Il Popolo Ebraico e le sue Sacre Scritture |
54. Molte promesse fatte da Dio nell'Antico Testamento sono rilette nel Nuovo alla luce di Gesù Cristo.
Questo pone un certo numero di interrogativi delicati e attuali che toccano il dialogo tra gli ebrei e i cristiani; essi riguardano la legittimità di un'interpretazione delle promesse al di là del loro senso originale immediato.
Chi, veramente, fa parte della discendenza di Abramo?
La Terra promessa è anzitutto un luogo geografico?
Quale orizzonte futuro il Dio della rivelazione riserva a Israele, il popolo eletto delle origini?
Cosa ne è dell'attesa del Regno di Dio?
E di quella del Messia?
Nell'Antico Testamento Dio promette ad Abramo una discendenza innumerevole,238 che gli verrà attraverso il suo unico figlio nato da Sara, erede privilegiato.239
Questa discendenza sarà, come lo stesso Abramo, fonte di benedizione per tutte le nazioni ( Gen 12,3; Gen 22,18 ).
La promessa è rinnovata per Isacco ( Gen 26,4.24 ) e per Giacobbe ( Gen 28,14; Gen 32,13 ).
La prova dell'oppressione in Egitto non impedisce la sua realizzazione.
Al contrario, l'inizio del libro dell'Esodo attesta a più riprese la crescita numerica degli ebrei ( Es 1,7.12.20 ).
Quando il popolo viene liberato dall'oppressione, la promessa è già compiuta: gli Israeliti sono « numerosi come le stelle del cielo », ma Dio li moltiplicherà ancora, come ha promesso ( Dt 1,10-11 ).
Il popolo cade nell'idolatria ed è minacciato di sterminio; Mosè intercede allora in suo favore presso Dio; fa appello al giuramento fatto da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe di moltiplicare la loro discendenza ( Es 32,13 ).
Una grave disobbedienza del popolo nel deserto ( Nm 14,2-4 ), della stessa gravità di quella commessa ai piedi del Sinai ( Es 32), suscita, come in Es 32, un'intercessione di Mosè, che viene esaudita e salva il popolo dalle conseguenze del suo peccato.
Tuttavia la generazione presente sarà esclusa dalla Terra promessa, ad eccezione del clan di Caleb, rimasto fedele ( Nm 14,20-24 ).
Le generazioni successive d'Israele godranno di tutte le promesse fatte ai loro antenati, a condizione, però, di optare risolutamente per « la vita, la benedizione », e non per « la morte, la maledizione » ( Dt 30,19 ), come purtroppo fanno più tardi gli Israeliti del nord, che « il Signore ha rigettato » ( 2 Re 17,20 ), e poi quelli del sud, da Lui sottomessi alla prova purificatrice dell'esilio a Babilonia ( Ger 25,11 ).
L'antica promessa rinasce ben presto in favore dei rimpatriati.240
Dopo l'esilio, per preservare la purezza della discendenza e quella delle credenze e delle osservanze, « la discendenza d'Israele si separò da tutti gli stranieri ».241
Ma più tardi, il breve libro di Giona - forse anche, secondo alcuni, quello di Rut - interviene per denunciare la ristrettezza di questo particolarismo.
Questo infatti si concilia male con un oracolo del libro di Isaia in cui Dio accorda a « tutti i popoli » l'ospitalità nella sua casa ( Is 56,3-7 ).
55. Il Nuovo Testamento non mette mai in discussione la validità della promessa ad Abramo.
Il Magnificat e il Benedictus vi fanno un esplicito riferimento.242
Gesù è presentato come « figlio di Abramo » ( Mt 1,1 ).
Essere figlia o figlio di Abramo ( Lc 13,16; Lc 19,9 ) costituisce una grande dignità.
La comprensione della promessa differisce, tuttavia, da quella che ne dà il giudaismo.
Già la predicazione di Giovanni Battista relativizza l'importanza del legame familiare con Abramo.
Discendere da lui secondo la carne non è sufficiente, né perfino necessario ( Mt 3,9; Lc 3,8 ).
Gesù dichiara che molti pagani « siederanno a mensa con Abramo », « mentre i figli del regno saranno cacciati fuori » ( Mt 8,11-12; Lc 13,28-29 ).
Ma è soprattutto l'apostolo Paolo che approfondisce questo tema.
