Religione e culto, santuari e feste nell'antico Israele

a) La caratteristica essenziale dell'unione di tribù che ebbe nome Israele dev'essere stata la venerazione di una divinità comune.

È quanto già indica il termine «Israele», che risulta composto da una forma verbale dell'imperfetto e dal nome di una divinità di Canaan, El, il dio supremo del pantheon cananeo: esso significa, verosimilmente, « El combatte ».

Il fatto che il termine Israele contenga il nome proprio del dio El ci porta a concludere che in uno stadio precedente della storia d'Israele, non Yahweh ma El era il dio di questa unione, e che le tribù che la costituivano erano tenute insieme dalla comune venerazione di questo dio.

È quanto indica anche la locuzione caratteristica «El, il Dio d'Israele» ( Gen 33,20 ).

Ciò è inoltre confermato dal fatto che, dopo la conquista di Canaan, alcune tribù israelitiche presero possesso di luoghi di culto cananei in cui era venerato il dio El, da cui questi prendevano nome ( Betel, Penuel ).

Il dio dei padri, che tali gruppi adoravano prima della Conquista, venne identificato con El, il dio di quei santuari, e i racconti sacri di tali luoghi di culto vennero riferiti al dio dei padri ( Betel: Gen 28; Penuel: Gen 32; anche la locuzione «El, il Dio di tuo padre», Gen 46,3, in cui l'identificazione di El col dio dei padri è completa ).

Forse bisogna prendere in considerazione anche la possibilità che, per un certo periodo, le divinità El siano state venerate accanto alle divinità dei padri, e che siano state identificate con queste solo in un secondo tempo.

b) Alla locuzione «El, il Dio d'Israele» si contrappone la formula «Yahweh, il Dio d'Israele» ( Gdc 5,3.5 ), cui corrisponde l'appellativo, riferito a Israele, di «popolo di Yahweh» ( Gdc 5,11.13 ).

Mentre da un lato il nome «Israele» e la formula «El, il Dio d'Israele» costituscono altrettante prove del fatto che vi fu un tempo in cui El era il Dio dell'unione delle tribù israelitiche, dall'altro le espressioni «Yahweh, il Dio d'Israele» e «Israele, il popolo di Yahweh», che troviamo per la prima volta insieme nel canto di Debora, ci rivelano che le tribù d'Israele erano legate dalla comune venerazione di Yahweh, e che tale culto rappresentava la caratteristica costitutiva di questa unione di tribù.

Il racconto dell'«assemblea di Sichem» ( Gs 24 ) narra come l'efraimita Giosué avesse impegnato le tribù d'Israele riunite nel santuario di Sichem al ripudio delle divinità straniere e all'adorazione esclusiva di Yahweh.

Tale fatto ci consente di desumere che le tribù di Rachele svolsero un ruolo decisivo nell'imporsi, in Israele, della fede in Yahweh.

Se è vero che gli appartenenti alle tribù di Rachele erano depositari della tradizione dell'Esodo, si può supporre che essi venerassero Yahweh già prima della conquista di Canaan, e che gli eventi dell'uscita dall'Egitto e del salvataggio presso il mare fossero sperimentati come azioni salvifiche di Yahweh, e come tali testimoniate.

Quando le tribù di Rachele giunsero in Canaan, le tribù di Simeone e di Levi, discendenti da Lia, avevano subito una dura sconfitta ed erano state scacciate dalla Palestina centrale, dove avevano la loro sede.

Tale disfatta è da attribuire o ad un'incursione egiziana, di cui da notizia la Stele di Merneptah, o ad un conflitto dall'esito sfavorevole con i Cananei.

È comprensibile che in questa situazione l'annuncio che Yahweh aveva liberato un gruppo di seminomadi dalla servitù dell'Egitto e li aveva salvati da un reparto di carri egiziani lanciato al loro inseguimento, trovasse accoglienza presso le tribù di Lia.

