenza su quel Dio che si annuncia liberatore nella storia di Israele e in Gesù Cristo.
Con questo la fede non trasforma con un atto soggettivo la Bibbia in Parola di Dio; piuttosto la scopre come tale, facendola scendere nel cuore, inattesa e liberante.
La Bibbia contiene in modo unico sia il messaggio della fede che salva, sia l'indicazione del percorso che porta a vivere in pienezza quella fede.
Nella Bibbia quindi ogni credente può riconoscere anche la vicenda travagliata della propria fede e trovare in quella storia alimento per nutrirla e accrescerla.
L'autentica comunicazione di Dio nella Bibbia non è riducibile alla trasmissione di verità di carattere generale, che richiedano un'adesione di tipo esclusivamente razionale ed etico.
La parola della rivelazione biblica ha una struttura relazionale, interpella individualmente il lettore, invitandolo a prendere posizione sui grandi temi della propria vita e sul significato generale dell'esistenza stessa.
Fondamentalmente la Scrittura propone a ogni uomo un'interpretazione positiva della propria vita, perché gli comunica il suo essere originariamente segnato dalla benedizione di Dio: nel racconto della creazione di Genesi 1, scandito in sei giorni, Dio afferma dopo ogni atto creativo che "è cosa buona".
Nella Scrittura conosciuta nella fede della lettura orante ( v. lectio divina ) Dio comunica con ogni credente, permettendogli di appropriarsi del senso profondo del testo, che così parla singolarmente alla storia di ognuno.
La spiritualità biblica è primariamente caratterizzata dall'ascolto di un interlocutore presente: Shemà Israel, Ascolta Israele ( Dt 6,4 ) recitano quotidianamente nella loro preghiera gli ebrei.
La Bibbia vuole che ogni credente si disponga anzitutto all'ascolto, che è la prima attitudine al dialogo, anche a quello misterioso con Dio.
Per questo Salomone diede prova di grande sapienza quando innalzò la sua preghiera a Dio non già per ottenere una lunga vita, il regno o la morte dei suoi nemici, ma perché gli fosse concesso "un cuore disponibile all'ascolto" ( 1 Re 3,9-12 ).
Questa infatti è la condizione per cogliere il senso profondo della parola biblica, che è annuncio di salvezza per ogni creatura.
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Disegnare un profilo del rapporto tra B. e mistica è impegno molto arduo e complesso, nonostante l'assenza del termine mistica nella Scrittura.
Mettiamo subito tra parentesi il rapporto tra letteratura, dottrina ed esperienza mistica, da una parte, e B. dall'altra: basterebbe solo citare come emblema la rilettura del Cantico da parte di s. Giovanni della Croce per far balenare quanto sterminato e ricco sia questo orizzonte.
Noi, invece, ci fermeremo solo all'interno della Scrittura nel tentativo di abbozzare una mappa essenziale di ciò che intendiamo come mistica nel modo in cui la Parola di Dio la intuisce e la propone nei suoi lineamenti fondamentali.
La prima e fondamentale affermazione biblica potrebbe essere così formulata: l'esperienza mistica non è, prima di tutto, un'esperienza su Dio ma di Dio.
C'è un a priori assoluto di Dio rispetto a ogni desiderio dell'uomo, perché prima ancora che l'uomo s'interessi di Dio, è Dio che si prende cura di lui ( cf Is 40,27; Is 49,14-16 ), è lui che rompe il silenzio del nulla con la sua parola creatrice, è lui che spezza le catene del male con la sua parola redentrice, è lui che « sta alla porta e bussa » ( cf Ap 3,20 ).
Molto suggestiva è la dichiarazione di Paolo che, in Rm 10,20, citando un'ardita affermazione ( « osa dire » ) di Is 65,1, pone in bocca al Signore questa frase: « Mi feci trovare da chi non mi cercava ».
La mistica non è innanzitutto conoscere amare Dio ma essere conosciuti amati da lui ( cf Gal 4,9 ).
È un essere « conquistati » da lui ( cf Fil 3,12 ).
In principio c'è, quindi, un'epifania di Dio ( « prima che Abramo fosse, io sono », Gv 8,58 ), c'è la sua eudokia o « buona volontà » che precede quella umana ( cf Lc 2,14 ).
La B. annunzia costantemente il primato della rivelazione divina sulla ricerca umana, della grazia sul merito, del regno che cresce da solo come il seme nella terra, sia che il contadino dorma sia che vegli ( cf Mc 4,26-29 ).
I luoghi ove incontrare questa teofania sono tre.
Innanzitutto la storia della salvezza, come è attestato dallo stesso Credo di Israele ( cf Dt 26,6-9; Gs 24,1-13; Sal 136 ) e dall'Incarnazione cristiana che nella « carne » di Cristo vede la presenza suprema e il santuario perfetto di Dio ( cf Gv 1,14; Gv 2,19-22; 1 Cor 6,19 ).
C'è poi lo spazio che rivela la presenza divina sia nel tempio cosmico ( cf Sal 19,1-4 ) sia in quello di Sion ( cf 1 Re 8 ) ove si può celebrare un incontro mistico tra Dio e l'uomo.
E, infine, è la parola nella sua efficacia che feconda il terreno arido dell'esistenza umana facendola vivere e germogliare ( cf Is 55,10-11 ).
Il Dio con noi ( ='immanû 'el ) esige però un dialogo libero; al bussare di Cristo si deve accompagnare l'« apertura della porta » e l'« ascolto della voce ».
Ed è questa la seconda grande affermazione biblica sulla mistica.
All'irruzione divina nella storia, nello spazio e nell'esistenza umana deve rispondere l'itinerario dell'anima in Dio, alla grazia deve unirsi la fede, all'amore donato dal Salvatore deve corrispondere l'intimità dell'uomo.
Emblematiche in questo senso sono alcune categorie e simboli.
Pensiamo innanzitutto all'agape.
Ancora una volta si deve ribadire che il primato è divino: « Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi … e ci ha amati per primo » ( 1 Gv 4,10.19; cf Ef 2,4; 1 Gv 4.8.16 ).
Ma a questo promanare dell'amore divino deve intrecciarsi l'amore del fedele, un amore che tutto avvolge proiettandosi nelle due direzioni radicali dell'essere, la verticale e l'orizzontale, come insegna l'ammonimento di Cristo sul compendio della Scrittura nell'amore per Dio e per il prossimo ( cf Mt 22,37; cf Dt 6,5 ).
« Il Signore chiede … che tu lo ami » ( Dt 10,12 ), ma vuole anche che « vi amiate gli uni gli altri, come vi ho amato » ( Gv 15,12 ).
E su questa vicenda d'amore, celebrata da Paolo nello stupendo « inno all'agape » di 1 Cor 13, che si misura l'autentica esperienza mistica, che è tensione verso la stessa pienezza e perfezione dell'amore divino ( cf Mt 5,48 ).
La categoria dell'agape coinvolge, poi, tutta la ricca simbolica paterna, materna e nuziale che attraversa il testo biblico e che ha avuto straordinaria fortuna nella stessa letteratura mistica.
Da un lato, la figura paterna di Dio riprende i motivi della cura amorosa e dell'educazione del figlio anche attraverso le prove purificatrici ( cf Dt 8,5 e Os 11,1-4 ); dall'altro, quella materna esprime l'intensità e la tenerezza d'un rapporto inestinguibile di fiducia ( cf Is 49,15; Sal 131 ).
Perciò, anche se « mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, il Signore mi ha raccolto » ( Sal 27,10 ) e la parabola del figlio prodigo di Lc 15 ne è una luminosa testimonianza.
L'amore divino ha anche tutti i contorni di un affetto nuziale, come è ripetutamente cantato dalla teologia profetica, a partire da Osea ( cf Os 1-3 ) per lambire molte altre pagine ( cf Is 54; Is 62,1-5; Ger 2,2; Ez 16 ) e raggiungere il suo acme nella rilettura tradizionale del Cantico dei Cantici.