Ai Galati, preoccupati di entrare, grazie alla circoncisione, nella famiglia del patriarca al fine di avere diritto all'eredità promessa, Paolo dimostra che la circoncisione non è affatto necessaria, perché il fattore decisivo è la fede in Cristo.
Per la fede si diventa figli di Abramo ( Gal 3,7 ), perché Cristo è suo discendente privilegiato ( Gal 3,16 ) e, per la fede, si è incorporati a Cristo e si diventa quindi « discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa » ( Gal 3,29 ).
È in questo modo - e non per la circoncisione - che i pagani possono ricevere la benedizione trasmessa per Abramo ( Gal 3,8.14 ).
In Gal 4,22-31, un'audace interpretazione tipologica porta alle stesse conclusioni.
Nella sua lettera ai Romani ( Rm 4,1-25 ), Paolo ritorna sull'argomento in termini meno polemici.
Egli mette lì in luce la fede di Abramo, fonte, secondo lui, della giustificazione e base della sua paternità, che si estende a tutti coloro che credono, siano essi di origine ebraica o pagana.
Dio, infatti, aveva fatto una promessa ad Abramo: « Sarai padre di una moltitudine di popoli » ( Gen 17,4 ); Paolo vede la realizzazione di questa promessa nell'adesione a Cristo di molti credenti di origine pagana ( Rm 4,11.17-18 ).
L'Apostolo distingue tra « i figli della carne » e « i figli della promessa » ( Rm 9,8 ).
Gli ebrei che aderiscono a Cristo sono al tempo stesso l'uno e l'altro.
I credenti di origine pagana sono « figli della promessa », il che è più importante.
In questo modo Paolo conferma e accentua la portata universale della benedizione di Abramo e situa nell'ordine spirituale la vera posterità del patriarca.
56. Ogni gruppo umano desidera abitare un territorio in modo stabile.
Altrimenti, ridotto alla condizione di straniero o di rifugiato, si trova, nella migliore delle ipotesi, tollerato o, nella peggiore, sfruttato o continuamente respinto.
Israele è stato liberato dalla schiavitù dell'Egitto e ha ricevuto da Dio la promessa di una terra, la cui realizzazione richiederà del tempo e porrà molti problemi nel corso della storia.
Per il popolo della Bibbia, anche dopo il ritorno dall'esilio a Babilonia, la terra rimane oggetto di speranza: « Quelli benedetti dal signore possederanno la terra » ( Sal 37,22 ).
La Bibbia ebraica non conosce l'espressione « Terra promessa », perché non ha una parola per dire « promettere ».
L'idea viene espressa col futuro del verbo « dare », o con l'uso del verbo « giurare »: « la terra che ha giurato di darti » ( Es 13,5; Es 33,1; ecc. ).
Nelle tradizioni relative ad Abramo, la promessa di una terra completa quella di una discendenza.243
Si tratta della « terra di Canaan » ( Gen 17,8 ).
Dio suscita un capo, Mosè, per liberare Israele e condurlo nella Terra promessa.244
Ma il popolo nel suo insieme manca di fede: dei fedeli iniziali, ben pochi sopravvivranno alla lunga traversata del deserto; sarà la giovane generazione a entrare nel paese ( Nm 14,26-38 ).
Mosè stesso muore senza potervi entrare ( Dt 34,1-5 ).
Sotto la guida di Giosuè, le tribù si insediano nel paese promesso.
Per la tradizione sacerdotale, il paese deve d'ora in poi restare senza macchia, perché vi abita Dio stesso ( Nm 35,34 ).
Il dono è quindi condizionato alla purezza morale245 e al servizio al signore soltanto, con l'esclusione di tutti gli dei stranieri ( Gs 24,14-24 ).
D'altra parte, Dio solo è il proprietario del paese.
Gli Israeliti vi abitano solo a titolo di « forestieri e inquilini »,246 come un tempo i patriarchi ( Gen 23,4; Es 6,4 ).
Dopo il regno di Salomone, la terra dell'eredità si scinde in due regni.
I profeti stigmatizzano l'idolatria e le ingiustizie sociali; annunciano il castigo: perdita della terra, che sarà conquistata da stranieri, ed esilio della popolazione.
Ma lasciano sempre la porta aperta a un ritorno, a una nuova occupazione della Terra promessa,247 non senza accentuare il ruolo centrale di Gerusalemme e del suo Tempio.248
Più tardi la prospettiva si allarga a un futuro escatologico.