Si poteva sperare che il dio che aveva sconfitto i carri da guerra egiziani potesse offrire un aiuto anche contro i fortissimi reparti di carri delle città-stato cananee.

È inoltre probabile che le tribù di Lia conoscessero Yahweh già prima di entrare in contatto con le tribù di Rachele, e che avessero conosciuto Yahweh, il Dio che viene dal Sinai, nell'epoca anteriore all'abbandono del nomadismo; che, forse, avessero addirittura preso parte ad un pellegrinaggio al Sinai.

È inoltre possibile che nell'epoca precedente la conquista di Canaan esse adorassero Yahweh accanto al Dio dei padri e, dopo che si furono insediate in Palestina, continuassero a venerare accanto al dio El, che diede nome a Israele, sia Yahweh sia il Dio dei padri.

In base a questo presupposto si capirebbe molto meglio come, dopo la conquista di una propria sede da parte delle tribù di Rachele, si sia costituita un'unione fra queste e le tribù di Lia.

Ciò che univa queste tribù le distingueva al tempo stesso dai Cananei: entrambi i gruppi erano legati, a differenza di questi ultimi, dal loro passato di seminomadi e dall'appartenenza al movimento migratorio arameo; essi, inoltre, a differenza degli altri popoli ararnei e dei Cananei, conoscevano il Dio Yahweh.

Dopo la fusione delle tribù discendenti da Rachele con quelle discendenti da Lia, il nome Israele, che qualificava in un primo tempo soltanto l'insieme delle tribù di Lia, passò ad indicare l'intera unione delle tribù.

El, il Dio delle sei tribù di Lia, venne identificato con Yahweh, il Dio del Sinai che aveva tratto dall'Egitto, liberandole dalla servitù, le tribù discendenti da Rachele.

Israele, d'ora in poi costituito dalle tribù di Lia e di Rachele, divenne «popolo di Yahweh» e Yahweh «Dio d'Israele».

Questa è la situazione già presupposta nel canto di Debora.

c) Il fatto che le tribù d'Israele siano riunite nel nome di «popolo» non deve assolutamente far pensare all'esistenza di un qualche organismo statale posto sotto una guida unitaria.

La denominazione più precisa di «popolo di Yahweh» indica piuttosto che la caratteristica essenziale di questa comunità di tribù era la venerazione del Dio Yahweh e il comune legame con questa divinità.

Il nome stesso di Israele poté conservarsi per il fatto che El e Yahweh erano stati identificati.

Attraverso poi la comune fede in Yahweh, l'unione di tribù che avrebbe in seguito costituito Israele acquistò la sua fisionomia caratteristica.

d) Non è più possibile chiarire con sicurezza l'etimologia del nome Yahweh.

Israele ha fatto derivare tale nome dal verbo ebraico «haja» ( aramaico hawa ), «essere», «manifestarsi», «essere presente», e ne ha dato l'interpretazione seguente: «Io, il Presente, sono presente ( oppure: sarò presente )» ( Es 3,14 ).

Ciò significa che Yahweh, nel manifestare il suo nome, ha promesso a Israele, ora e per il futuro, la sua presenza e il suo aiuto.

La grazia e la benevolenza di Yahweh, connesse con l'annuncio del suo nome, sono espresse in un'altra etimologia che sta alla base di Es 34,19: «Io, colui che ha misericordia, avrò misericordia».

e) Caratteristiche essenziali e inconfondibili della fede in Yahweh sono l'esclusività del suo culto, il divieto, che esso impone, di far uso di immagini, nonché la sua connessione con la storia e il rapporto con un gruppo di uomini.

I due comandamenti fondamentali della fede in Yahweh, «Non avrai altri dei accanto a me!» ( Es 20,3 ) e «Non ti farai nessuna immagine!» ( Es 20,4 ), non hanno paralleli nell'intera storia delle religioni dell'antico Oriente.

