Summa Teologica - II-II |
1 - Ecco una parola stracarica di significato, che ha sentito forse più di ogni altra il logorio dell'uso.
Nell'uso toscano corrente il termine carità è ridotto a significare una delle forme più spicciole e sbrigative di esercitare uno dei suoi atti, che è elemosina.
Speriamo che il progressivo rimarginarsi della mendicità porti a una riabilitazione di questa voce, è insostituibile nel dizionario teologico, per indicare la regina di tutte le virtù: l'amore soprannaturale verso Dio e l'amore del prossimo per amor di Dio.
Il dizionario latino si era già arricchito di questa voce prima della predicazione del Vangelo.
Infatti, sebbene si sia insistito lungo tempo sull'etimologia greca di questo nome, facendolo derivare da Charis ( grazia, benevolenza ) e scrivendolo col iniziale, è assai più fondata l'etimologia dall'aggettivo carus ( prezioso, pregevole, raro ).
Il termine greco corrispondente è invece agàpe che è un neomo ellenista dal verbo agapàn, che significa accogliere benevolmente.
Il greco classico per indicare l'amore aveva termini, quali èros e filìa.
Ma nell'uso dell'epoca ellenistica il primo era praticamente riservato all'amore sessuale.
E in tal senso viene usato dalla Scrittura nella versione dei Settanta.
Il secondo sta a indicare un amore, sia di ordine profano, che di carattere religioso.
I Settanta lo usano in entrambi i significati.
Nel Nuovo Testamento èros non viene mai usato; mentre il termine agàpe vi si riscontra ben 112 volte.
Ma torniamo al termine latino Caritas, il quale con ogni probabilità indica nel suo significato etimologico quello che S. Tommaso riscontrerà essere il primo atto di questa virtù: la dilectio, cioè l'amore cosciente e volontario di chi si volge a una cosa o a una persona, scegliendola o accettandola deliberatamente ( q. 27 ).
2 - In italiano ci troviamo piuttosto in difficoltà per esprimere con un verbo solo il diligere, che è il primo atto dell'amore di carità.
Siamo costretti a ricorrere al generico amare; perché diligere nella sua forma semplice è escluso dal dizionario dei prosatori moderni.
Solo i poeti ormai se lo possono permettere nel suo significato originario.
Prediligere invece, che in qualche modo lo ha soppiantato, implica una preferenza a favore di una persona, la quale emerge così da una pluralità di soggetti anch'essi amati ed amabili.
Ma la dilectio caritatis non può concepirsi in questo modo, data l'universalità di questa virtù cristiana, nel suo atto primordiale che abbraccia necessariamente Dio e tutti coloro che amiamo in Dio.
Lo stesso si dica del termine predilezione.
- Fu questo uno di quei casi in cui l'opera del traduttore minaccia di trasformarsi in un tradimento.
3 - Tre sole sono le fonti veramente importanti delle undici questioni da noi presentate in questo volume: la Sacra Scrittura, S. Agostino e Aristotele.
C'è poi un compendio di testi patristici, che, senza mai essere espressamente citato, è confluito per intero nel trattato tomistico.
E ciò non per l'astuzia del nostro Autore: il testo era così famoso che nessuno avrebbe potuto nascondere il tesoro sfruttato.
Si tratta delle distinzioni 23-29 del 3 Sent. di Pietro Lombardo.
In quelle sentenze degli antichi Padri i teologi del secolo XIII avevano un primo abbozzo del trattato sulla carità.
Ormai però era un'abitudine, un'usanza sfruttare l'opera del raccoglitore, senza citarlo.
Ci si limitava a far suonare il suo nome quando si trattava di sottolinearne gli errori nelle poche illazioni personali meno felici.
In un osservatore superficiale può destare una certa meraviglia l'elenco presentato delle fonti principali.
La meraviglia non riguarda certo la Sacra Scrittura, nè S. Agostino, ma Aristotele.
La presenza di un filosofo pagano in un tema così squisitamente cristiano può sembrare addirittura una profanazione.
Eppure si deve proprio a questa « profanazione », se la teologia cattolica è riuscita ad acquisire saldamente una delle idee più profonde sulla carità.
S. Tommaso non ha esitato ad applicare alla carità soprannaturale quanto Aristotele aveva detto a proposito dell'amicizia.
Fin dal suo commento giovanile alle Sentenze egli mostra di aver compreso tutta la bellezza di questa arditissima applicazione, che oggi è comunemente accettata e propugnata dai teologi e dai moralisti cristiani.
É un vero peccato che sia tuttora inedita la reportatio dell'Aquinate di un commento albertino sull' Etica a Nicomaco, che Guglielmo di Tocco giustamente cita tra le opere di S. Tommaso.
Forse in tal caso avremmo avuto modo di vedere nella sua sorgente una delle idee più originali di quel maestro originalissimo.