Pur restando uno spazio geografico delimitato, la Terra promessa diventa un polo di attrazione per le nazioni.249
Il tema della terra non deve far dimenticare il modo in cui il libro di Giosuè racconta l'ingresso nella Terra promessa.
Molti testi250 evocano l'atto di consacrazione a Dio dei frutti della vittoria, cioè l'anatema ( herem ).
Questo atto implica, per impedire ogni contaminazione religiosa straniera, l'obbligo di distruggere i luoghi e gli oggetti di culto pagani ( Dt 7,5 ), ma anche ogni essere vivente ( Dt 20,16-18 ).
Similmente, contro una città israelitica diventata idolatra, Dt 13,16-18 prescrive la messa a morte di tutti gli abitanti e la sua completa distruzione col fuoco.
Al tempo della composizione del Deuteronomio - così come del libro di Giosué - l'anatema era un postulato teorico, poiché in Giuda non c'erano più popolazioni non israelite.
È quindi possibile che la prescrizione dell'anatema sia il risultato di una proiezione nel passato di preoccupazioni posteriori.
Il Deuteronomio, infatti, si preoccupa di rafforzare l'identità religiosa di un popolo esposto al pericolo dei culti stranieri e dei matrimoni misti.251
Per meglio comprendere questa menzione dell'anatema, bisognerà quindi tener conto di tre fattori di interpretazione, uno teologico, l'altro morale, e l'ultimo, piuttosto sociologico:
il riconoscimento della Terra come dominio inalienabile del Signore;
la necessità di risparmiare al popolo ogni tentazione che poteva comprometterne la totale fedeltà a Dio;
infine, la tentazione molto umana di mescolare alla religione le forme più aberranti di ricorso alla violenza.
57. Il Nuovo Testamento sviluppa poco il tema della Terra promessa.
La fuga di Gesù e dei suoi genitori in Egitto e il ritorno nella « terra d'Israele » ( Mt 2,20-21 ) riproducono chiaramente l'itinerario dei padri; alla base del racconto c'è una tipologia teologica.
Nel discorso di Stefano che ricorda la storia, il termine « promettere » o « promessa » è vicino a « terra » ed « eredità » ( At 7,2-7 ).
L'espressione « Terra promessa », inesistente nell'Antico Testamento, si incontra nel Nuovo ( Eb 11,9 ) in un passo che fa, sì, memoria dell'esperienza storica di Abramo, ma per meglio sottolineare il suo carattere provvisorio, incompiuto, e il suo orientamento verso il futuro assoluto del mondo e della storia: per l'autore, la « terra » d'Israele ha il solo scopo di indirizzare verso una terra diversa, una « patria celeste ».252
Una beatitudine effettua lo stesso tipo di passaggio dal significato geografico storico253 a un significato più aperto: « i miti possederanno la terra » ( Mt 5,5 ); « la terra » equivale lì a « Regno dei cieli » ( Mt 5,3.10 ), in un orizzonte di escatologia al tempo stesso presente e futura.
Gli autori del Nuovo Testamento non fanno che spingere oltre un processo di approfondimento simbolico messo già in moto nell'Antico Testamento e nel giudaismo intertestamentario.
Questo non deve, però, farci dimenticare che una terra concreta è stata promessa da Dio a Israele e ricevuta effettivamente in eredità; questo dono della terra era condizionato alla fedeltà all'alleanza ( Lv 26; Dt 28).
58. Quale avvenire attende il popolo dell'alleanza?
Nel corso della storia, esso si è posto costantemente questa domanda, in stretto legame con i temi del giudizio e della salvezza di Dio.
Già da prima dell'esilio, i profeti avevano rimesso in discussione la speranza ingenua in un « Giorno del Signore » che avrebbe apportato automaticamente salvezza e vittoria sul nemico.
Proprio al contrario, per annunciare la sorte funesta di un popolo dalla coscienza sociale e dalla fede gravemente mancanti, essi ricorrono all'immagine del Giorno del Signore che è « tenebre e non luce »,254 ma non senza lasciare intravedere dei barlumi di speranza.255
Il dramma dell'esilio provocato dalla rottura dell'alleanza ripresenta lo stesso interrogativo, nella sua massima drammaticità: Israele, lontano dalla sua terra, può ancora sperare la salvezza di Dio?
C'è per esso un futuro?