Un'altra categoria significativa è quella della comunione e del « rimanere » « dimorare » in Dio e in Cristo (menein monê), categoria esaltata soprattutto da Giovanni.
Basterebbe solo scorrere i discorsi dell'Ultima Cena ( cf Gv 13,17) o la Prima Lettera di Giovanni ( cf 1 Gv 1,7; 1 Gv 3,16; 1 Gv 4,7.11.16.20-21 ) per vedere la fioritura di questo simbolo in tutte le sue dimensioni.
Noi vorremmo solo evocare la comunione che è attuata attraverso la fede e l'Eucaristia, proposta dalla celebre omelia di Gesù nella sinagoga di Cafarnao ( cf Gv 6 ), e la suggestiva immagine della vite sviluppata in Gv 15, ove insistente è l'appello a « rimanere » in Cristo come il tralcio deve restare attaccato alla vite per vivere e produrre frutto.
Anche in questo caso il « rimanere » mistico è duplice: « Rimanete in me e io in voi …
Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla » ( Gv 15,4-5 ).
L'immagine del « rimanere dimorare » conduce spontaneamente a un'altra categoria che è quasi estrema e fa sì che « Dio sia tutto in tutti » ( 1 Cor 15,28 ).
Intendiamo alludere alla vita comune tra Dio e il fedele.
Pensiamo alla « nuova alleanza » cantata da Ger 31,31-34 e da Ez 36,24-27, in cui lo spirito stesso di Dio è infuso nella creatura umana che riceve anche un « cuore di carne » che batta solo per il suo Signore.
Pensiamo alla dichiarazione dell'orante del Sal 119,94: « Io sono tuo, Signore! » e alle parole intensissime di Paolo: « Per me vivere è Cristo … Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me … La vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! » ( Fil 1,21; Gal 2,20; Col 3,3 ).
Pensiamo anche all'eternità propria della vita mistica perché essa partecipa della stessa qualità di Dio.
Già nell'AT il fedele, vissuto in intimità con Dio « suo bene sopra il quale non c'è nessuno », era convinto che « tu non abbandonerai la vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.
Mi mostrerai il sentiero della vita, gioia piena davanti al tuo volto, delizia alla tua destra per sempre » ( cf Sal 16,2.10-11; Sal 73,23-28; Sap 3 ).
Il cristiano che ha partecipato alla passione del Cristo ( cf Gal 6,17 ) ne condivide la gloria pasquale e « così saremo sempre col Signore » ( 1 Ts 4,17 ).
Il credente che ha fatto l'esperienza mistica della comunione col divino durante l'esistenza terrena ( cf Sal 63,2-9 ) sa che nulla lo potrà separare dall'amore del suo Dio ( cf Rm 8,35-39 ) perché « la sua sorte è Dio in eterno » ( cf Sal 73,26 ).
Il mistero pasquale diventa il sigillo di ogni esperienza mistica, la sua fonte e il suo culmine, la sua radice e la sua pienezza.
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I cristiani chiamano Bibbia ( biblìa = libri ) il complesso di scritti dove si ritiene sia riportata la rivelazione diretta da Dio all'umanità col fine di liberarla dal caos provocato dal peccato e per guidarla verso il fine per cui fu creata.
La Bibbia contiene, in realtà, 72 libri di cui 45 appartengono all 'Antico Testamento e 27 al Nuovo Testamento.
Questi scritti furono redatti in un periodo di circa 1000 anni ( secolo IX a.C. - secolo II d.C. ).
Gli scritti veterotestamentari furono composti per la maggior parte in ebraico, eccetto alcune espressioni di Genesi, Geremia, Esdra ( Gen 4,7-6.18; Gen 7,11-28 ); e Daniele ( Dn 2,4-7.28 ), la cui lingua originaria fu l'aramaico.
Altri libri ( Tobia, Giuditta, Siracide, Sapienza, Baruc, 1-2 Maccabei ) furono scritti in greco, in seguito all'influsso ellenista iniziatosi nel secolo IV a.C.
La letteratura neotestamentaria è stata invece redatta interamente in greco, anche se la critica si interroga sulla possibilità che alcuni vangeli ( Mt-Gv ) possano essere stati concepiti originariamente in aramaico.
Tutti gli scritti biblici sono ritenuti l'espressione esplicita dei disegni di Dio, poichè Dio ha ispirato i loro autori affinché li scrivessero secondo il suo progetto storico-salvifico.
L'ispirazione divina di questi libri sacri è qualcosa che nessun cristiano oserà mai impugnare.
Tuttavia, oggi è sempre più valorizzato l'apporto della comunità, in quanto ognuno degli autori sacri era un membro di qualche comunità.
Ora, quando si tratta di mettere nello scritto le sue convinzioni storico-salvifiche, l'autore non potè non essere influenzato dai problemi comunitari che egli stesso doveva in qualche modo condividere.
Così, gli scritti biblici riflettono non tanto il pensiero di certe persone concrete quanto quello della comunità in cui vivevano gli autori e che essi in un certo modo rappresentavano.
Siccome la Bibbia riferisce la rivelazione che Dio rivolse all'uomo per liberarlo dal giogo del suo peccato, tanto la religiosità ebraica ( A.T. ) quanto quella cristiana ( A.T. - N.T. ) l'hanno ritenuta come il centro nevralgico di tutta la loro religiosità.
Ora, noi cristiani riteniamo che i libri sacri contengono, al di là della lettera, un profondo contenuto spirituale che è fonte di vita personale e comunitaria.
È chiaro che la vita non deve mai restare rinchiusa nel semplice stampo di alcune lettere scritte.
Pertanto si ammette il carattere sacro della tradizione cristiana il cuo obiettivo è quello di rendere vivo il messaggio biblico e applicarlo alle esigenze di ogni epoca.
Il pensiero della tradizione cristiana è entrato nel Magistero ecclesiastico che, attraverso concili regionali o ecumenici e decisioni pontificie, ha inteso rendere in formule concrete tutto il fiume fecondo della tradizione.
Questo criterio fu negato fortemente da Lutero e da tutta la tradizione protestante che si aggrappò alla Bibbia come l'unico portavoce dei disegni divini.
Ciò ha fatto sì che la lettura della Bibbia si diffuse ampiamente tra i cristiani riformati ( protestanti ), mentre i cristiani tradizionali ( cattolici ) si lasciavano guidare dalle direttive del Magistero che si riteneva sempre collegato con la rivelazione biblica.
Tuttavia, al giorno d'oggi, si osserva una netta rifioritura all'interno del cattolicesimo.
Stimolato dal Concilio Vaticano II, si mostra di nuovo una chiara preoccupazione affinché ogni credente si accosti personalmente al flusso vitale del messaggio biblico.
Il Concilio ha insistito affinché anche i semplici fedeli dimostrino un vivo interesse allo studio della Bibbia perché il suo messaggio deve reggere il comportamento esistenziale di ogni credente.
Si osserva felicemente in campo cattolico una crescente preoccupazione per lo studio dei testé biblici e soprattutto per la rivelazione neotestamentaria.
Questo interesse appare in molti commenti esegetico-teologici che la critica cattolica aveva praticamente dimenticato.
Non osava servirsi del contributo dei progressi tecnici e scientifici respinti dal Magistero per il timore che non si accordassero col senso letterale dei testi biblici.
Oggi, si vuole uno studio che stia al disopra della lettera e una vita che stia al disopra della storia.
Vista così, la Bibbia esige un senso molto più critico, invitando ad un'analisi in cui tutto l'interesse sia centrato sull'essere umano, la cui ansia di realizzazione esistenziale vede come ostacolo la presenza del peccato nelle sue varie manifestazioni ( personali-sociali-economiche-politiche ).