Mentre nel mondo circostante la venerazione di più divinità era ritenuta indispensabile, dal momento che ognuna di esse era competente solamente per un ambito determinato della realtà, Yahweh esige una venerazione da non dividersi con altri dei; egli, infatti, si è dato a Israele interamente: l'assolutezza della sua pretesa è fondata sulla totalità della sua offerta di sé.

Il comandamento dell'esclusività implica poi, in ultima analisi, la fede nell'universalità di Yahweh: una venerazione esclusiva era possibile, infatti, soltanto nel caso che egli fosse competente per tutte le sfere della vita e che lui soltanto fosse in grado di dare a Israele ciò che gli altri popoli speravano di ottenere da più divinità.

Mentre nelle religioni dei popoli circostanti la presenza della divinità si rendeva manifesta nell'immagine cultuale, in Israele era proibita qualsiasi immagine divina.

L'assenza di immagini dal culto divino ha forse la sua origine, già all'epoca del nomadismo, nella venerazione delle divinità dei padri.

Manifestando il suo nome, Yahweh ha promesso a Israele la sua presenza benevola e soccorritrice; col divieto di fare immagini e di abusare del suo nome ( Es 20,7 ) Yahweh si sottrae a qualunque manipolazione e strumentalizzazione da parte dell'uomo.

f) Una connotazione essenziale del Dio d'Israele è il suo potere sulla storia.

La connessione con la storia, caratteristica della fede in Yahweh, trova già espressione nel fatto che larghe parti della tradizione d'Israele hanno come contenuto l'azione di Dio nella storia.

Le sue più antiche tradizioni poetiche, vale a dire il cosiddetto canto di Maria ( Es 15,21 ), il canto di Debora ( Gdc 5 ) e le tradizioni narrative che vennero a costituire la base delle fonti del Pentateuco ( cioè le tradizioni dei patriarchi, dell'Esodo e della Conquista ), nonché i racconti dei capi carismatici del periodo prestatale, i cosiddetti giudici, danno notizia dell'intervento di Yahweh a favore d'Israele nell'ambito della storia.

g) Nell'epoca prestatale ebbe luogo una prima elaborazione e un primo intreccio delle tradizioni che costituirono il fondamento della fede in Yahweh e dell'autocoscienza d'Israele.

Nel corso del processo di formazione della tradizione, avvenimenti che avevano visto protagonisti singoli gruppi vennero riferiti alla totalità delle tribù.

I diversi ceppi della tradizione, dei patriarchi, dell'Esodo, del Sinai e della Conquista, restarono per qualche tempo l'uno accanto all'altro senza collegamento; furono quindi tramandati separatamente, probabilmente nella cornice di differenti celebrazioni cultuali, e poi intrecciati l'uno con l'altro, in diverse fasi, nel corso del processo di formazione della tradizione.

Per prime vennero collegate fra loro le tradizioni dell'Esodo e della Conquista: questo stadio della tradizione è fissato nella professione di fede di Dt 6,21-23; in seguito venne aggiunta la tradizione dei patriarchi: questo stadio è fissato in Dt 26,5-10; Gs 24,2-13; Sal 104; per finire, fra la tradizione dell'Esodo e quella della Conquista venne inserita la tradizione del Sinai.

Questo intreccio di tradizioni diverse ebbe conseguenze teologiche di vasta portata.

In seguito alla fusione delle tradizioni dell'Esodo e della Conquista, questa venne a costituire la meta finale di quello; in seguito alla fusione avvenuta fra le tradizioni dei padri e quelle dell'Esodo e della Conquista, il Dio dei padri divenne il Dio dell'Esodo e della Conquista, mentre Esodo e Conquista furono collocati entro il grande arco teso fra promessa e compimento: l'uscita dall'Egitto e la conquista di Canaan rappresentarono il compimento delle promesse che erano state fatte ai padri.

L'inserimento delle tradizioni del Sinai nella tradizione dell'Esodo e della Conquista ebbe come conseguenza che il culto celebrato sul Sinai divenne un «evento accaduto una sola volta» durante il cammino dall'Esodo alla conquista della terra promessa.