Ezechiele, prima, e il Secondo Isaia, poi, annunciano in nome di Dio un nuovo esodo, cioè un ritorno d'Israele nel suo paese,256 un'esperienza di salvezza, che implica numerosi elementi:
la riunificazione del popolo disperso ( Ez 36,24 ) e
la diretta responsabilità del Signore stesso su di esso,257
un soffio di trasformazione interiore profonda,258
la rinascita nazionale259
e cultuale,260
così come una valorizzazione delle scelte divine del passato, in particolare la scelta degli antenati Abramo e Giacobbe261
e quella del re Davide ( Ez 34,23-24 ).
Gli sviluppi profetici più recenti si inseriscono nella stessa linea.
Alcuni oracoli solenni dichiarano che la stirpe d'Israele sussisterà sempre,262 non cesserà mai di essere una nazione davanti al Signore e non sarà mai da lui ripudiata, nonostante tutto quello che ha fatto ( Ger 31,35-37 ).
Il Signore promette di ricostituire il suo popolo.263
Le antiche promesse in favore d'Israele sono confermate.
I profeti postesilici ne ampliano la portata in una prospettiva universalistica.264
Riguardo alle prospettive future, bisogna sottolineare, come una sorta di contropartita, l'importanza di un tema particolare: quello del resto.
In questo quadro teologico la perennità d'Israele è garantita, certo, ma all'interno di un gruppo ristretto che diventa, invece e al posto di tutto il popolo, portatore della speranza nazionale e della salvezza di Dio.265
La comunità postesilica si considera un « resto scampato », in attesa della salvezza di Dio.266
59. Alla luce della risurrezione di Gesù cosa ne è d'Israele, il popolo eletto?
Il perdono divino gli viene offerto subito ( At 2,38 ), così come la salvezza per la fede nel Cristo risorto ( At 13,38-39 ); molti ebrei lo accettano,267 compreso « un gran numero di sacerdoti » ( At 6,7 ), ma i capi si oppongono alla Chiesa nascente e, in ultima analisi, il popolo nel suo insieme non aderisce a Cristo.
Questa situazione ha sempre suscitato un forte interrogativo sul compimento del disegno salvifico di Dio.
Il Nuovo Testamento ne cerca la spiegazione nelle antiche profezie e constata che questa situazione è lì prefigurata, soprattutto in Is 6,9-10, citato molto spesso a questo proposito.268
Paolo, in particolare, ne prova una viva sofferenza ( Rm 9,1-3 ) e approfondisce il problema ( Rm 9–11 ).
I suoi « fratelli secondo la carne » ( Rm 9,3) « hanno urtato contro la pietra d'inciampo » posta da Dio; invece di contare sulla fede, hanno contato sulle opere ( Rm 9,32 ).
Sono inciampati, ma non « per cadere » ( Rm 11,11 ).
Infatti « Dio non ha ripudiato il suo popolo » ( Rm 11,2 ); ne è testimone l'esistenza di un « Resto », che crede in Cristo; Paolo stesso fa parte di questo Resto ( Rm 11,1.4-6 ).
Per l'Apostolo, l'esistenza di questo Resto garantisce la speranza della piena restaurazione d'Israele ( Rm 11,12.15 ).
Il venir meno del popolo eletto rientra in un piano paradossale di Dio: serve alla « salvezza dei pagani » ( Rm 11,11 ).
« L'indurimento di una parte d'Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti.
Allora tutto Israele sarà salvato », grazie alla misericordia di Dio, che gli è stata promessa ( Rm 11,25-26 ).
Nel frattempo, Paolo mette in guardia i cristiani venuti dal paganesimo contro il pericolo di orgoglio e di ripiegamento su di sé che incombe su di essi, se dimenticano che sono solo dei rami selvatici innestati sull'olivo buono, Israele ( Rm 11,17-24 ).
Gli Israeliti restano « amati » da Dio e promessi a un avvenire luminoso, « perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » ( Rm 11,29 ). Questa è la dottrina molto positiva alla quale i cristiani devono costantemente ritornare.
60. Molti passi della Bibbia esprimono l'attesa di un mondo totalmente rinnovato con l'instaurazione di un regno ideale, di cui Dio prende e conserva tutta l'iniziativa.
Tuttavia, i due Testamenti differiscono profondamente, non solo per l'importanza che l'uno o l'altro accorda a questo tema, ma soprattutto per la diversità degli accenti.