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Il popolo ebraico è stato l'autore e il primo interprete della scrittura biblica; la lettura cristiana della Bibbia ha poi interpretato la speranza ebraica di salvezza, per esempio quella contenuta nei libri profetici ( Is 7,14; Is 52-53; Mi 5,1 ) come l'annuncio della venuta di Gesù.
Questa rilettura delle profezie, scaturita alla luce della Risurrezione, non sostituisce le intenzioni originarie dei profeti, che mantengono il loro significato nel quadro della promessa di salvezza rivolta a Israele.
Il concilio Vaticano II ha chiaramente affermato che l'alleanza di Dio con il popolo ebraico, in quanto suo popolo particolare, non è stata cancellata dalla venuta di Cristo: "L'economia della salvezza preannunciata […] si trova come vera parola nei libri dell'Antico Testamento; perciò questi libri divinamente ispirati conservano valore perenne" ( Dei Verbum, 14 ).
Sovente in ambiente cristiano si dimentica che Gesù stesso fu ebreo, e che non è possibile sottovalutare il suo rapporto con la Torà ( v. ) se non a prezzo di censurare chiare affermazioni neotestamentarie: Dio, diventando uomo, si è fatto ebreo "nato da donna, nato sotto la Legge", cioè sotto la Torà, scrive l'apostolo Paolo ( Gal 4,4 ).
Gesù stesso afferma "Non sono venuto ad abolire la Legge o i Profeti, […] ma per dare compimento.
In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno della Legge" ( Mt 5,18-19 ).
Separare Gesù dalla Torà significherebbe volerlo separare dalla concretezza stessa della sua incarnazione.
Per questo motivo la millenaria e multiforme tradizione della lettura ebraica della Torà ( v. haggadà; halakà; midrash ) riveste una fondamentale importanza per la penetrazione del mistero della rivelazione di Dio a Israele e, per suo tramite, a tutte le nazioni.
Il culto ebraico per la Torà costituisce un severo richiamo per i cristiani alla consuetudine con il testo biblico.
La Bibbia è "il libro dei libri, il deposito e il magazzino della vita e della consolazione" ( G. Herbert ).
Il suo inizio coincide con l'inizio del tutto: "In principio Dio creò il cielo e la terra …" ( Gen 1,1 ).
La sua conclusione - nella Bibbia cristiana - è la fine e il compimento dell'intera vicenda della creazione: "Colui che attesta queste cose dice: 'Sì, verrò presto!'. Amen. Vieni, Signore Gesù!" ( Ap 22,20 ).
Il lettore moderno, abituato alla lettura di romanzi o di narrazioni storiche ordinate, si aspetterebbe che fra i due estremi sia narrata una storia sequenziale e ben strutturata.
Ma i molti libri che compongono lo straordinario "libro" biblico creano salti narrativi che non sarebbero permessi a un buon romanziere o a uno storico rigoroso.
I nomi stessi con cui il Libro è chiamato dichiarano la sua complessità di libro ispirato ( v. ispirazione ) e canonico ( v. canone ) per le tradizioni ebraica e cristiana.
Nelle lingue occidentali è chiamato Sacra Scrittura ( o Sacre Scritture ), oppure Bibbia.
L'ebraismo lo chiama miqra' ( lettura, proclamazione ), oppure con la sigla tanak, che è un sommario abbreviato, in quanto T-N-K sono le iniziali delle tre sezioni: Torà ( legge o insegnamento ), Nevi'im ( profeti ) e Ketuvim ( scritti ).
La Bibbia ebraica è divisa in tre sezioni: Torà, profeti e scritti, per un totale di 39 libri.
La tradizione giudaica antica parla in verità di 24 libri ( 4 Esd 14,44-47 ): i 5 libri della Torà, gli 8 libri dei Profeti ( si considerano come unico libro: 1-2 Samuele, 1-2 Re e i 12 profeti minori ) e gli 11 libri degli Scritti ( si considerano come unico libro: Esdra e Neemia e 1-2 Cronache ).
Altri autori sia giudaici ( Giuseppe Flavio, Contro Apione I, 8 ), sia cristiani ( Origene, Epifanie e Gerolamo ) parlano di 22 libri, come le lettere dell'alfabeto ebraico.
La Bibbia greca, detta comunemente dei Settanta ( v. ), ha cominciato a esistere dalla metà del III sec. a.C., quando è stato tradotto il Pentateuco ( vocabolo greco che significa "cinque cassette", ovviamente per contenere i cinque rotoli della Torà ).
Essa comprende più libri rispetto a quella ebraica e riflette il carattere del giudaismo alessandrino ed ellenistico, più aperto ad accogliere come Sacra Scrittura anche opere più recenti.
A dire il vero, non si conosce con precisione il canone alessandrino prima della condanna da parte del giudaismo ufficiale, lanciata nel 130 d.G. da Rabbi Aqivà, il leader della seconda rivolta giudaica.
Di fatto, le copie manoscritte della Bibbia greca giunte sino a noi, eccetto brevi papiri egiziani, sono di tradizione cristiana.
Nella Bibbia greca, l'ordine dei libri dei Profeti e degli Scritti è stato modificato.
Una maggior attenzione retorica e stilistica ha fatto preferire una disposizione secondo il genere letterario ( storico, sapienziale, profetico ).
Per la Bibbia cristiana, il discorso è più complesso.
Gesù e i primi discepoli, essendo ebrei di Galilea, leggevano la Bibbia ebraica; Paolo e le comunità giudeo-ellenistiche si riferivano invece alla Bibbia greca, che, con qualche precisazione seguita alla crisi marcionita, divenne la Bibbia dei cristiani.
Attorno al 144 d.C. Marcione ( v. ) propose di abbandonare i libri del Primo Testamento e gran parte del Nuovo, a eccezione di una versione ridotta del Vangelo di Luca e delle maggiori lettere di Paolo.
La discussione si protrasse soprattutto per quei libri che non erano stati accolti nella Bibbia ebraica, ma erano presenti in quella greca, i cosiddetti deuterocanonici ( v. ).
Tale discussione fu riaperta dalla Riforma protestante.
Lutero ( v. ), nella sua Bibbia del 1534, pose tali libri alla fine del Primo Testamento con il seguente cappello introduttivo: "Apocrifi.
Questi sono libri che non vengono considerati uguali alle Sacre Scritture e tuttavia sono utili e buoni a leggersi".
Il concilio di Trento nel decreto sui libri sacri ( sessione IV, 8. IV. 1546 ) riaffermò l'uguale dignità di tutti i libri di cui era formata la Bibbia trasmessa dalla tradizione cattolica, secondo la Vulgata.
Questa versione latina, che risaliva a Gerolamo almeno per i testi tradotti dall'ebraico, dopo non poche discussioni, a partire dal VII sec. era divenuta il testo biblico "divulgato" in Occidente ( l'attributo di Vulgata, coniatoda Ruggero Bacone, risale al XIII sec. ).
In realtà, l'edizione romana del 1592 ( la Sisto Clementina ) portava in appendice l'Orazione di Manasse, il Terzo e il Quarto Libro di Esdra, che non erano citati nel canone tridentino.
La storia della formazione della Bibbia ebraica è complessa e non ricostruibile in tutti i particolari, per cui si devono necessariamente fare delle ipotesi, a partire dagli scarni indizi offerti dallo stesso testo biblico.
Qui di seguito sono discussi criticamente alcuni momenti di questa storia.
Il ritrovamento del libro della Torà nel tempio di Gerusalemme ( 2 Re 22,8.11 ) è un momento cruciale per la storia della religione e della tradizione biblica.
Poco importa se quel fatto sia un'esatta memoria storica, o invece una finzione letteraria per accreditare la magna charta della riforma promossa dal re Giosia.
Per la prima volta si ha un documento che non solo recensisce oracoli profetici o responsi sacerdotali, ma si presenta come "libro della Torà di JHWH".
E la prima testimonianza di un libro "canonizzato" cioè ufficialmente riconosciuto come norma della fede.