Tra le fonti minori emerge sopra ogni altra l'omiletica di S. Gregorio Magno, seguita alla distanza da quella di S. Ambrogio e di S. Giovanni Crisostomo.
Più importanti sono i riferimenti alle opere dello Pseudo-Dionigi, che vengono citate quasi sempre a sostegno di una certa metafisica del bene e dell'amore.
Anche in questo caso S. Tommaso rivela la sua altissima stima e perfetta conoscenza del Corpus Dyonisianum.
Gli altri autori sacri e profani sono presenti solo incidentalmente.
Cicerone, nonostante il suo De Amicitia che è una monografia di argomento affine, è citato una sola volta per sbaglio.
Quasi la stessa sorte è toccata a S. Bernardo e al suo opuscolo De diligendo Deo: viene citato una volta sola come Valerio Massimo.
Più importanti sono invece le poche citazioni tratte dalle opere esegetiche di S. Girolamo, e già raccolte nelle Sentenze da Pietro Lombardo.
4 - Gli studi più interessanti sulle fonti, oltre quelli volti ad illustrare il concetto aristotelico-tomistico di amicizia, potrebbero essere quelli relativi ai testi biblici più importanti sul nostro argomento.
Noto che le epistole di S. Paolo e il Vangelo di S. Giovanni sono stati oggetto di ampi commenti da parte di S. Tommaso.
Nel complesso risulta che l'Autore della Somma Teologica aveva la sicura padronanza linguistica e concettuale dei testi chiave relativi alla carità.
Per una ricerca completa sulle fonti del trattato dovremmo indagare anche su quelle immediate, che sono rimaste segrete.
S. Tommaso mostra di essere a conoscenza delle controversie esistenti tra i teologi contemporanei; e ciò presuppone un contatto quotidiano, diretto o indiretto, con le opere dei maestri.
Controversie non mancavano.
Pietro Lombardo, p. es., non era stato l'unico a sostenere che la carità si identifica addirittura con lo Spirito Santo ( cfr. LANDGRAF A., « Charité a, in Dict. de pirit., t. II, col. 573 ).
L'Aquinate certo non ignorava i loro argomenti, come non ignorava quelli degli oppositori.
Altra controversia che egli mostra di ben conoscere è quella relativa alla possibilità per l'uomo di amare Dio più di se stesso anche nell'ordine naturale.
Ma non è praticamente possibile determinare autori e testi che egli ha consultato sull'argomento.
Lo stesso si dica per gli scontri polemici tra la concezione « fisica » e quella « estatica» dell'amore.
La prima era nata dalla celebre definizione agostiniana: « Caritas est motus animi ad fruendum Deo propter ipsum et proximo propter Deum » , da cui pare si possa dedurre che ogni nostro amore nasce necessariamente dalla nostra esigenza e dal nostro desiderio di perfezionamento soggettivo.
La seconda invece è affermata da coloro che trovano tale impostazione troppo egoistica, e concepisce l'amore di carità come del tutto distaccato dall'amore di concupiscenza che abbiamo per noi stessi.
Come l'estasi, esso porta la creatura fuori di sè, per tendere unicamente a Dio, amandolo per se stesso con purissimo affetto di benevolenza.
Senza impegnarsi espressamente nella controversia, mostra chiaramente di conoscerla.
Ma nessuno potrebbe dirci, con i pochi elementi che abbiamo, quali siano state, tra i contemporanei immediati, le sue fonti d'informazione.
5 - Abbiamo ripetuto sufficientemente, nelle nostre Introduzioni ai volumi di questa edizione, che l'Autore nel compilare i singoli trattati non intende costruire delle monografie teologiche; ma svolge sempre il suo tema limitandosi all'essenziale, per inserirlo - possibilmente senza ripetizioni - nella sintesi generale, che condiziona ognuna delle sue parti.
Perciò in una eventuale monografia tomistica sui vari argomenti bisogna far confluire molti dati complementari dal resto dell'Opera.
Vediamo dunque di raccogliere i presupposti e corollari relativi alla carità dai trattati che la precedono o e la seguono.
Dalla Prima Parte bisognerebbe estrarre i presupposti fondamentali che sono racchiusi nelle perfezioni divine, da cui scaturisce il dono arcano della carità, specialmente la bontà ( qq. 5,6 ), l'amore ( q. 20 ) e la misericordia ( q. 21, aa. 3,4 ).
Il posto d'onore qui spetta alla misericordia, perché nelle condizioni attuali dell'umanità il punto di partenza è la miseria ( cfr. II-II q. 30, a. 4 ).
La carità ci pone in un rapporto ditale intimità con Dio, da impegnarci direttamente con le tre Persone Divine.
Ma nel nostro trattato l'Autore si limita ad accennare vagamente alla inabitazione della SS. Trinità in noi.