La concezione della regalità divina affonda le sue radici nelle culture dell'Oriente antico.
La regalità di Dio sul suo popolo Israele appare nel Pentateuco269 e soprattutto nel libro dei Giudici ( Gdc 8,22-23 ) e nel primo libro di Samuele ( 1 Sam 8,7; 1 Sam 12,12 ).
Dio è anche acclamato re di tutto l'universo, in particolare nei salmi del regno ( Sal 93–99 ).
Il Signore si mostra come re al profeta Isaia verso il 740 a.C. ( Is 6,3-5 ).
Un profeta lo rivela come re universale, circondato da una corte celeste ( 1 Re 22,19-22 ).
Durante l'esilio i profeti concepiscono il regno di Dio come una realtà che agisce nel cuore stesso della storia movimentata del popolo eletto.270
Lo stesso si constata in molti testi profetici più recenti.271
Tuttavia il tema comincia già ad assumere una colorazione escatologica più accentuata,272 che si manifesta nel giudizio sovrano che il Signore eserciterà sulle nazioni del mondo, nella sua residenza sulla collina di Sion ( Is 2,1-4 = Mi 4,1-4 ).
Il massimo dell'intensità escatologica sarà raggiunta nell'apocalittica, con l'emergenza di una figura misteriosa presentata « come figlio d'uomo », « che viene sulle nubi del cielo », al quale « fu dato potere, gloria e regno » su « tutti i popoli » ( Dn 7,13-14 ).
La strada è così aperta verso la rappresentazione di un regno trascendente, celeste, eterno, che il popolo dei santi dell'Altissimo è chiamato ad assumere ( Dn 7,18.22.27 ).
È nel salterio che il tema del regno di Dio raggiunge il suo vertice.
Sei salmi spiccano tra tutti,273 cinque dei quali hanno in comune una stessa frase chiave: « Il signore regna », collocata o all'inizio o al centro.274
Si nota una forte insistenza sulle dimensioni cosmica, etica e cultuale del regno.
Nei salmi Sal 47 e Sal 96 viene accentuato l'universalismo: « Dio regna sulle nazioni ».275
Il salmo 99 riserva un posto alle mediazioni umane, regale, sacerdotale e profetica ( Sal 99,6-8 ).
I salmi Sal 96 e Sal 98 aprono la porta a una concezione escatologica e universale del regno di Dio.
D'altra parte, il salmo 114, salmo pasquale, celebra il Signore come re, al tempo stesso d'Israele e dell'universo.
Il regno di Dio viene evocato in molti altri salmi.
61. Il tema del Regno di Dio, bene attestato nell'Antico Testamento, ma presente soprattutto nel salterio, diventa uno dei temi di gran lunga centrali nei vangeli sinottici, perché è alla base della predicazione profetica di Gesù, della sua missione messianica, della sua morte e della sua risurrezione.
L'antica promessa trova ora la sua realizzazione, secondo una feconda tensione tra il già e il non-ancora.
È vero che al tempo di Gesù la concezione veterotestamentaria di un « regno di Dio » imminente, terreno, politico, centrato su « Israele » e su « Gerusalemme » era ancora fortemente radicata ( Lc 19,11 ), persino nei discepoli ( Mt 20,21; At 1,6 ).
Ma il Nuovo Testamento opera, nell'insieme, un capovolgimento radicale, già abbozzato nel giudaismo intertestamentario dove si faceva strada l'idea di un Regno celeste ed eterno ( Giubilei XV, 32; XVI, 18 ).
Matteo usa il più delle volte l'espressione « regno dei cieli » ( 33 volte ), un semitismo che permette di evitare di pronunciare il nome di Dio.
A Gesù spetta la missione di « proclamare la buona novella del regno » insegnando, guarendo i malati276 e scacciando i demoni ( Mt 12,28 ).
L'insegnamento di Gesù sulla « giustizia » necessaria per entrare nel regno ( Mt 5,20 ) propone un ideale religioso e morale molto elevato ( Mt 5,21-7,27 ).
Gesù annuncia che il regno di Dio è vicino ( Mt 3,2; Mt 4,17 ), il che mette nel tempo presente una tensione escatologica.
Il regno appartiene già da ora a quelli che sono « poveri in spirito » ( Mt 5,3 ) e a coloro che sono « perseguitati per la giustizia » ( Mt 5,10 ).