Da questo nucleo originario nasce il libro del Deuteronomio, che si compone di una serie di discorsi proclamati in prima persona, da Mosè stesso ( Dt 5-28, in parte ) con finzione letteraria e teologica; e viene stilata una storia d'Israele-Giuda a partire dal suo insediamento, convenzionalmente chiamata storia deuteronomistica ( abbreviata nella critica esegetica in dtr ).
Sia il Deuteronomio, sia la storia deuteronomistica furono poi completate e rilette durante l'esilio.
Il momento tragico dell'esilio sarebbe potuto essere il naufragio dello jahwismo la religione biblica fondata sul culto di JHWH, che sino a quel momento era convissuta con i culti cananaici ( v. Baal ) e le altre religioni dell'antico Vicino Oriente.
Le parole dei profeti e il Deuteronomio hanno invece trasformato la fine del Regno di Giuda nella conferma della rivelazione divina precedente: se gli oracoli di minaccia si erano compiuti, molto di più si sarebbero adempiute le parole di speranza.
I sacerdoti, prima a Babilonia e poi a Gerusalemme, raccolsero le tradizioni - storiche e teologiche, orali e scritte - che progressivamente furono amalgamate in una storia unitaria e coerente, come testimonianza della fede nell'unico JHWH.
Così ebbe origine quella che nella critica esegetica è detta "storia P" ( iniziale del tedesco Priesterschrift "scritto sacerdotale" ).
Accanto a essa, l'ipotesi documentaria ( cioè la corrente esegetica che concepisce la redazione finale della Bibbia come il confluire di precedenti documenti ) aveva ipotizzato una storia J ( Jahwista ), composta a Gerusalemme nel periodo glorioso di Davide e Salomone ( X-IX sec. a.C. ); una storia o rilettura E ( Elohista ), frutto della predicazione profetica nel Regno del Nord ( VIII sec. a.C. ); una redazione delle due ( RJE = redazione di J+E ), che sarebbe stata composta sotto Ezechia ( fine VIII sec. a.C. ).
Una tale ricostruzione sembra oggi un'eccessiva semplificazione di un processo molto più complesso e meno documentabile.
A quanto pare, il materiale narrativo che si riferisce ai patriarchi, alla vicenda dell'esodo e all'insediamento delle tribù israelitiche nella terra di Canaan, fu tramandato in modo frammentario.
Finalizzato agli interessi di singole istituzioni, come santuari locali, archivi e scuole di corte, non ha mai avuto piena dignità di "opera storica" prima della composizione della storia deuteronomistica e della definitiva scrittura del Pentateuco.
Quanto avvenne al tempo di Giosia con la figura di Mosè può essere considerato il momento iniziale di un lungo processo, concluso nell'edizione definitiva dei "cinque libri" della Torà.
La datazione probabile è attorno al 400 a.C.
Dal momento che a quell'epoca anche i samaritani consideravano canonico il medesimo Pentateuco ( con poche varianti testuali, comuni a ogni trasmissione di manoscritti ) e solo il Pentateuco, la sua composizione va collocata prima dello scisma samaritano, che avvenne a metà del IV sec. a.G. ( come afferma Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche XI, VIII,2,4 ).
Con non poche difficoltà cronologiche, si potrebbe forse collegare la canonizzazione della Torà con la proclamazione della medesima per opera di Esdra ( Ne 8 ).
Qualcosa di analogo è avvenuto anche per i profeti.
Sino all'esilio in Babilonia ( sec. VI a.C. ) molti profeti - veri e falsi - avevano pronunciato i loro oracoli.
I profeti ebbero dei discepoli, importanti nella loro funzione di testimoniare la "verità" delle parole del maestro ( Dt 18,22 ) e di redigerne gli oracoli.
Nel momento dell'esilio, un profeta anonimo, chiamato convenzionalmente Deutero-Isaia ( Is 40-55 ), non solo compose nuovi oracoli, ma esplicito la coscienza che JHWH aveva parlato per mezzo dei suoi profeti antecedenti: "Non lo sapete forse?
Non lo avete udito? Non vi è forse stato annunziato dal principio?" ( Is 40,21 ).
Da questa coscienza nacque la convinzione che vi fu una "parola di JHWH" per il suo popolo, capace d'interpretare con autenticità le vicende storiche in base alla Torà di JHWH.
Le tradizioni profetiche, accostate alla storia deuteronomistica, furono definitivamente "chiuse" attorno al 200 a.C.: due raccolte di 4 libri ciascuna ( Profeti anteriori: Giosuè, Giudici, Samuele e Re; Profeti posteriori: Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici minori).
Per quanto riguarda la canonizzazione degli Scritti, che rappresentano ciascuno un'opera a sé stante, il discorso dovrebbe essere più composito.
In ogni modo, Proverbi 1-9 registra un dato molto importante: la coscienza che vi sia stata una tradizione sapienziale, alla quale ci si riferisce appunto come alla Sapienza ( per esempio, i discorsi di Pr 1 e 8 ).
Del resto, il prologo del libro del Siracide, datato al 132 a.G., attesta già la triplice ripartizione della Scrittura in Torà, Profeti e altri scritti.
L'elenco definitivo di quali libri fossero da annoverare tra gli "Scritti" canonici per il giudaismo fu stilato solo verso il 90 d.G. a Jamnia ( Javné ), dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme ( 70 d.C. ) e l'inizio sorprendente della missione cristiana.
In quella discussione sembra che abbiano avuto rilevanza due criteri principali che condussero ad accogliere nel canone solo i libri che fossero:
a) utilizzati e accolti nel giudaismo ufficiale ( cioè di Gerusalemme );
b) anonimi circa l'autore, almeno per gli scritti posteriori al 200 a.G. ( forse fu anche questa una ragione per cui venne escluso il libro del Siracide ).
Bisogna riconoscere che il principio di ordinamento adottato dalla traduzione greca dei Settanta è più estrinseco e meno fecondo rispetto alla struttura del canone ebraico, il quale rivela una logica intrinseca in rapporto alla Rivelazione e al cammino di fede di Israele.
Il racconto del Pentateuco ha valore di archetipo, ovvero di modello narrativo.
In questo senso profondo, i primi cinque libri sono Torà ( cioè istruzione, rivelazione e norma ) valida per ogni momento della storia.
Raccontando il passato, il popolo dell'alleanza testimonia chi sia JHWH e come si possa rispondere alla sua azione salvifica.
Il cammino nel deserto verso il possesso della terra diviene così lo spazio simbolico appropriato per illustrare il significato della "legge", da intendersi come 'Torà, cioè insegnamento rivelato: per questo, in Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio sono stati raccolti i vari corpi legislativi che si erano formati in diverse epoche.
L'esperienza dell'Esodo è collocata in due orizzonti: la "promessa" patriarcale ( Gen 12-50 ) e la "premessa" delle origini ( Gen 1-11 ).
Il Dio liberatore, sperimentato nell'esodo e rivelatesi al Sinai come JHWH, è colui che ha adempiuto una storia iniziata con i padri ( Gen 12-50 ) ed è il medesimo che ha creato il mondo e l'umanità ( Gen 1-11 ).
Da qui deriva la struttura principale della Torà.
Il racconto della vicenda dell'Esodo non è quindi "cronaca" del passato, ma testimonianza che identifica il popolo dell'alleanza.
Dio interviene con il suo gesto di salvezza ( l'uscita dall'Egitto ) e conduce il suo popolo verso la mèta ( il cammino del deserto ), ma sta poi al popolo rispondere liberamente alla chiamata rivoltagli da Dio: l'entrata nella Terra Promessa è infatti condizionata alla risposta umana.
Il libro del Deuteronomio ribadisce l'alternativa del possesso-perdita della terra e, più radicalmente, l'alternativa vita-morte, e si chiude prima che Israele abbia varcato il Giordano.