É però evidente che egli presuppone quanto aveva già detto su tale argomento, e nel trattato della Trinità ( I, q. 43, aa. 5-7 ), e in quello dell'uomo ( I, q. 93 ), dove parla dell'immagine di Dio in noi.
La vera e perfetta immagine che la divinità mira a stampare in noi si attua nell'esercizio delle virtù teologali, e in modo specialissimo della carità, regina di tutte le virtù.
- Va inoltre ricordato che tra i nomi dello Spirito Santo c' è anche Caritas; poiché lo Spirito di Dio va concepito quale dono d'amore ( I, q. 38, a. 2 ).
Sui rapporti che intercorrono fra le tre virtù teologali S. Tommaso torna a dire qualche cosa anche nel trattato specifico della carità ( vedi infra, q. 23, a. 6 ); ma egli ne ha parlato già e con maggiore ampiezza nella Prima Secundae ( q. 62; q. 64, a. 4; q. 65, aa. 2-5; q. 66, a. 6; q. 67, a. 6; q. 68, a. 8 ).
Sempre in codesta Parte, che corrisponde alla morale generale, egli ha analizzato le passioni dell'amore ( qq. 26-28 ), dell'odio ( q. 29 ) e della gioia ( qq. 31-34 ), che presuppone già note nel presente trattato.
- Meriterebbe un capitolo a parte il legame esistente tra la carità e la grazia; ma un buon tomista sa di dover integrare quanto qui si dice dell'una con quanto è stato già detto dell'altra ( cfr. I-II, qq. 106-114 ).
6 - In tale contesto è evidente che la communicatio, su cui si fonda l'amicizia singolare tra l'uomo e Dio, non può essere che il bene divino partecipato mediante la grazia ( germe della beatitudine eterna ), e che si traduce nell'esercizio delle virtù teologali.
Se si fosse badato a integrare così con elementi autogeni il trattato tomistico De Caritate, forse non sarebbe nata una disputa piuttosto recente tra tomisti sul costitutivo intrinseco della nostra amicizia soprannaturale.
Alcuni infatti nella communicatio hanno visto solo lo scambio attivo implicito nella familiarità con una data persona, che i latini chiamavano conversatio.
Altri invece videro nella comunicazione o comunione solo l'elemento radicale, cioè la partecipazione alla vita divina mediante la grazia.
Il P. L. B. Gillon ha dimostrato in maniera inequivocabile che i due aspetti sono concepiti da S. Tommaso come integranti, e non come incompatibili, in questo elemento costitutivo della carità, concepita come amicizia ( cfr. Dict. de Spirit., t. II, coll. 580s. ).
- A sostegno della sua tesi egli cita la questione disputata De Caritate ( a. 2 ), ma forse è anche più persuasiva l'affermazione della I-II, q. 65. a. 5
Rimandiamo i nostri lettori al vol. X, p. 286.
Noi qui aggiungiamo questa sola osservazione: l'integrazione suddetta ricorre spontanea alla mente, se non perdiamo di vista i vari trattati connessi che l'Autore della Somma presuppone.
Anche dopo aver parlato di proposito sulla carità, S. Tommaso sentirà nel resto dell'Opera il bisogno di portare qualche ritocco.
É interessante, p. es., quanto egli dice nel trattato relativo agli stati di perfezione, non solo là dove espressamente aria della carità, come nella q. 184, aa. 1-3; ma anche nelle questioni dove indirettamente è in discussione quale elemento determinante e supremo della perfezione cristiana.
Così nel trattato sui carismi ( II-II, qq. 171-178 ), così nella considerazione delle varie forme di vita spirituale, caratterizzate dalle nere o dalla contemplazione ( ibid., qq. 179-181 ).
7 - A tutti questi elementi dobbiamo finalmente aggiungerne uno ancora più importante: l'elemento cristologico.
Tutti sanno che l'Aquinate considera la santa umanità di Cristo come la causa strumentale della nostra salvezza ( cfr. III, q. 8, a. 1; q. 62, a. 5 ); e parla di lui come Capo del Corpo Mistico.
Ma non sempre si ha premura di trarre le conseguenze logiche da questi principi.
Francesco Suarez giustamente osservava nel suo commento alla q. 8 della Tertia Pars: « Se dovessimo trattare qui di tutti gli argomenti che si nascondono sotto la metafora del capo, bisognerebbe parlare di molte questioni già studiate da S. Tommaso: perché questa immagine esprime innanzi tutto l'efficacia dell'influsso che egli esercita su tutti coloro che sono come le parti, le cellule di un medesimo corpo mistico o sociale » ( tract. XVII, in q. 8, disp. 23 ).
Ma se vogliamo una monografia esauriente sulla carità non è possibile trascurare la cristologia: la carità, come la grazia, deriva in noi per ridondanza da Cristo.