Molte parabole mostrano il regno di Dio presente e operante nel mondo, come un seme che germoglia ( Mt 13,31-32 ), il lievito attivo nella pasta ( Mt 13,33 ).
Per il suo ruolo nella Chiesa, Pietro riceverà « le chiavi del regno dei cieli » ( Mt 16,19 ).
Altre parabole esprimono l'aspetto di giudizio escatologico.277
Il regno di Dio si realizza allora col regno del Figlio dell'uomo.278
Un confronto tra Mt 18,9 e Mc 9,47 mostra che il Regno di Dio evoca l'accesso alla vera « vita », l'accesso, cioè, alla comunione che Dio realizza col suo popolo, nella giustizia e nella santità, in Gesù Cristo.
Marco e Luca presentano lo stesso insegnamento di Matteo, con sfumature proprie.
Negli altri libri del Nuovo Testamento, il tema è meno presente; affiora comunque abbastanza spesso.279
Senza usare l'espressione « il regno di Dio »,280 l'Apocalisse descrive il grande combattimento tra le forze del male che porta all'instaurazione di questo regno: « Il regno del mondo » appartiene ora « al Signore nostro e al suo Cristo », « egli regnerà nei secoli dei secoli » ( Ap 11,15 ).
62. In un certo numero di testi biblici, la speranza di un mondo migliore passa attraverso quella di un mediatore umano.
Si attende il re ideale, che libererà dall'oppressione e farà regnare una giustizia perfetta ( Sal 72 ).
Questa attesa si è precisata a partire dall'oracolo di Natan che promette al re Davide che gli sarebbe succeduto uno dei suoi figli e che il suo regno sarebbe durato per sempre ( 2 Sam 7,11-16 ).
Il senso immediato di questo oracolo non è messianico: non prometteva a Davide un successore privilegiato che avrebbe inaugurato il regno definitivo di Dio in un mondo rinnovato, ma semplicemente un successore immediato, che avrebbe a sua volta avuto dei successori.
Ciascuno dei re discendenti di Davide era un « unto » del Signore, in ebraico m~šiah., perché la consacrazione dei re avveniva con una unzione d'olio, ma nessuno era il Messia.
Altre profezie, suscitate dall'oracolo di Natan durante le crisi dei secoli successivi, promettevano anzitutto la permanenza della dinastia, come prova della fedeltà di Dio verso il suo popolo ( Is 7,14 ), ma designavano anche, sempre di più, il ritratto di un re ideale, che avrebbe instaurato il regno di Dio.281
Anche la delusione delle attese politiche contribuiva a far maturare una speranza più profonda.
In questo senso venivano riletti gli antichi oracoli e i salmi regali ( Sal 2; Sal 45; Sal 72; Sal 110 ).
Il risultato di questa evoluzione appare negli scritti dell'epoca del secondo Tempio e nei manoscritti di Qumran.
Questi esprimono un'attesa messianica in diverse forme: messianismo regale, sacerdotale, celeste.282
D'altra canto, alcuni scritti giudaici combinano l'attesa di una salvezza terrena per Gerusalemme e quella di una salvezza eterna nell'aldilà, proponendo l'idea di un regno messianico terreno, provvisorio, che preluderebbe all'avvento del regno definitivo di Dio nella nuova creazione.283
In seguito, la speranza messianica continua, certo, a far parte delle tradizioni del giudaismo, ma non appare in tutte le sue correnti come un tema centrale e polarizzante, né come una chiave unica.
63. Per le comunità cristiane del primo secolo, al contrario, la promessa di un messia figlio di Davide diventa una chiave di lettura primordiale ed essenziale.
Se, nell'Antico Testamento e nella letteratura intertestamentaria, è ancora possibile parlare di escatologia senza messia nel quadro di un vasto movimento di attesa escatologica, nel Nuovo, invece, si riconosce chiaramente in Gesù di Nazaret il Messia promesso, l'atteso d'Israele ( e di tutta l'umanità ), quindi colui che, nella sua persona, realizza le promesse di Dio.
Da qui la preoccupazione di sottolineare la sua ascendenza davidica284 e anche la sua superiorità in rapporto all'antenato regale, poiché questi lo chiama suo « Signore » ( Mc 12,35-37 e par. ).
Nel Nuovo Testamento ricorre solo due volte il termine māšiah, traslitterato in greco messias e seguito dalla sua traduzione greca christos, che significa « unto ».285
In Gv 1,41 il contesto orienta verso un messianismo regale ( cf Gv 1,49: « re d'Israele » ); in Gv 4,25 verso un messianismo profetico, conformemente alla credenza samaritana: « Egli ci annunzierà ogni cosa ».