Con l'evento dell'Esodo, Yahweh, il Dio del Sinai, acquistò dimensioni storiche; per la connessione con le tradizioni dei padri il legame con un gruppo di uomini prese il posto del legame con un luogo: Yahweh, il Dio del Sinai, divenne il Dio d'Israele.

h) Solo in un secondo tempo, nello stadio della tradizione scritta, raccolte di norme giuridiche di differente ampiezza vennero inserite nei racconti relativi al Sinai contenuti nelle fonti scritte: il «libro del patto» ( Es 20,22-23,19 ) e il «decalogo cultuale» ( Es 34,14-26 ) nel jahvista, il «decalogo etico» ( Es 20,1-17 ) nell'elohista.

Con l'inserimento nella tradizione del Sinai, la proclamazione delle leggi venne collocata, accanto all'Esodo e alla conquista di Canaam, nell'ambito dell'azione salvifica di Yahweh.

Ciò è importante per la comprensione della Legge nell'antico Israele: non l'osservanza di prescrizioni rappresenta il presupposto dell'iniziativa di grazia di Yahweh: è anzi proprio tale iniziativa di grazia, resasi manifesta nell'evento dell'Esodo, a costituire il presupposto della Legge.

Non sono le leggi ad instaurare un rapporto fra uomo e Dio: esse, piuttosto, salvaguardano un rapporto già esistente.

Nel Libro del patto ( Es 20,22-25,19 ), la più antica raccolta di leggi dell'Antico Testamento, sono riunite differenti tradizioni giuridiche che risalgono all'epoca prestatale.

Una parte dei principi giuridici ivi raccolti è redatta in stile casistico, una parte in stile apodittico.

I principi giuridici formulati casisticamente costituivano la base delle sentenze: in una protasi introdotta da «se...» è citato un caso giuridico, e in un'apodosi introdotta da «in tal caso...» o «allora...» è espressa la conseguenza giuridica; per esempio: «Se qualcuno ruba un bue o una pecora, e li ammazza o li vende, in tal caso restituirà cinque buoi per ogni bue e quattro pecore per ogni pecora» ( Es 21,37 ).

Il diritto casistico presenta numerose analogie, sia dal punto di vista formale che contenutistico, con altre raccolte di leggi dell'antico Oriente, come ad esempio il noto codice di Hammurabi, chiaramente mutuate dai Cananei.

In Israele, naturalmente, il diritto casistico subì, per alcuni aspetti, una rielaborazione caratteristica: mentre per esempio negli stati vicini vigeva, per ciascuna delle diverse classi sociali prodotte dal sistema feudale, un differente stato giuridico, in Israele tutti i membri delle tribù erano uguali di fronte alla legge.

Il «diritto apodittico» ha la forma di un decreto perentorio che si esprime in divieti per lo più brevi, detti proibitivi, ed è costituito da serie di norme, anch'esse generalmente brevi, di identica struttura; per esempio: «Non uccidere! Non commettere adulterio! Non rubare!» ( Es 20,13-15 ).

Nel Decalogo, i «dieci comandamenti» ( Es 20,1-17; Dt 5,6-21 ), che nella sua totalità non risale certamente oltre il tardo periodo precedente l'esilio, sono raccolte parti di più antiche norme giuridiche, di carattere apodittico, variamente costruite.

Il diritto apodittico respinge e condanna quelle mancanze che sono incompatibili con l'alleanza stretta da Yahweh con Israele, per esempio: venerazione di divinità straniere, idolatria, abuso del nome di Yahweh, violazione del sabato, assassinio, maledizione degli antenati, trasgressione della Legge, adulterio, sequestro di persona, spergiuro.

Questi divieti delimitano lo spazio entro il quale è possibile la vita con Yahweh, e segnano i limiti oltre i quali Israele incorre nella maledizione e nella morte.