Il possesso della terra è condizionato alla risposta del popolo e quindi non è parte del "passato normativo", ma della storia interpretata profeticamente.
Il disegno attuale della Torà ha dunque senso e non si devono introdurre correttivi: ne staccare il Deuteronomio per riportarlo alla sua originaria funzione di preludio della storia seguente ( come ha proposto M. Noth nella formulazione del Tetrateuco: "quattro libri" ), ne presentare Giosuè come la conclusione dell'Esodo, con la conquista della terra ( come ha proposto G. von Rad con la formulazione dell'Esateuco: "sei libri" ).
La classificazione della storia deuteronomistica tra i profeti è corretta, e non solo perché in questi libri sono raccolte le tradizioni dei primi profeti che non hanno lasciato alcun scritto ( per esempio: Elia, Eliseo, Michea ben Imla ).
Più profondamente si tratta di profezia nel senso autenticamente biblico, secondo cui la profezia è l'interpretazione del presente e della storia.
Il profeta biblico rende percepibile quanto resterebbe oscuro e senza forma, ovvero il dipanarsi del progetto di Dio nella muta storia di ogni tempo.
I profeti biblici sono i "costruttori del tempo" ( A. J. Heschel ) e della storia.
La berit ( alleanza, patto, promessa ), spina dorsale e figura caratteristica del loro messaggio, si dispiega lungo la linearità del tempo, con le sue implicazioni.
Passato, presente e futuro vengono ridisegnati nei loro precisi contorni.
Il passato chiarisce il diverso ruolo dei partner dell'Alleanza, reclama la sua mancata attuazione da parte del popolo e offre la ragione della speranza.
Il presente è interpretato non come allentamento di Dio, ma allontanamento da Dio e fallimento del patto originario a causa del peccato del popolo, ed è illuminato dalla prospettiva del nuovo intervento divino.
Il futuro assume la figura di "nuova alleanza", nella prospettiva di quanto Dio ha già compiuto nel passato e nella confessione del peccato del popolo ( Os 2,16-25; Ger 31,31-34; Ez 36,16-36 e Is 54 ).
Il corpo dei libri profetici, nella certezza che "Dio ha parlato", costruisce quella speranza la cui realizzazione è rimandata ai "giorni che verranno", "al tempo seguente".
Sul fondamento di quanto Dio ha già operato nel passato, si annuncia per il futuro che egli tornerà ad operare in modo nuovo e definitivo: "I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannunzio; prima che spuntino, ve li faccio sentire" ( Is 42,9 ).
È difficile guardare sinteticamente il corpo eterogeneo degli Scritti.
Eppure la dimensione sapienziale, che più di altri caratterizza gli Scritti, conferisce loro un carattere di perenne contemporaneità ( forse anche per questo motivo si ha molta difficoltà a datare con precisione molti di questi libri ).
Mentre la Torà è la narrazione del passato normativo e i Profeti sono l'interpretazione del presente storico alla luce di quella rivelazione/insegnamento, confessata dalla fede, gli Scritti sono la presentazione delle problematiche o delle esperienze dell'uomo di sempre.
La dimensione teologica non viene cancellata o ignorata.
Non si tratta di un discorso secolarizzato.
Dio, però, rimane al di là degli eventi storici e della ricerca dell'uomo.
Anche gli Scritti, pur nella loro frammentaria diversità, rivelano una trama teologica, in grado di ricapitolarli verso un compimento non ancora posseduto.
Rileggendo la creazione e la storia come rivelazione della Sapienza, fanno scaturire più limpido il progetto di Dio sul tempo e sul futuro.
Il progetto di Dio, che è la Sapienza, corre verso il fine.
L'apocalittica ( v. ) è un genere letterario variamente disseminato negli scritti dei profeti a partire da Ezechiele; forma l'ossatura del libro di Daniele ed è reperibile soprattutto tra gli apocrifi del giudaismo del II sec. a.C. - I sec. d.C.
I rabbini non apprezzarono questi scritti, in quanto li considerarono una non necessaria traduzione della Torà in linguaggio mitico: non le aggiungevano nulla e, se avessero aggiunto qualcosa, sarebbero stati nell'errore.
Il concetto della "fine" dei tempi, o meglio del "fine" dei tempi, riassume il nucleo del pensiero apocalittico.
Questo mondo va verso la sua fine a grandi passi; Dio sta per fare la sua irruzione definitiva nella storia, con un atto di vittoria che sarà una nuova e definitiva creazione.
Il termine stesso di apocalisse ( che significa rivelazione ) si comprende alla luce di questa rivelazione del "fine": al sapiente apocalittico è dato cogliere l'intera storia umana come un tutto unitario che procede linearmente ed è ormai prossimo al compimento.
Secondo tale prospettiva, l'apocalittica può essere considerata come il crocevia e il punto sintetico di Torà, Profeti e Scritti, e come il loro "fine".
Essa conferisce all'intera Bibbia un orientamento teologico, cioè indirizzato al futuro e al compimento.
Le poche pagine apocalittiche presenti nella Bibbia sono indispensabili alla sua struttura, perché assicurano che sarà Dio stesso a fare irruzione nella storia degli uomini per portare a compimento il suo progetto di salvezza.
Si è discusso molto se l'apocalittica debba essere vista come l'evoluzione o la degenerazione della profezia, oppure come la conclusione della sapienza.
Si potrebbe sostenere che essa è il punto di fusione della profezia e della sapienza, ma anche della Torà.
Per questa ragione, l'apocalittica ha una posizione di confine nella Bibbia e un posto instabile al suo interno ( Daniele è collocato tra gli Scritti nel canone ebraico, mentre nel canone greco-cristiano si trova tra i Profeti ).
L'apocalittica è la promessa che vi sarà un momento in cui "tutto è compiuto", quel momento che per la prima comunità cristiana si è avuto nella vita, morte e risurrezione di Gesù di Nazaret.
La prima comunità cristiana condivise con il resto del giudaismo la medesima Scrittura ispirata.
Essa comunque assunse un nuovo centro interpretativo: Gesù, le sue parole e i suoi gesti.
La sua Croce e risurrezione diventarono il punto di partenza per spiegare le parole ispirate di Mosè e di tutti i profeti ( Lc 24,27 ).
Sulla confessione di fede che riconosce in Gesù il Cristo salvatore si formarono ben presto raccolte con i detti di Gesù e i suoi miracoli, utilizzate per la liturgia, la predicazione, la catechesi e gli altri ambiti comunitari.
Parallelamente l'attività apostolica itinerante costrinse Paolo a mantenere i contatti con le sue comunità attraverso scritti occasionali, che tuttavia furono da queste conservati e diffusi anche in altre comunità.
La morte dei testimoni oculari suscitò poi il bisogno di una testimonianza autorevole per interpretare correttamente la vita di Gesù.
Nacque così il nuovo genere letterario dei Vangeli: molto diversi da una biografia, eppure orientali a offrire la memoria autentica di Gesù in forma di testimonianza animata dallo Spirito del Risorto ( Gv 20,30s.; Gv 21,24s. ).
Altre opere, come omelie, trattati o riletture apocalittiche, si diffusero fra le comunità cristiane ormai disperse in tutto l'impero romano.
Tali scritti, essendo all'origine della fede nelle diverse comunità, furono oggetto di una venerazione pari alle scritture del Primo Testamento, come ci è attestato nella Prima lettera di papa Clemente I ( 96 ), nell'epistola di Barnaba ( tra il 70 e il 100 ), nella Didachè ( tra il 60 e il 90 ) e nelle Lettere di Ignazio di Antiochia ( m. 107 ).
Ma fino alla crisi aperta da Marcione ( 144 ) gli scritti neotestamentari non furono considerati "canonici".
La posizione di Marcione provocò decise reazioni.
Ireneo di Lione ( verso il 180 ) attribuì ai testi cristiani ispirati e normativi il titolo di "Scritture", sino ad allora riservato agli scritti del Primo Testamento.