Qui Gesù si riconosce esplicitamente in questo titolo ( Gv 4,26 ).
Altrove, il Nuovo Testamento esprime l'idea di messia con il termine christos, ma talvolta anche con l'espressione « colui che viene ».286
Il titolo christos è riservato a Gesù, fatta eccezione di alcuni testi che denunciano i falsi messia.287
Con kyrios, « Signore », è il titolo più frequente per esprimere l'identità di Gesù.
Esso riassume il suo mistero; è l'oggetto di un gran numero di confessioni di fede nel Nuovo Testamento.288
Nei sinottici, il riconoscimento di Gesù come messia gioca un ruolo di primo piano, in particolare nella confessione di Pietro ( Mc 8,27-29 e par. ).
Il divieto formale di rivelare il titolo non equivale affatto a una sua negazione, ma conferma piuttosto la novità radicale della sua comprensione, per contrasto con l'attesa politica troppo terra terra dei discepoli e delle folle ( Mc 8,30 ).
Si afferma l'idea di un passaggio obbligato attraverso la sofferenza e la morte.289
Di fronte al sommo sacerdote durante il suo processo, Gesù si identifica chiaramente col messia secondo Mc 14,61-62: il dramma della passione fuga ogni dubbio sulla specificità e l'unicità del messianismo di Gesù, nella linea del Servo sofferente descritto da Isaia.
L'evento pasquale apre la strada alla parusia, cioè alla venuta del « figlio dell'uomo sulle nubi del cielo » ( Mc 13,26 e par.), come già l'apocalisse di Daniele ne aveva espresso in modo confuso la speranza ( Dn 7,13-14 ).
Nel quarto vangelo, l'identità messianica di Gesù diventa oggetto di magnifiche professioni di fede,290 ma anche di molte controversie con i Giudei.291
Numerosi « segni » mirano a confermarla.
Si tratta chiaramente di una regalità trascendente ( Gv 18,36-37 ), senza paragone con le aspirazioni nazionalistiche e politiche allora in voga ( Gv 6,15 ).
Secondo l'oracolo di Natan, il figlio successore di Davide sarà riconosciuto come figlio di Dio.292
Il Nuovo Testamento proclama che Gesù è effettivamente « il Cristo, il Figlio di Dio »293 e dà della sua filiazione divina una definizione trascendente: Gesù è una sola cosa con il Padre.294
Il secondo volume di Luca, testimone privilegiato della fede postpasquale della Chiesa, fa coincidere la consacrazione regale ( messianica ) di Gesù con il momento della sua risurrezione ( At 2,36 ).
La dimostrazione della credibilità del titolo diventa un elemento essenziale della predicazione apostolica.295
Nel corpus paolino, il nome « Cristo » sovrabbonda, utilizzato spesso come nome proprio, profondamente radicato nella teologia della croce ( 1 Cor 1,13; 1 Cor 2,2 ) e della glorificazione ( 2 Cor 4,4-5 ).
Basandosi sul salmo 110, versetti 1 e 4, la lettera agli Ebrei dimostra che il Cristo è messia-sacerdote ( Eb 5,5-6.10 ), oltre che messia-re ( Eb 1,8; Eb 8,1 ).
Essa esprime la dimensione sacerdotale delle sofferenze di Cristo e della sua glorificazione.
Secondo l'Apocalisse, la messianicità di Gesù si situa nella linea di Davide: Gesù possiede « la chiave di Davide » ( Ap 3,7 ), realizza il messianismo davidico del salmo 2;296 egli dichiara: « Io sono la radice e la stirpe di Davide » ( Ap 22,16 ).
Secondo il Nuovo Testamento, Gesù realizza quindi nella sua persona, in modo particolare nel suo mistero pasquale, l'insieme delle promesse di salvezza legate alla venuta del Messia.
È il figlio di Davide, sì, ma anche Servo sofferente, Figlio dell'uomo, e persino Figlio eterno di Dio.
In lui la salvezza riveste una dimensione nuova.
L'accento si sposta da una salvezza soprattutto terrena verso una salvezza trascendente, che va oltre le condizioni di un'esistenza temporale.
Si rivolge perciò ad ogni persona, a tutta l'umanità.297
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