La communicatio di cui abbiamo parlato sopra, e che è tra gli elementi costitutivi della carità, avviene solo « in Cristo Gesù » ( cfr. PLUS R., In Cristo Gesù, Torino, 1950 ).
8 - É stata una vera fortuna per un numero indefinito di anime che questa complessità del trattato sulla carità non sia stata ignorata da quel grande maestro di vita spirituale che fu S. Francesco di Sales.
Egli mostra di conoscere a fondo il valore del trattato tomistico, di cui così parla nella prefazione del suo incomparabile Teotimo: « É bello ciò che scrivono della soavità della santa dilezione anime nutrite appunto in seno ad essa!
Per questo, anche tra gli Scolastici, quelli che ne hanno parlato meglio e più a lungo, si sono pure distinti maggiormente nella pietà. S. Tommaso ne ha fatto un trattato da pari suo » ( S. FRANCEScO DI SALES, Teotimo, ossia trattato dell'amor di Dio a cura di M. C. Borgogno, Alba, 1944, p. 20 ).
Non sarebbe difficile dimostrare le dipendenze del Santo vescovo di Ginevra dalle pagine dell'Aquinate proprio nel Teotimo, che giustamente è considerato l'opera sua principale e più originale.
Tale originalità rimane nonostante la dipendenza dalle fonti; perché egli mostra di sapersene servire da vero maestro.
Ebbene, S. Francesco di Sales per la sua monografia sull'amor di Dio, pur rispettando l'ordine generale della Somma Teologica - teoria, pratica, comandamenti - ha sentito il bisogno di rifarsi alla divisione delle nostre facoltà appetitive, di cui S. Tommaso ha parlato nella Prima Parte; di analizzare la passione dell'amore, come quegli aveva fatto nella Prima Secundae, pur integrandola magistralmente con le caratteristiche proprie della carità.
Continuando nella comparazione un buon tomista può trovare nel Teotimo tutta la ricchezza virtualmente racchiusa nelle poche questioni, in cui l'Autore della Somma Teologica ha voluto racchiudere il suo trattato.
S. Francesco di Sales non è affatto fuori tema quando parla dell'orazione, della contemplazione, o dei consigli evangelici: la sintesi tomistica lo autorizza pienamente; perchè la carità offre in prospettiva tutti gli sviluppi della vita cristiana.
« La carità è forma, motore e radice di tutte le virtù » e dei loro atti ( De Carit., a. 3 ).
9 - Abbiamo detto nelle pagine precedenti che a S. Tommaso va attribuito il merito di aver precisato la natura della carità, presentandola come amicizia dell'uomo con Dio.
Ora, ci sono dei teologi i quali non si contentano di una qualifica generica come questa; perché l'amicizia può essere di vari tipi.
C' è l'amicizia tra genitori e figli, tra fratelli, tra colleghi di lavoro, di armi o di affari, e c' è l'amicizia tra sposi.
Ognuna di queste amicizie ha una tonalità diversa.
Qual'è dunque il tipo che meglio corrisponde al nostro amore soprannaturale verso Dio?
Gli autori mistici non vanno molto per il sottile, e passano con disinvoltura da una descrizione della carità come amor filiale, a quella della carità come amore coniugale.
Ma ci sono dei teologi ai quali non piacciono queste ambivalenze, e quindi si pronunziano in modo esclusivo per l'uno o per l'altro.
Prima di prendere posizione in un problema del genere un discepolo di S. Tommaso sottolineerà in tutta la sua forza l'espressione del maestro: « Caritas amicitia quaedam est hominis ad Deum ».
Questo non per concludere che si tratta di un'amicizia per modo di dire, cioè in senso improprio; ma per sottolineare la singolarità di questo rapporto dell'anima con Dio: « La Carità », così bisognerebbe tradurre, « è una particolarissima amicizia dell'uomo con Dio ».
L' iniziativa di stabilire questo legame di amore non poteva certo partire dall'uomo: tutto si deve a un disegno dell' infinita misericordia di Dio.
Ora, se vogliamo specificare la natura del legame così stabilito, dobbiamo ricorrere necessariamente alla rivelazione divina, che ne mostra il carattere.
- Per afferrare nei suoi termini più universali l'espansione della carità, che abbraccia in un solo vincolo di amore uomini e angeli, S. Tommaso parla della beatitudine eterna, cioè della partecipazione di tutti gli esseri alla vita e alla felicità che è Dio stesso ( "Ut sit Deus omnia in omnibus" [ 1 Cor 15,28 ] ).
Ma nei riguardi dell'umanità il disegno si concreta nella redenzione, ossia nella nostra incorporazione a Cristo, capo di tutti i redenti.
É innegabile che la rivelazione divina presenta il nostro inserimento nell'ordine soprannaturale sotto l'aspetto di adozione.