Molte Chiese locali cominciarono a redigere propri elenchi di libri ritenuti sacri; tra di essi, va ricordato il famoso Canone Muratoriano ( di attribuzione e data incerta, forse di Ippolito nel sec. II ), che ci è stato tramandato in versione latina da un manoscritto del VII-VIII sec., pubblicato nel 1740 da L. A. Muratori, bibliotecario dell'Ambrosiana di Milano.
Questo elenco non include la Lettera agli Ebrei, le due Lettere di Pietro, la Lettera di Giacomo e la Terza lettera di Giovanni, e pone la Sapienza tra gli scritti del Nuovo Testamento.
Progressivamente, si raggiunse un accordo tra le diverse Chiese, che riconobbero 27 libri "canonici" per il Nuovo Testamento.
L'autorevolezza di Atanasio in Oriente ( 367 ) e il Decreto di Damaso nel Sinodo di Roma del 382, in Occidente, segnarono la fine della lunga discussione.
Dal momento che Lutero aveva attribuito un valore inferiore alla Lettera agli Ebrei, alla Lettera di Giacomo e a quella di Giuda, oltre che all'Apocalisse, ipotizzando un "canone nel canone", il concilio di Trento riaffermò la dottrina secondo cui la Chiesa cattolica ha sempre conservato tutti i libri canonici con uguale pietà e venerazione.
È possibile trovare un senso alla trama dei libri che compongono il Nuovo Testamento.
In qualche modo, infatti, essi ripercorrono il tracciato della Bibbia ebraica.
Lo stesso numero dei libri potrebbe essere di "24", come nella Bibbia ebraica, se le lettere paoline indirizzate alla medesima comunità venissero computate come un solo libro.
I primi cinque libri ( i quattro Vangeli e gli Atti degli apostoli ) sono la testimonianza apostolica sull'evento fondatore: la vita di Gesù di Nazaret e la missione che sgorga dalla sua glorificazione, con la nascita della prima comunità di Gerusalemme e delle diverse Chiese sorte prima dentro e poi fuori del giudaismo, soprattutto per la predicazione di Paolo.
Nel loro insieme, questi cinque libri presentano il passato normativo.
Non a caso, la conclusione degli Atti degli apostoli si apre verso il "presente" di ogni Chiesa, che deve sapere di essere stata generata dall'annunzio apostolico del Regno di Dio e l'insegnamento di quanto riguardava il Signore Gesù ( At 28,31 ).
Seguono le grandi lettere di Paolo.
In analogia ai libri profetici del Primo Testamento, potremmo considerarle l'interpretazione del presente di ogni Chiesa, un'interpretazione alla quale l'apostolo è guidato dalla proclamazione del Crocifisso Risorto e dal dono del suo Spirito.
Sette sono tali lettere, tutte indirizzate a comunità specificamente menzionate, un numero che già il Canone Muratoriano interpretava come simbolo per l'intera Chiesa ( anche Ap 2-3 ).
La terza parte del Nuovo Testamento è la più composita, come gli Scritti nel Primo Testamento.
Vi è anzitutto una sezione di lettere paoline orientale ai regolamenti disciplinari delle comunità ( così ne parla il Canone Muratoriano ): un biglietto di Paolo a Filemone e altre tre lettere ( 1-2 Timoteo, Tito ), che in realtà risalgono a suoi discepoli e hanno preso autorevolezza ponendosi sotto l'autorità del maestro ( le "lettere pastorali" ).
Si hanno poi omelie ( come la Lettera agli ebrei o la Lettera di Giacomo ) o lettere considerate apostoliche, che, come satelliti sparsi, si riunirono a costituire il corpo delle cosiddette "lettere cattoliche".
Da ultimo, simmetricamente a Daniele nel Primo Testamento, vi è il libro dell'Apocalisse.
A differenza dell'apocalittica antica, l'Apocalisse non spinge verso un nuovo evento futuro, ma a ritornare al "centro" attestato dal Nuovo Testamento per interpretare l'intera storia.
In questo senso, l'Apocalisse potrebbe essere considerata la decostruzione di ogni apocalittica, in quanto i suoi simboli esprimono in un'iride infinita di sfumature la medesima convinzione: quanto era promesso ora si è compiuto sul Golgota, ultimo e definitivo Armaghedón ( Ap 16,16s. ).
L'insieme dei libri aggiunti dalla Bibbia cristiana al Primo Testamento non è da intendere come giustapposizione.
Al contrario, vi è un intrinseco e necessario rapporto tra i due corpi di Scritture.
Come si è detto più sopra, il "fine" dell'apocalittica porta il Primo Testamento alla soglia del proprio superamento.
Si attende, si promette, si comprende che la storia conduce fino a quel punto in cui inizierà il "nuovo" per intervento diretto di Dio.
È necessario dunque che la promessa sia seguita dall'annuncio di un evento che dichiari il suo compimento.
L'evento di Gesù - il "centro" del Nuovo Testamento - si presenta esattamente così: "Il tempo è giunto a compimento, il Regno di Dio è qui" ( Mc 1,15 ).
Va compresa in questa luce, la profonda intuizione di s. Agostino, condivisa da tutta la tradizione cristiana: "Il Nuovo Testamento è celato nell'Antico e l'Antico si rende manifesto nel Nuovo" ( Questiones in Heptateucum II, 73, citato anche in Dei verbum, 16 ).
Il rapporto tra Primo e Nuovo Testamento è stabilito all'interno della Bibbia stessa.
Per coloro che hanno accolto la testimonianza apostolica l'evento di Gesù di Nazaret è davvero il "fine" della storia: ciò che era promesso è portato alla sua realizzazione.
Ma anche per il giudaismo, che non accetta la messianicità di Gesù, non viene meno la promessa del Primo Testamento; al contrario, gli ebrei si sentono ancora alla sua ricerca, pronti ad indicarla in un evento futuro.
La fede cristiana non contrappone il Nuovo Testamento all'Antico.
Essa considera unica la rivelazione attestata dalla Scrittura e legge la Torà, i Profeti e gli Scritti antichi alla luce del Nuovo Testamento.
Ciò non significa trovare in essi immediatamente il Vangelo, bensì rispondere alla domanda suscitata da essi con l'adesione alla rivelazione di Cristo, che è una risposta eccedente rispetto alla stessa domanda ( 2 Cor 3,12-16; Eb 12,18-24 ).
Il Primo Testamento è una domanda aperta e un desiderio suscitato ed esige che l'attuazione della promessa coincida con un intervento di Dio: nel momento in cui si chiude come Libro, si rilancia al di fuori e oltre se stesso, verso il compimento e il "fine".
Il Nuovo Testamento è la risposta a tale tensione.
Vi è, al riguardo, un interessante cambiamento di prospettiva all'interno del Nuovo Testamento, registrato nel breve arco cronologico delle prime generazioni cristiane.
Dapprima si colloca l'adempimento della promessa apocalittica al momento della parusia ( v. ) e del ritorno glorioso di Cristo ( parzialmente il discorso apocalittico dei Vangeli sinottici: Mc 13 e paralleli; ma soprattutto 1 Ts 4,13-5,11; 2 Ts 2,1-12 e 1 Cor 15 ).
Progressivamente, la simbolica apocalittica non viene più applicata alla fine dei tempi, ma al "fine" dei tempi realizzato nella morte e risurrezione di Gesù.
La riflessione più matura sta nell'ultimo libro, l'Apocalisse: il Crocifisso Risorto, "l'agnello ritto e sgozzato", è proclamato centro della storia e suo fine, perché in lui si è rivelata l'irruzione definitiva di Dio nella storia umana.