Alcuni indizi fanno ritenere che sequenze di leggi apodittiche erano annunciate nel tempio in occasione di solennità ( Sal 49,4-7; Sal 80,9-11 ).

Le maledizioni di Dt 27,15-26 ( in origine dieci versetti, più tardi portati a dodici, e quindi chiamati «dodecalogo», «dodici comandamenti» ) ci consentono di argomentare l'esistenza di una cerimonia liturgica nel corso della quale determinate colpe particolarmente gravi, tali da minacciare la vita della comunità, erano colpite dalla maledizione, per esempio: «Maledetto chi maltratta il padre e la madre! Tutto il popolo dirà: 'Amen'».

Nel caso che fosse trasgredito uno dei comandamenti fondamentali, l'intera comunità era colpita dalla maledizione: essa, perciò, doveva eliminare il colpevole mediante lapidazione.

Le colpe che perciò sono riprovate nel decalogo e nel dodecalogo sono colpite dalla maledizione, vengono condannate in una serie ulteriore ( Es 21,12.15-17; Es 22,18; per esempio: «Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte»).

La concezione fondamentale secondo cui un grave misfatto rappresenta una minaccia per l'intera comunità delle tribù, e dev'essere perciò punito dalla comunità tutta, sta alla base del racconto dell'infamia di Gabaa ( Gdc 19-20 ), in cui si narra come la moglie di un levita, trovandosi in viaggio col marito, fosse violentata dagli abitanti della città beniaminita di Gabaa e morisse in seguito alle violenze subite.

Da tale «infamia» tutto Israele è minacciato: l'adunanza delle tribù convocata a Mizpa deve perciò esigere la morte dei colpevoli, «per cancellare il male da Israele» ( Gdc 20,13 ).

Allorché i Beniaminiti si rifiutarono di consegnare i colpevoli e anzi si radunarono dinanzi alle porte di Gabaa a difesa della città, rendendosi in tal modo complici del misfatto, ci fu, da parte di tutte le tribù, una spedizione punitiva contro Beniamino allo scopo di punire il delitto.

i) Per la vita cultuale delle tribù e per la trasmissione delle tradizioni erano di particolare importanza i santuari.

All'inizio della storia di Israele vi erano, manifestamente, molti santuari locali, alcuni dei quali, per i culti che vi erano praticati e le tradizioni che vi erano tramandate, acquistarono un'importanza sovraregionale.

I luoghi di culto di Sichem e Betel nella Palestina centrale, nonché quelli di Penuel e Macanaim in Transgiordania, erano legati alla tradizione di Giacobbe; il santuario dell'albero di Mamre, presso Ebron, era il centro della tradizione di Abramo, mentre il santuario del pozzo di Bersabea era il centro della tradizione di Isacco.

Al santuario di Galgala si collegavano le tradizioni della conquista di Canaan: vi si commemorava nel culto il passaggio del Giordano e, in connessione con esso, l'uscita dall'Egitto.

Il canto di Debora ci consente di apprendere che le tribù ivi citate convenivano regolarmente a feste cultuali che si celebravano sul monte Tabor per commemorare quella prima vittoria sui reparti di carri da guerra cananei.

L'arredo dei santuari era molto semplice: in ogni caso doveva essere un altare.

Soltanto per Silo è attestato un edificio stabile ( 1 Sam 3,3.21; Ger 7,12 ), mentre per gli altri santuari si dovrà ammettere che il culto aveva luogo all'aperto, per lo più sopra un'altura, da cui la designazione, che ricorre spesso nell'Antico Testamento, di «santuario dell'altura» ( 1 Sam 9,12-14; 1 Sam 10,13; 1 Re 3,4 ).

Il santuario di Bersabea sorgeva presso un pozzo, quelli di Sichem e di Mamre presso terebinti.

A Betel si trovava una «massebah», ossia una stele in pietra: originariamente considerata, in epoca cananea, il simbolo di una divinità, più tardi il seggio del dio, essa venne interpretata in seguito da Israele come monumento alle imprese di Yahweh.