Valga per tutti i testi, che si potrebbero citare in tal senso l'espressione dell'Apostolo S. Giovanni: « Considerate quale carità ci ha donato il Padre, così da chiamarci e da essere figli di Dio …
Carissimi, ora noi siamo figli di Dio; e ancora non è apparso quello che saremo » ( 1 Gv 3,1s ).
A queste parole fanno eco quelle di S. Paolo: "Siamo eredi di Dio, e coeredi di Cristo" ( Rm 8,17; vedi in proposito il commento di Tommaso, In Ad Rom., c. 8.,lect. 3 ).
Tutta la catechesi cristiana presenta l'anima redenta, che vive nell'amore di Cristo, come unita a Dio in un rapporto di figliolanza.
Ed è questa d'altra parte la logica conseguenza della nostra incorporazione a Cristo, Figlio di Dio.
10 - Se invece consideriamo la collettività dei credenti, cioè, la Chiesa, allora vediamo affiorare dal linguaggio biblico l'immagine nuziale.
Già gli antichi profeti parlano del popolo d'Israele come della sposa di Jahvé ( cfr. Is 54 ).
S. Paolo non fa che applicare tale concetto al nuovo Israele, alla Chiesa di Cristo ( cfr. Ef 5,23-27 ).
Si noti però che in questo caso il legame non è tra la Chiesa e Dio, ma tra la Chiesa e Cristo, sottolineando così la concretezza di un legame assai più intimo di quanto non importasse la metafora usata dagli antichi profeti.
Commentando le parole di S. Paolo ai Corinti: « Despondi enim vos uni viro virginem castam exhibere Christo » S. Tommaso scrive: « Nota che [ l'Apostolo ] passa dal plurale al singolare …, volendo dimostrare con questo che di tutti i fedeli si forma un unico corpo e un'unica Chiesa, la quale deve essere vergine in tutte le sue membra …
La Chiesa si offre a Cristo come vergine quando persevera nella fede, e chiusa nei suoi sacramenti rifiuta ogni corruzione di idolatria e di infedeltà » ( In 2 Cor 11,1 ).
Tutti sanno che S. Paolo ha sviluppato ampiamente questo concetto nella lettera agli Efesini; e l'Aquinate non manca di citarne le affermazioni più importanti in questa stessa pericope: « [ Cristo si è consegnato alla morte per la Chiesa sua sposa ], per farsi comparire davanti gloriosa la Chiesa, senza macchia, senza ruga o altra cosa siffatta, ma santa e immacolata » ( Ef 5,27 ).
E nel breve suo commento osserva: "Non era decoroso che uno sposo immacolato prendesse una sposa maculata.
Ecco perché egli se la prepara senza macchia: qua nel tempo mediante la grazia, e nella eternità mediante la gloria" ( In Ef 5,8 ).
Ma Cristo talora viene presentato come sposo anche delle singole anime, specialmente di quelle che a lui si consacrano con la castità perfetta.
Basterà citare in proposito l'Enciclica di Pio XII dedicata all'argomento: "I Santi Padri hanno considerato questo vincolo di castità perfetta come una specie di matrimonio spirituale con cui si unisce l'anima con Cristo; alcuni di essi, anzi, sono giunti fino a paragonare con l'adulterio la violazione del voto fatto.
Perciò S. Atanasio scrive che la Chiesa Cattolica è solita chiamare le vergini: spose di Cristo.
E S. Ambrogio, scrivendo concisamente della sacra vergine, esclama: "É vergine colei che sposa Dio".
Gli scritti del dottore di Milano attestano, già al quarto secolo, la grande somiglianza tra il rito della consacrazione delle vergini e quello della benedizione nuziale, ancora in uso oggi" ( Enc. Sacra Virginitas, 25 Marzo 1954 ).
Perciò concludendo possiamo dire che verso Dio la carità tende a trasformare il nostro affetto in un amore filiale; mentre nei riguardi del Cristo, cui veniamo incorporati mediante la grazia, tende a trasformarlo in un amore coniugale.
11 - Tuttavia bisogna stare attenti a non dimenticare che siamo di fronte a delle analogie.
Il legame affettivo che ci unisce a Dio, quando è autentica carità soprannaturale, è un'amicizia molto superiore a quelle che ci sono familiari nei rapporti con gli esseri umani.
"Questa non è semplice amicizia", scrive giustamente S. Francesco di Sales, "ma dilezione", per la quale eleggiamo Dio affine di amarlo con particolare amore.
"Egli è l'eletto tra mille", dice la sacra Sposa [ Ct 5,10 ].
Dico tra "mille", ma vuoi dire fra tutti; perché questa non è dilezione di semplice eccellenza, ma dilezione senza pari.
La carità, infatti, ama Iddio con una stima e preferenza della sua bontà così alta e superiore a ogni altra stima, onde gli altri amori, o non sono veri amori in confronto a questo, o, se lo sono, questo è immensamente più che un amore …
Questo non è un amore che possa essere prodotto dalle forze della natura, ma è "lo Spirito Santo che lo dà e lo spande nei nostri cuori" » ( op. cit., pp. 207s. ).