Le Sacre Scritture sono l'universo entro cui la letteratura e l'arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando": questa affermazione del noto saggio Il grande codice di Northrop Frye ( 1981 ) sul rapporto tra Bibbia e letteratura registra un dato di fatto facilmente accessibile a chi perlustri la storia culturale dell'Occidente: per secoli, infatti, la Bibbia è stata l'immenso lessico o repertorio iconografico, ideologico e letterario a cui si è attinto costantemente a livello colto e a livello popolare.
E se Erich Auerbach nella sua famosa Mimesis ( 1946 ) aveva riconosciuto nella Bibbia e nell'Odissea i due modelli cruciali per la nostra cultura.
Nietzsche in Aurora ( 1881 ) ugualmente confessava che "per noi Àbramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca.
Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e di Petrarca c'è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera".
Cercare di delineare questa presenza con la molteplicità delle sue forme, ora ideali ora degenerate, è un'impresa ciclopica, per non dire disperata tanto sterminata risulterebbe ogni catalogazione.
Tuttavia, sulla scia di stimoli provenienti dalla filosofia ( ad esempio, Gadamer ) e dalla teologia ( per esempio, von Balthasar ), si è riconosciuto, per la comprensione della Bibbia, il rilievo rappresentato non solo dall'Autore ma anche dal Lettore, cioè dalla tradizione teologica, spirituale e artistica che dalla Scrittura è stata generata.
Si è, così configurata una ricerca detta di Wirkungsgeschichte, la storia dell'effetto, che verifica lo straordinario influsso e l'irradiazione esercitata dalla Bibbia sull'immaginario e sulla vicenda culturale alta e popolare.
Tanto per fare un esempio potremmo citare una ricerca di Jacob Kremer sulla risurrezione di Lazzaro che, dopo aver approfondito il significato teologico del passo giovanneo ( Gv 11 ), analizza la storia della recezione di questo miracolo con testimonianze desunte dalla letteratura religiosa e profana, dalla liturgia e soprattutto dall'arte ( catacombe, sarcofagi, dittici, codici miniati. Ciotto, Cranach, Rubens, Rembrandt, Redon, van Gogh … ).
Muovendoci sempre su una traiettoria puramente esemplificativa, ci accontenteremo di indicare solo alcuni modelli che cerchino di rappresentare in modo emblematico questo immenso influsso.
Un primo modello potrebbe essere definito come reinterpretativo o attualizzante: si assume il testo o il simbolo biblico e lo si rilegge e incarna all'interno di coordinate storico-culturali nuove e diverse.
Pensiamo alla figura di Giobbe che, dopo esser divenuta per secoli un'immagine del Cristo paziente nell'arte sacra ( per esempio, la Meditazione sulla Passione o il Compianto sul Cristo morto del Carpaccio ), si trasforma in un segno personale nella Ripresa di Kierkegaard, il quale legge in Giobbe la propria esperienza infranta di amore e il tentativo di recuperarla dal passato a opera di Dio.
Scriveva Kierkegaard: "Io non leggo Giobbe con gli occhi come si legge un altro libro, ma lo metto sul cuore …
Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima ".
E. per stare sempre a Kierkegaard. pensiamo al sacrificio di Isacco ( Gen 22 ) così come è letto da lui in Timore e tremore: il terribile e silenzioso cammino di tre giorni affrontato da Abramo verso il monte della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede, segnato dalla luce e dalla tenebra, in cui il credente deve giungere fino alla spogliazione totale di tutti gli appoggi umani, compresi gli affetti e le relazioni fondamentali.
Un esegeta G. von Rad, in una sua opera intitolata Il sacrificio di Isacco, raccoglierà attorno al testo biblico, oltre a quelle di Kierkegaard, le reinterpretazioni attualizzate di Lutero, di Remhrandt e di Kolakovaski. ma già la tradizione giudaica nella 'aqedah, cioè nella "legatura" sacrificale di Isacco sull'altare del monte Moria, aveva visto il mistero della sofferenza del popolo ebraico e si era interrogata sul silenzio di Dio ( in particolare in connessione con la tragica vicenda della shoà per le persecuzioni naziste ).
Potremmo continuare a lungo nella documentazione di questo tipo di rilettura che domina nell'arte sacra, attenta a ricondurre eventi evangelici all'"oggi" della Chiesa: pensiamo alle raffigurazioni popolari, al folclore, ai riti tradizionali che cercano di far rivivere la passione di Cristo o altri momenti della sua esistenza all'interno della quotidianità, delle architetture e delle presenze che popolano l'orizzonte quotidiano.
C'è, però, un altro modello da individuare: esso elabora i dati biblici in modo sconcertante e per questo lo potremmo definire come degenerativo.
Nella stessa storia della teologia e dell'esegesi si sono verificate spesso deviazioni e deformazioni interpretative.
Il testo sacro si trasforma in un pretesto per parlare d'altro ( allegoria ) o persino per ribaltarne il senso originario.
Così accade anche nella storia della cultura.
Prendiamo ancora come emblema il libro di Giobbe.
La tradizione, infatti, ignorando l'altissimo poema che costituisce la sostanza dell'opera, si è attestata quasi esclusivamente sul prologo e sull'epilogo ( Gb 1-2 e 42 ).
Qui Giobbe appare solo come l'uomo paziente che supera la prova ed è alla fine ricompensato da Dio.
In realtà il corpo centrale dell'opera presenta, invece, il dramma della fede posta di fronte al mistero di Dio e del male.
L'approdo di una ricerca lacerata e acre è in quella professione di fede che sigilla realmente l'intero scritto: "Io ti conoscevo per sentito dire; ora i miei occhi ti vedono" ( Gb 42,5 ).
L'arte cristiana, invece, sulla scia di un'interpretazione riduttiva già presente nel Nuovo Testamento ( Lettera di Giacomo 5,11 ) e nei Padri della Chiesa, si accontenterà di un Giobbe collocato sul letamaio, pronto a sopportare le più atroci sofferenze, l'ironia della moglie e la contestazione degli amici, in attesa della liberazione finale.
Ma la "degenerazione" del significato autentico del libro biblico può essere ulteriormente illustrata all'interno dell'enorme ripresa letteraria che la storia di Giobbe ha subito ( da Goethe a Dostojevskij, da Roth a Singer, da Bloch a Camus, da Morselli a Pomilio e altri ).
Esemplare in questo senso è la Risposta a Giobbe di Carl G. Jung ( 1952 ) in cui il celebre sofferente biblico si erge come il simbolo della mortalità e della responsabilità di fronte a un Dio del tutto libero da ogni etica, nella sua onnipotenza e onniscienza.
Cristo sarà colui che, provenendo da Dio ed entrando nell'umanità, riuscirà a imparare la lezione morale di Giobbe e a ergersi contro la durezza "immorale" e l'insondabilità del Padre celeste.
Come è evidente, il testo biblico è ormai solo uno spunto sul quale si intessono nuove trame e nuovi significati e questo accade per molte figure bibliche: sempre per stare nell'ambito psicanalitico, si ricordi l'elaborazione della figura di Mosè e delle origini della religione ebraica compiuta da Sigmund Freud nei tre saggi sull'Uomo Mosè e la religione monoteistica ( 1913 ).
Tuttavia dobbiamo riconoscere che, se è già segno di fecondità e di forza dell'originale biblico anche la lettura deviata, una grandiosa testimonianza di potenza spirituale e culturale la Bibbia la offre quando è fatta trasparire in tutta la sua ricchezza simbolica e teologica.
È per questo che vorremmo parlare di un terzo modello di tipo trasfigurativo.
L'arte riesce spesso a rendere visibili risonanze segrete del testo sacro, a ritrascriverlo in tutta la sua purezza, e far germogliare potenzialità che l'esegesi scientifica solo a fatica conquista e talora del tutto ignora.
E ciò che Paul Klee affermava in senso generale quando della sua Teoria della t'orma e della figurazione scriveva che "l'arte non ripete le cose visibili ma rende visibile ciò che spesso non lo è".