L'unzione di questa pietra fa parte, a quanto sembra, degli usi cultuali di Betel ( Gen 28,18.22 ).

Sotto al terebinto di Sichem veniva praticata l'usanza cultuale del sotterramento delle immagini divine e degli arredi sacri: nell'area cananea questo rito comprendeva o un sotterramento rituale e solenne di vecchi oggetti cultuali o di offerte votive deposte come pegno.

In Israele tale usanza venne intesa come ripudio di divinità straniere, come una specie di rito di rinnegamento ( Gen 35,2.4 ).

j ) Il tempio di Silo era la sede dell'arca.

L'arca, la cui origine è certamente da ricercare nel Kulturland, era affidata a una casta sacerdotale ereditaria, gli Elidi: si trattava di una cassa munita di stanghe per il trasporto, che va senz'altro interpretata come base portatile di un invisibile trono divino.

In Israele il divieto di fare immagini giungeva al punto che non veniva rappresentato neppure il trono di Yahweh, che troppo facilmente poteva essere inteso come simbolo della divinità.

Dai salmi Sal 131 e Sal 24 apprendiamo che l'arca era usata come oggetto di culto da portare in processione.

Solo in un secondo tempo venne collegato con essa il nome divino «Yahweh Sebà'òt» ( 1 Sam 4,4; 2 Sam 6,2 ), cioè il Dio «degli eserciti» che entra in guerra per il suo popolo ( Sal 24,8-10 ).

Dalla locuzione «Yahweh, che troneggia sui Cherubini», trascritta sull'arca in uno stadio ancor più recente, apprendiamo che ci si rappresentava il trono invisibile poggiante sull'arca come un trono di Cherubini, il cui seggio era trasportato da esseri volanti con corpo di animali e volto umano.

In ogni caso è del tutto evidente che le tradizioni riguardanti l'arca, a partire dall'epoca prestatale, sono collegate esclusivamente coi luoghi di culto che sorgono nei territori delle tribù di Rachele.

Ciò ci permette di concludere che l'arca era, in origine, il santuario delle tribù che discendevano da Rachele.

Solo verso la fine dell'epoca statale, quando le tribù israelitiche intrapresero azioni comuni nella guerra contro i Filistei, l'arca, che era collegata in origine con Yahweh Sebà'ót, il Dio che entra in guerra a favore del suo popolo, acquistò un'importanza che superava i confini regionali e forse si estendeva addirittura a tutto Israele.

k) Nell'antico Israele il diritto di celebrare azioni cultuali non era affatto riservato al sacerdote.

I racconti dei Giudici presuppongono che il rito sacrificale non era legato al santuario, ma era affidato a ogni uomo libero, in particolare al padre di famiglia ( Gdc 6,19; Gdc 13,19ss.; 1 Sam 2,13; 1 Sam 9,13 ).

Compito del sacerdote era benedire il sacrificio, decidere circa la sua validità e stabilire che cosa dovesse considerarsi puro e cosa impuro ( Lv 1 ss.; Lv 13,8-28; Lv 19,7 ).

I sacerdoti erano anche custodi di tradizioni sacre e giuridiche, e spettava loro, di conseguenza, impartire istruzioni e ammaestramenti su questioni cultuali, etiche e giuridiche ( Os 4,1 s. ).

Quando si trovavano di fronte a casi giuridici insolubili essi si appellavano al giudizio di Dio ( Dt 17,8-13 ) o vigilavano sul compimento delle cerimonie nel giuramento di purificazione ( Nm 5,12 ss. ).

A chi chiedeva aiuto, e presso il santuario, alla presenza di Yahweh, esprimeva in lamentazioni il suo bisogno invocando l'aiuto divino, il sacerdote prometteva che sarebbe stato esaudito ( 1 Sam 7,17 ).