E il Dottore Angelico, parlando della carità stessa che si rivolge al prossimo, non esita ad affermare che "è una partecipazione della carità che è Dio stesso" ( cfr. q. 23, a. 2, ad 1 ).
12 - Gli esegeti si sbarazzano oggi con grande disinvoltura delle difficoltà implicite in espressioni evangeliche come questa di Lc 11,26: « Se uno viene a me e non odia il padre suo e la madre e la moglie e i figlioli e le sorelle e persino la sua stessa vita, non può essere mio discepolo ».
La spiegazione è semplice: si tratta di un ebraismo.
Nel passato le cose non furono sempre così chiare.
E non mancarono degli asceti che posero l'accento su una vera opposizione tra l'amore di Dio e gli affetti del sangue e della benevolenza naturale.
Altri poi insistevano nel riprovare ogni preferenza affettiva nell'amore verso il prossimo.
Se si ama per il Signore pare che non si debbano ammettere preferenze fondate su motivi umani, anche se per necessità preferiamo di fatto nelle opere esterne i nostri congiunti.
S. Tommaso respinge energicamente questo modo di pensare ( q. 26, aa. 6-8 ) per due motivi.
Primo, perché "la grazia non mira a distruggere, ma a perfezionare la natura"; e in secondo luogo, perché l'ordine dell'agire presuppone sempre l'ordine del volere.
E se nell'azione siamo tenuti a delle preferenze, è chiaro che vi siamo tenuti anche nell'amare.
"E la ragione è questa, che essendo principi dell'amore Dio e chi ama, necessariamente l'affetto cresce secondo la maggiore vicinanza a uno di questi due principi: sopra infatti abbiamo detto che dove si trova un principio si riscontra un ordine in rapporto a tale principio" ( a. 6 ).
Egli anche qui rivela il suo genio, che è portato a cogliere nella realtà più le armonie che i contrasti.
Ma non basta appellarsi a questi principi generali: bisogna spiegare come la carità possa essere rafforzata dagli affetti naturali, senza degenerare in naturalismo.
La spiegazione sgorga spontanea dal fatto che la carità è la forma di tutte le virtù e di tutti i loro atti.
Ora, l'affetto verso le persone a noi legate dai vincoli del sangue o dalla beneficenza è dettato dalle virtù della pietà, e della gratitudine.
"Poiché il bene su cui si fonda ogni atra amicizia onesta è ordinato al bene su cui si fonda la carità, quest'ultima viene a comandare gli atti di qualsiasi altra amicizia come l'arte che ha per oggetto il fine comanda alle arti [ minori ] che si interessano dei mezzi.
E così lo stesso amore per gli altri perché consanguinei, o parenti o concittadini, o perché congiunti con qualsiasi altro legame ordinabile al della carità, può essere comandato dalla carità.
E quindi unendo atti eliciti ed atti imperati, veniamo ad amare in più modi con la carità i nostri congiunti più stretti" ( a. 7 ).
13 - Un trattato medievale sulle opere caritative può dare facilmente l'impressione di un documento storico, senza nessun valore per la nostra società contemporanea.
Anche nella Somma Teologica la questione più importante in proposito porta un titolo che urta la nostra sensibilità sociale: "l'elemosina" ( q. 32 ).
Ed è innegabile che il pensiero dell'Autore si muove su uno sfondo di miseria e di ingiustizie sociali per noi repellenti.
Questo però non pregiudica affatto l'impostazione dei problemi di fondo che interessano la società umana come tale, e più ancora la società cristiana.
Tutti sanno che il cristianesimo è nato in un'epoca in cui lo stato non si teneva obbligato a nessun servizio sociale, all' infuori della sicurezza pubblica.
Il cristianesimo ha creato praticamente dal nulla tutte le opere assistenziali, dall'assistenza dei malati a domicilio fino ai ricoveri di mendicità e agli asili per la fanciullezza abbandonata.
E fino alla rivoluzione francese, cioè fino a tutto il secolo XVIII, tutte le opere assistenziali furono quasi una privativa della Chiesa e delle associazioni religiose da essa dipendenti.
Ma gli stati moderni, dopo aver preso coscienza del potere sociale effettivo di codeste opere, ne hanno compreso anche il dovere, sostituendosi così alla Chiesa.
E oggi non esiste un governo civile che si rispetti, il quale non senta l'obbligo di provvedere alla sicurezza sociale dei propri sudditi.
Se vogliamo, anche questa è una conquista del Cattolicesimo, che, provvedendo ai bisognosi, ha imposto ai governanti il dovere di aiutarli, ed ha creato in tutti la coscienza di un dovere sociale di solidarietà.