G. Hachelard diceva di Chagall che nei suoi quadri "egli legge la Bibbia e subito i passi biblici diventano luce".
In questo senso ci sembra particolarmente indicativa la grande musica che nel periodo storico che va dal '600 agli inizi dell"800 ha spesso superato le arti figurative nel divenire interprete della Bibbia ( Carissimi, Monteverdi, Schiltz, Pachelbel, Bach, Vivaldi, Buxtehude, Telemann, Couperin, Charpentier, Haendel, Haydn, Mozart, Bruckner ecc. ).
Si immagini solo cosa possa significare un oratorio come Jefte di Carissimi, o il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi, o una Passione secondo Matteo di Bach o, per venire ai nostri giorni, la Passione secondo Luca di Penderecki o i Chichester Psalms di Bemstein.
Per avere un esempio specifico ed essenziale, basterebbe seguire la suprema rilettura che Mozart fa di un salmo letterariamente modesto, il brevissimo Sal 117, caro però a Israele perché proclamava le due virtù fondamentali dell'alleanza che lega Dio al suo popolo, cioè la veritas et misericordia, come dice la versione latina della Volgata usata dal musicista, ovvero "amore e fedeltà", in una traduzione più vicina all'originale ebraico.
Ebbene, il Laudate Dominum in fa minore dei Vespri solenni di un Confessore ( K 339 ) di Mozart riesce a ricreare la carica teologica e spirituale, ebraica e cristiana, del salmo che non saprebbe malfare nessuna esegesi testuale diretta.
Il risultato "trasfigurativo" è proprio, comunque, di tutte le grandi opere d'arte e di letteratura.
Impossibile sarebbe dimostrarlo compiutamente, perché il repertorio da consultare è vastissimo.
Ci accontentiamo di un simbolo, quello del dito efficace di Dio, spesso celebrato dalla Bibbia.
Ebbene, tutta la storia, la missione, la figura e la grandezza del Battista sono racchiusi in quell'indice poderoso puntato verso il Crocifisso che Matthias Griifievouid ha dipinto nell'Altare di Isenheim del Museo di Colmar.
Tutto il mistero dell'atto creativo descritto nel libro della Genesi è nell'indice "imperativo" del Creatore michelangiolesco che sveglia all'essere l'indice assopito di Adamo.
E tutta la rivoluzione che si crea nella vita del pubblicano Levi è nella citazione che Caravaggio fa di Michelangelo in quell'indice che Cristo punta sul futuro apostolo Matteo, nella celebre tela di S. Luigi dei Francesi a Roma.
L'arte e le varie espressioni culturali possono, quindi, rivelarsi ripetutamente animate dall'immaginario e dall'ideologia biblica.
Contemporaneamente la tradizione culturale diventa chiave di interpretazione - ora libera, ora corretta, ora deviata - della stessa Scrittura tant'è vero che un teologo come Marie-Dominique Chenu nel suo volume sulla Teologia nel Medioevo confessava: "Se dovessi rifare quest'opera darei un'attenzione molto maggiore alla storia delle arti, sia letterarie sia plastiche, perché esse non sono soltanto delle illustrazioni estetiche ma dei veri luoghi teologici".
Tutto questo è giustificato anche dal fatto che di sua natura la Bibbia, pur essendo un testo teologico nella sua finalità ultima, è anche un'opera letteraria, dotata di una sua straordinaria forza espressiva.
Essa si manifesta in forme molteplici ma soprattutto ha una via privilegiata di formulazione proprio nel simbolo.
Thomas S. Eliot parlava dei Salmi come di un "giardino di simboli" ma questa definizione può essere estesa a molti scritti biblici ( si pensi solo a Giobbe, al Cantico dei cantici e all'Apocalisse ).
Per la storia della cultura alta e popolare dell'Occidente fondamentali sono stati quei simboli narrati che sono le parabole di Gesù.
Il seme, i campi, le cene nuziali, i figli difficili, i portieri notturni, i ricchi beceri ed egoisti, le vittime degli assalti e i soccorritori, le vigne e i contadini, i gigli del campo, il fico, i cani randagi, i passeri, il tarlo e la ruggine, gli avvoltoi, i pesci, il sole e la pioggia e così via diventano segni indimenticabili di un messaggio costantemente ripreso, trascritto, esaltato e anche deformato da sempre attraverso quello straordinario apparato immaginifico.
Per la Bibbia è possibile dire Dio in modo figurativo, informa letteraria bella e in linguaggio giusto.
Attraverso il simbolo si respinge un'ineffabilità e un aniconismo che ha colpito alcune religioni, almeno in certi ambiti: pensiamo alla proibizione delle immagini nell'ebraismo e nell'islam.
Un atteggiamento che ha lambito anche il cristianesimo nel periodo dell'iconoclastia o in qualche fase della Riforma protestante.
Il simbolo, però, permette anche di rigettare la rappresentazione idolatrica che spesso è condannata dalla Bibbia e che è talora affiorata anche nella storia successiva.
Il linguaggio simbolico e ciò che esso genera a livello artistico permette di conservare in equilibrio il mistero, l'Altro e l'Oltre di Dio con la sua rivelazione, la sua affabilità, il suo comunicarsi storico all'umanità.
Con la sua ricchezza simbolica la Bibbia è stata "il grande codice" della cultura e dell'immaginario popolare, ma è stata anche la presentazione di una fede che unisce in sé trascendenza e immanenza.
L'arte ha cercato di cogliere la "carnalità", cioè la storicità di quella rivelazione, ora esaltandola, ora trasformandola, ma ha anche saputo quasi sempre salvaguardarne la dimensione di segno, di mistero, di infinito e di eterno.
È ciò che può essere illustrato attraverso un genere particolare dell'arte orientale cristiana, quello dell'icona, così come ce la presenta Pavei Florenskij: "L'oro barbaro e pesante delle icone, in sé futile alla luce del giorno, si anima con la luce tremolante di una lampada o di una candela in una chiesa, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste".
Arte e fede in questo senso s'incontrano.
Le figure dell'icona e i loro fondi dorati sono terreni ma riverberano il divino e immettono in un'esperienza paradisiaca.
La parola greca significa « i libri », e designa la raccolta dei libri sacri al Giudaismo ( i libri dell'AT ) e al Cristianesimo ( i libri dell'AT e del NT ).
I libri della Bibbia cattolica sono 73, mentre i protestanti non considerano come parte del canone della Bibbia alcuni libri dell'AT ( detti deuterocanonici ) che sono del III-II secolo a.C., libri non compresi nella Bibbia ebraica, scritti in aramaico e in greco, e tradotti e così fissati nella traduzione greca detta dei Settanta (LXX). ( v. Scrittura ).
Nel N. T. col termine « Bibbia » si indica l'insieme dei libri sacri degli ebrei, da noi conosciuti come « Antico Testamento » | 2 Cor 3,14 |
Ci sono poi altri nomi per indicarlo: la Parola di Dio ( o Torah, cioè insegnamento o « legge di Mosè » ) e i profeti ( Mt 5,17; Mt 7,12; Lc 2,22; Lc 24,44; At 13,15; At 28,23 ): i libri santi ( Rm 1,2; 2 Tm 3,15 ). | |
Oggi la Bibbia si intende l'insieme dell'Antico e del Nuovo Testamento | |
Schedario temi bibblici |
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Magistero |
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Commissione Biblica | 13-5-1950 |
Modo di bene insegnare la Sacra Scrittura | |
Commissione Biblica | 15-4-1993 |
Interpretazione della Bibbia nella Chiesa | |
Commissione Biblica | 12-2-2002 |
Il popolo Ebraico e le sue sante Scritture nella Bibbia Cristiana | |
Commissione Biblica | 22-2-2014 |
Ispirazione e verità della Sacra Scrittura | |
Catechismo della Chiesa Cattolica |
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L'alleanza con Noè | 58 |
La Liturgia delle Ore | 1176 |
v. Sacra scrittura |