Da 1 Sam 2-4 si rileva che il servizio al santuario di Silo era esercitato da una casta sacerdotale ereditaria.

l) I santuari erano meta, in particolare, di tre grandi feste di pellegrinaggio.

Il calendario delle feste ( Es 23,14-17; le più recenti redazioni di Dt 16 e Lv 23 ) stabilisce che ogni israelita maschio «veda il volto di Yahweh», si rechi cioè in visita al luogo di culto, tre volte all'anno.

Pellegrinaggi regolari al santuario sono presupposti in 1 Sam 1,3 ss. ( v. anche Gdc 21,19 ).

Le tre feste di pellegrinaggio sono di origine cananea: si trattava di feste agricole che venivano celebrate anche presso i Cananei: Gdc 9,27, ad esempio, presuppone l'esistenza, presso i Cananei, di una festa del raccolto.

All'inizio del raccolto dell'orzo, in primavera, era celebrata la festa delle «massót» ( «festa del pane azzimo» ), nel corso della quale si mangiava pane non lievitato.

Nella «festa della mietitura», alla fine del raccolto del grano, venivano presentate le primizie dei frutti dei campi.

Il culmine e la conclusione dell'anno erano infine segnati dalla «festa della vendemmia», celebrata in autunno alla fine del raccolto delle olive, dei fichi e dell'uva.

Mentre presso i Cananei si trattava di semplici feste del raccolto, in Israele bisogna notare, nel corso dei secoli, una loro progressiva «storicizzazione».

In esse non si celebravano soltanto i momenti salienti della stagione agricola, ma si commemoravano anche i grandi eventi della storia della salvezza, cioè l'uscita dall'Egitto e la conquista di Canaan.

Già in un'aggiunta all'antico calendario festivo il termine della festa degli azzimi viene motivato col fatto che Israele era uscito dall'Egitto nel mese di abib ( Es 23,15 ); il Deuteronomio spiega l'uso di mangiare le «massót» col fatto che gli Israeliti uscirono dall'Egitto «in fretta» ( Dt 16,3 ), e non ebbero perciò il tempo di far lievitare la pasta.

Nel corso della festa della mietitura, al momento dell'offerta delle primizie, l'israelita doveva fare una professione di fede che secondo Dt 26,5-9 aveva come contenuto le azioni salvifiche operate da Dio in occasione dell'Esodo e della Conquista.

Tale offerta intendeva esprimere che Yahweh, da cui Israele ha ricevuto la terra di Canaan, è anche il datore dei buoni frutti del Kulturland.

La festa della vendemmia viene indicata nel calendario festivo del Deuteronomio come «festa delle capanne» ( Dt 16,13.16 ); in Lv 23,42-43 la prescrizione di abitare per sette giorni in capanne, in occasione di tale festa, viene motivata col fatto che durante l'Esodo gli Israeliti avevano abitato in capanne di frasche.

Mentre le tre feste di pellegrinaggio sopra citate erano celebrate nel santuario e avevano la loro origine nel Kulturland, il rito pasquale risale all'epoca nomade: dopo l'insediamento in Palestina esso veniva celebrato nelle case, all'interno dei clan.

In tale occasione veniva sgozzato un agnello, il sangue dell'animale era sparso sulla soglia e sugli stipiti della porta, e la carne consumata da quanti prendevano parte al culto.

Anche questo rituale venne già per tempo collegato, in Israele, con l'evento dell'Esodo, e interpretato come misura di protezione contro l'«angelo sterminatore» che si aggirava per colpire i primogeniti dell'Egitto ( Es 12 ).

Celebrando i riti che commemoravano l'evento dell'Esodo ( Es 12,13 ), ci si collocava all'interno di questo avvenimento.

Nella cornice della centralizzazione deuteronomica del culto, risalente al tempo del re Giosia, la Pasqua venne collegata con la festa delle «massót», il cui termine coincideva con quello della Pasqua, e si trasformò in una festa di pellegrinaggio celebrata presso un santuario centrale ( Dt 16,1-8 ).