L'organizzazione statale però, anche nei casi di perfetto funzionamento, è ben lungi dal provvedere a tutte le necessità.
Rimane perciò sempre vera l'affermazione di Cristo: « I poveri li avrete sempre con voi » ( Mt 26,11 ).
14 - É un fatto comunque che oggi si è compreso meglio un dovere sociale anche sul piano puramente naturale, e viene spontaneo domandarsi se la carità cristiana non debba essere sostituita dalla solidarietà, dalla giustizia sociale e dalla filantropia.
É nota la drastica affermazione di Proudhon: "Carità! Io nego la carità. É misticismo! Non serve parlarmi di fraternità e di amore …
Parlatemi del diritto e dell'avere, solo criterio agli occhi miei del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male nella società.
Non vi è altro che la giustizia.
Lasciateci in pace con la carità!". ( Contradictions économiques, I, 228 ).
Ma se togliamo di mezzo la carità cristiana, per tenere insieme i tessuti della società bisognerà ricorrere alla filantropia.
Ma in questa vaga affermazione di solidarietà riscontriamo prima di tutto una deficienza di ordine nozionale.
Non si hanno idee nè precise nè universalmente valide sul valore dell'uomo come tale, cioè sul valore intrinseco della vita umana.
L'appartenenza alla medesima specie non sarà mai in grado di giustificare, p. es., il rispetto per la vita dei minorati, che sembra essere un valore negativo, un dono indesiderabile.
D'altra parte la solidarietà che si esplica mediante organi statali, per non ridursi a un soccorso anonimo e quindi « inumano », ha bisogno di essere vivificata da un sentimento di fraterna partecipazione, che soltanto la virtù nella sua pienezza è capace di suscitare e di sorreggere.
È inutile dire che la carità così brutalmente respinta dal materialismo contemporaneo non è che una degenerazione della carità cristiana.
Essa viene confusa con un sottoprodotto, un ripiego, un surrogato della giustizia.
Essa invece deve essere concepita come l'animatrice e il sostegno di tutte le virtù, giustizia compresa ( cfr. 3 Sent., d. 27, q. 2, a. 4, qc. 3 ).
Ora, è evidente che quando affiorano nei rapporti sociali dei vincoli ben definiti in riferimento a inoppugnabili diritti, la carità spinge all'adempimento di precisi doveri di giustizia.
Ma quando tali vincoli non emergono, e si forma come un vuoto legale tra l'altrui indigenza e i doveri di chi può ancora soccorrere, la carità colma codesto vuoto, senza soluzione di continuità.
Per intendersi: l'operaio che percepisce una paga appena sufficiente per il bisogno familiare, non è certo tenuto per giustizia a prestare un gratuito servizio all'infelice vicino di casa che stenta nella miseria, sia pure per colpa di una società non ancora perfettamente allineata con la giustizia.
Codesto operaio potrebbe essere tentato di limitarsi a protestare contro la società; ma se è cristiano, non esiterà a fare intanto quello che è in suo potere.
Egli compirà così un atto di carità: un dovere di un ordine superiore a quello di giustizia.
15 - Il metodo cristiano di « pronto soccorso », alla prova dei fatti, si è dimostrato ben più efficace di violente riforme sociali.
Esso certamente ha asciugato più lacrime di tutti i moti rivoluzionari, che spesso, col pretesto di cambiare la società con metodi violenti, hanno accresciuto gli affanni e le ingiustizie.
Dopo tutto, dicevamo, si deve al sentimento cristiano la creazione di quel senso di solidarietà umana e di giustizia sociale che oggi è largamente diffuso nel mondo.
Le menti più aperte avevano già intuito da secoli che l'esistenza di gravi sperequazioni nella società erano da attribuirsi a una lesione della giustizia.
Le espressioni più drastiche dei Santi Padri a favore dell'elemosina ( cfr. q. 32 ) non possono avere altro significato.
Del resto basterà ricordare quanto scrisse l'Harnack sul valore sociale della carità cristiana: mediante la carità « l'Evangelo divenne un messaggio sociale.
Quella parola che, penetrando nella più intima essenza dell'uomo, lo distaccava dal mondo per congiungerlo col suo Dio, fu altresì parola di solidarietà e di fratellanza …
La sua tendenza sociale non è un fenomeno accidentale nella sua storia, ma un elemento essenziale della sua natura » ( Missione e Propagazione del Cristianesimo nei primi tre secoli, Torino, 1906, p. 112 ).
Mentre però i Padri insistono a ricordare ai ricchi il dovere di soccorrere i bisognosi, senza distinguere tra giustizia e carità, nella Somma Teologica la distinzione si profila già in maniera inequivocabile.
Si legga in proposito la questione 32, a. 5, ad 2, sul modo d'intendere il diritto di proprietà: « I beni che uno riceve da Dio appartengono a ciascuno quanto alla proprietà; ma quanto all'uso non devono essere soltanto suoi, bensì anche degli altri, che possono essere sostentati da quanto egli ha in sovrappiù ».
Un testo fondamentale per afferrare il pensiero di S. Tommaso sul valore della ricchezza, assieme a quell'altro passo: « L'uomo deve possedere i beni esterni non come propri, ma come comuni: in modo, cioè, da comunicarli facilmente nelle altrui necessità » ( q. 66, a. 2 ).
Egli stabilisce così questo principio: il possesso dei beni può essere privato, ed è bene che lo sia per un complesso di circostanze; ma l'uso deve rimanere comune.
Per questa singolare posizione l'Aquinate è stato persino accusato di comunismo.
Di qui la precisazione di A. Vikopal: « Accusare S. Tommaso di comunismo e di individualismo, significa non avere capito il suo pensiero.
Per lui sono concezioni inaccettabili della proprietà, tanto la comunistica quanto l' individualistica, perché l'uomo non è solo un individuo isolato, nè solo ens sociale, ma contemporaneamente è individuo ed ens sociale e quindi deve rispettare tutti e due gli aspetti della proprietà » ( La dottrina del « superfluo » in S. Tommaso, Brescia, 1945, p. 37 ).
16 - Per precisare, come tutti vedono, siamo sconfinati pienamente nel campo della giustizia, la quale non può essere ridotta alla sola giustizia commutativa, e neppure a quella legale.
La giustizia infatti abbraccia anche la liberalità, che deve essere alla base di ogni autentica solidarietà sociale; perché l'attaccamento al danaro provoca inevitabilmente una frattura.
Ecco una precisazione tomistica su questo tema, che giova a meglio definire il campo specifico della carità, distinguendolo da quello riservato ad altre virtù: « Il dare della beneficenza e della misericordia deriva dal fatto che un individuo è affetto in una data maniera verso colui al quale dona; ecco perché tali prestazioni appartengono alla carità, o all'amicizia.
Invece il dare della liberalità deriva dal fatto che il donatore è affetto in una data maniera verso il danaro, in modo cioè da non bramarlo o da non amarlo; ed è per questo che egli lo elargisce, quando è necessario, non solo agli amici, ma anche agli estranei.
Ecco perché il suo dare non appartiene alla carità, bensì alla giustizia che è chiamata a regolare i beni esterni » ( q. 117, a. 5, ad 3 ).
Facile rilevare da questi e da altri testi consimili, che l'Autore mira a una giustizia sociale attraverso un delicatissimo equilibrio morale dei singoli cittadini.
E dobbiamo francamente riconoscere che nel suo pensiero le funzioni sociali dello stato sono quasi inesistenti, come nella situazione di fatto in cui egli viveva.
E giusto quindi attendersi da una società meglio organizzata un contributo più rilevante per sanare penosi squilibri.
Ma sarebbe un'illusione sperare tutto dall'organizzazione statale, che d'altra parte non può essere efficiente, senza un'adeguata educazione morale dei singoli.
Sarebbe poi addirittura mostruoso attendere la giustizia sociale dallo scatenamento degli opposti egoismi.
Quando l'uomo si lascia sedurre così dal richiamo della foresta e applica la legge della jungla, si cancellano le vestigia della carità cristiana, e alla solidarietà umana si sostituisce la ferrea disciplina, tornando, se occorre, alla crudeltà del mondo pagano.
« Negli ultimi giorni », scriveva S. Paolo con accento profetico, "verranno dei tempi difficili; perché gli uomini saranno egoisti, avidi di danaro, vantatori, superbi, maldicenti, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, disamorati, sleali, calunniatori, intemperanti, crudeli, senz'amor di bene, traditori, temerari, gonfi di orgoglio, amanti del piacere più che di Dio" ( 2 Tm 3,1-4 ).
Nel commentare questa pericope S. Tommaso si sente in dovere di appellarsi alle parole evangeliche relative anch'esse agli ultimi tempi: « Per il moltiplicarsi delle iniquità si raffredderà la carità di molti » ( Mt 24,12 ).
"In quel tempo verranno meno maggiormente la fede e la carità, perché esse saran più lontane dal Cristo …
Radice di ogni iniquità è l'amor proprio.
"Due amori hanno costruito due città" ( direbbe S. Agostino ) …
E da questa radice nascono le diverse specie di iniquità » ( In 2 ad Tim., c. 3, lect. 1 ).
Perché dunque non scenda così presto la notte sul mondo è indispensabile farsi apostoli della carità cristiana, cioè dell'amore di Dio « fino al disprezzo di sè », che costruisce la celeste Gerusalemme.
La cosa più urgente per il bene di tutti è suscitare nelle anime un po' di amor di Dio.
Valga a questo scopo anche la nostra modesta fatica di divulgatori della Somma Teologica.
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